Il professore Antonio Canepa “ufficialmente” viene ucciso all’alba del 17 giugno del 1945 nel corso di un presunto scontro con i carabinieri alle porte di Randazzo. Con lui, sempre “ufficialmente”, cadono sotto i colpi dei militari Carmelo Rosano e Giuseppe Lo Giudice. Antonio Canepa, alias Mario Turri, era il creatore e il comandante dell’EVIS (Esercito Volontario Indipendenza Siciliana), Carmelo Rosano il suo vice, Giuseppe Lo Giudice un giovane militante. Alla periferia di Randazzo decenni addietro venne posto un cippo a memoria dei tre “caduti per l’Indipendenza”, a Catania nel Viale degli Uomini Illustri la tomba dove nel 1950 vennero traslate le spoglie che erano rimaste per cinque anni nella nuda terra del cimitero di Jonia (oggi Giarre) senza alcun segno di riconoscimento. Una storia volutamente dimenticata, rinverdita soltanto da pochi (purtroppo molto pochi) che ancora credono e sperano in una Sicilia libera dai giochi politici internazionali, nazionali e locali.
Una vicenda tuttavia importante quella della fine di Antonio Canepa, una vicenda che non si ritrova nei libri di scuola, una storia che si è voluta seppellire perché “riconoscerla” significherebbe spiegare come e da cosa è nata la Repubblica Italiana, quali patti scellerati vennero sottoscritti settanta anni addietro fra chi già deteneva un potere in Sicilia strettamente collegato con il potere che già albergava a Roma Capitale. Una Repubblica nata dal e sul sangue dei Siciliani che aspiravano a un futuro diverso e che pochi ma influenti Siciliani tradirono soffocando la legittima aspirazione ad una indipendenza dovuta.
No, Antonio Canepa, Rosano e Lo Giudice non vennero trucidati da tre carabinieri armati di moschetto 91 a Randazzo: vennero uccisi “altrove”, e Randazzo fu il luogo deputato per una messa in scena che, all’epoca, accontentava tutti. In realtà il “luogo” dove vennero assassinati i tre dell’EVIS, caduti in un’imboscata, poca rilevanza ha: importante fu l’azione omicida studiata e preparata nei minimi dettagli su mandato di esponenti dell’allora governo provvisorio. Che qualcuno possa smentire, con documenti alla mano, quest’affermazione della quale ce ne assumiamo la piena responsabilità
Con l’assassino di Canepa, Rosano e Lo Giudice si metteva un punto fermo alla “guerra fratricida” Italia contro Sicilia iniziata. Va ricordato che caduto il Fascismo il 25 luglio 1943, dopo l’8 settembre 1943 costituitosi il primo Governo Badoglio, l’Italia resta divisa in due: al nord la lotta partigiana, al sud il Governo alleato e una situazione politica ed economica disastrosa. Il 10 gennaio del 1944 gli alleati consentono la ricostituzione dei partiti in Sicilia e un mese dopo, il 14 febbraio, l’Isola viene riconsegnata all’Amministrazione italiana. Il 30 marzo successivo viene nominato Alto Commissario per la Sicilia il filo indipendentista Francesco Musotto che, in meno di tre mesi, il 18 giugno viene sostituito nella carica da Salvatore Aldisio. Da quel momento gli intrecci, i collegamenti tra i partiti, la monarchia, il Movimento indipendentista, e la mafia sia con il Comando militare alleato, sia con i responsabili delle Forze armate italiane, sia con il Vaticano, diventano talmente trasversali che venirne a capo oggi appare impresa impossibile. Restano i fatti. I tumulti spontanei non manipolati da forze politiche ma pura espressione dello stato d’animo della popolazione hanno inizio ai primi del 1944 a Canicatti, a Raffadali e a Ganci. Le prime vittime sono del 31 marzo a Partinico, dove, a seguito di una sommossa contro accaparratori di grano, perdono la vita un maresciallo dei carabinieri ed un ragazzo di quattordici anni. Il 19 aprile dimostrazioni a Naso contro il Commissario prefettizio provocano l’arresto dì una cinquantina di comunisti e la chiusura della locale federazione del PCI. Altri due morti a Regalbuto il 27 maggio, in uno scontro a fuoco fra carabinieri e dimostranti Altre vittime l’indomani a Licata fra una folla di mietitori che protestavano contro i collocatori dell’Ufficio provinciale del lavoro. Il 30 luglio, fortunatamente incruenta, sommossa a Palermo di manifestanti, con alla testa gli operai dei Cantieri navali. A quella sommossa incruenta nel capoluogo regionale segue la strage di via Maqueda, avvenuta il 19 ottobre del 1944. Un episodio emblematico del clima arroventato che si viveva. Granai del popolo vuoti, disoccupazione, fame. A Palermo, un corteo di impiegati da via Maqueda si indirizza verso la prefettura: migliaia di persone disperate e urlanti. La Prefettura chiede l’intervento della Polizia, i poliziotti che stanno avendo la peggio, chiedono l’intervento dei militari. Giungono le forze regolari del 139° Reggimento di fanteria che si parano davanti alla folla. I soldati ricevono ordini precisi: fermare ad ogni costo la fiumana popolare. I soldati aprono il fuoco: è un bagno di sangue. I soldati sparano, ed a terra rimangono 19 morti e 254 feriti, 71 dei quali moriranno in ospedale. Aldisio, dopo i luttuosi fatti di Palermo, non solo proibisce i funerali pubblici delle vittime, ma istituisce nella città lo stato d’assedio, presidiandola con l’Esercito, vietando le pubbliche riunioni e gli assembramenti stradali. Aldisio ordina anche l’arresto di numerosi separatisti, la perquisizione e chiusura delle sedi del MIS (Movimento Indipendenza Siciliana), e il sequestro di materiale di propaganda definito “pericoloso e antistatale”. Il 14 dicembre 1944 la Lega Giovanile Separatista organizza a Catania un manifestazione di protesta al richiamo alle armi. Un corteo di studenti, con cartelloni con la scritta “Non partiremo”, si dirige nella mattinata verso il Distretto militare: qui giunti si fermano urlando. Un militare lancia una bomba a mano: un giovane sarto perde la vita. II corteo viene sciolto violentemente. : i primi quindici giorni del nuovo anno, il 1945, sono tumultuosi: la lotta è aperta, la gente dice “Basta!” a quello che ritiene un nuovo regime di oppressione. E’ rivolta da un capo all’altro dell’isola. II primo giorno dell’anno Piana degli Albanesi – patria di Nicola Barbato che ha lasciato dai tempi dei Fasci siciliani in retaggio nei suoi compaesani uno spirito comunista molto radicato – si autoproclama Repubblica Popolare. Piana degli Albanesi, sede di una comunità etnica di lontane origini balcaniche, insorge a seguito del furto perpetrato da un carabiniere di guardia ai granai del popolo. A capo della rivolta è Giacomo Perrotta, conduttore rurale, antimilitarista convinto: forma il “Circolo d’Unione” e, con l’approvazione di tutta la comunità, decide l’autogoverno per la sua terra. Nessuno spargimento di sangue, nessuna ripartizione partitica del potere (nel consiglio direttivo c’è addirittura un vescovo, monsignor Giuseppe Perniciaro) macchia i cinquanta giorni d’indipendenza. Tra la notte del 19 e 20 febbraio un corpo di spedizione, forte di duemila uomini, composto di carabinieri, alpini e fanteria, pone fine all’impossibile sogno, e tutti i protagonisti dell’avventura finiscono in carcere.
Il 4 gennaio insorge Ragusa: la folla qui è esasperata per i continui arresti di giovani renitenti alla leva. I carabinieri sono costretti a barricarsi nella caserma. L’indomani rivolta a Vittoria: il popolo cattura la guarnigione della Guardia di Finanza, impossessandosi delle armi in dotazione; un commando di armati occupa le carceri liberando settantacinque detenuti. Lo stesso giorno si ribella Scicli, e quindi Avola, dove è fatto saltare un ponte sulla linea ferroviaria per Siracusa, mentre gli uffici governativi e le caserme sono messi a soqquadro. Il 7 gennaio è la volta di Comiso, dove i separatisti agiscono di comune accordo con i comunisti. A Comiso si costituisce un Comitato del Popolo che, insediatosi in Municipio, emette un proclama nel quale si dichiara decaduta l’autorità dello Stato italiano, e crea solennemente la Repubblica di Comiso. Ingenti forze militari annientano le velleità della neorepubblica, velleità che sono pagate a caro prezzo: diciannove morti e sessantatre feriti fra i rivoltosi. Fra le truppe regolari si contano quindici perdite: carabinieri, soldati, due ufficiali e un sottufficiale.
L’11 gennaio a Naro, in provincia di Agrigento, vengono bruciate la caserma dei carabinieri e l’Ufficio delle Imposte. Nel pomeriggio dello stesso giorno a Palazzolo fanno la stessa fine i locali della Pretura, del Municipio e dell’Ufficio Annonario. Anche qui per sedare la sommossa intervengono i militari, ma non basta un battaglione che ingaggia battaglia: per sedare la rivolta, è necessario l’intervento dell’artiglieria e dei mezzi blindati. Secondo il ministero dell’Interno “i movimenti sediziosi sono stati predisposti e capeggiati da esponenti separatisti”.
Va ricordato che in carica dal 12 dicembre 1944 al 21 giugno 1945 era il Governo Bonomi III con la Democrazia Cristiana (DC), il Partito Comunista Italiano (PCI), il Partito Liberale Italiano (PLI), il Partito Democratico del Lavoro (PDL). Nel governo figurava come vice presidente del Consiglio Palmiro Togliatti (PCI), ministro degli Esteri Alcide De Gasperi (DC), sottosegretario Eugenio Reale (PCI), all’Interno lo stesso Bonomi (PDL), alle Finanze Antonio Pesenti (PCI), all’Agricoltura Fausto Gullo (PCI) fra i sottosegretari Giuseppe Montalbano (Marina) e Bernardo Mattarella (Istruzione). Nel precedente Governo Badoglio in carica dal 22 aprile 1944 all’8 giugno 1944, per un mese e sedici giorni, vice presidente del Consiglio dei ministri era sempre Palmiro Togliatti, mentre ministro dell’Interno era Salvatore Aldisio (DC). Dunque un 1944-1945 (e oltre, poi, sino al 1950): italiani contro Siciliani mentre al nord la guerra infuriava per cacciare dal Paese i tedeschi (ex alleati, ora nemici) e i fascisti rimasti aggrappati alle ultime velleità naziste. In questo periodo, quando ancora le sorti della guerra rimanevano incerte nel timore di un colpo di coda della Germania, in Sicilia avvengono le manovre politiche più complesse: c’è ancora chi vuol salvare la Monarchia, c’è chi vorrebbe cavalcare l’onda indipendentista-separatista. I primi mesi del 1945 sono cruciali per gli intrecci più scellerati.
Siamo a pochi mesi dalla fine della guerra: il 4 maggio c’è la resa dei tedeschi in Italia, l’11 successivo il crollo del Terzo Reich e la fine delle ostilità in Europa. Si va verso un riassetto della Nazione-Italia. Le misure contro gli indipendentisti si fanno maggiormente aspre, il paventato Esercito di volontari (l’EVIS organizzato dal professore Antonio Canepa) deve essere eliminato e tutte le energie militari sul territorio devono essere spese per raggiungere lo scopo. Questo è quanto si deduce dai documenti dei rapporti ufficiali delle forze unificate di esercito, carabinieri e polizia. Forze spropositate contrapposte a quelle dell’EVIS che possono contare (almeno per quanto risulterà) soltanto su alcune decine di giovani in fase di addestramento alle armi.
E’ in queste condizioni che nasce il “piano” per l’eliminazione di Antonio Canepa: l’unica cosa certa è che viene assassinato. Le modalità? Probabilmente e “ufficialmente” non si conosceranno mai, ma di certo – e lo sosteniamo con forza – non cadde così come hanno voluto dimostrare. Senza riuscirci.
Oggi al cimitero di Catania una delegazione della Fratellanza siciliana “Terra e Liberazione” presieduta da Mario Di Mauro ha reso omaggio alla tomba di Canepa, Rosano e Lo Giudice. In un documento Mario Di Mauro afferma: “Il 17 giugno del 1945 avvenne la prima Strage di Stato del Dopoguerra. Quel 17 Giugno del 1945, su ordine del governo “antifascista” di Roma, vennero trucidati il professore Antonio Canepa, fondatore dell’Esercito Volontario per l’Indipendenza della Sicilia, e i giovani Rosano e Lo Giudice. Quel giorno, a Murazzu Ruttu, nei pressi di Randazzo, non ci fu nessun conflitto a fuoco né scoppiò alcuna bomba a mano, né partì alcun “colpo diretto” dal posto di blocco dei carabinieri: anzi, se il furgoncino scalcagnato degli evisti si fosse fermato subito all’alt, i veri assassini avrebbero ammazzato anche i locali carabinieri: l’operazione perfetta. La versione ufficiale è spudoratamente falsa, a tal punto che lo Spettacolo neocoloniale ha dovuto produrre e spacciare tutta una serie di pillole scadute, sofisticherie e mascariate. Intanto continuano, quasi per inerzia: il silenzio assordante delle “Istituzioni” (ma anche dell’A.N.P.I. e di tutto il “partigianesimo” di marca CLN, peraltro omertoso e complice); la vigliaccheria del “mondo accademico” e la denigrazione “letteraria” ad opera perfino di “neonazisti esoterici” come Buttafuoco in allegra compagnia con l’asineria storiografica “de sinistra”, tanto di derivazione togliattiana quanto di radice azionista o cattolica: neanche le veline del “Regime” e l’olio di ricino dell’OVRA sarebbero stati capaci di ammucciare per 70 anni una Verità che li inchioderebbe alla Croce della Storia una volta per tutte. Silenzio,vigliaccheria, denigrazione su una pagina di Storia che illuminerebbe tutta la vicenda italiana fino ai nostri giorni, non sono frutto di sola ignoranza, ma esito di un calcolato interesse non solo storiografico, quanto del tutto Politico. Per questi figuranti prezzolati dello Spettacolo neocoloniale la Sinistra siciliana indipendentista non è mai esistita e l’Indipendentismo è mafia e banditismo, o, quando sono confessati, mito e illusione…”.