di Valter Vecellio
Reporters sans frontières (Rsf) è un’associazione fondata nel 1985 dal giornalista francese Robert Ménard. Ogni anno, di questi tempi, pubblica un rapporto che consiste in una sorta di “classifica” della libertà di stampa nel mondo. Una sorta di barometro: tiene costantemente aggiornato il numero di giornalisti che vengono uccisi, minacciati, incarcerati. Conoscete un po’ tutti la battuta: “Il mestiere del giornalista è difficile, carico di responsabilità, con orari lunghi, anche notturni e festivi, ma è sempre meglio che lavorare”. Battuta di Luigi Barzini junior, che da uomo di spirito, amava auto-minchionarsi, oltre che graffiare il suo prossimo. Comunque, per inciso, ha dovuto sudare parecchio Barzini: non solo per quei “dettagli” compresi nel “mestiere”; soprattutto per dimostrare d’avere i “numeri” adatti, e non essere solo il “figlio” di Barzini senior. Anzi, non si fosse chiamato come si chiamava, avrebbe facilmente dimostrato di essere migliore.
Ad ogni modo se solo si sfoglia il corposo rapporto di Reporters sans frontières, ci si rende conto che fare il giornalista, lavoro o non lavoro che sia, a volte non è “sempre meglio”.
Il “rapporto” 2018 documenta un crescendo “di odio nei confronti dei giornalisti; una ostilità verso i media, incoraggiata dai politici e dalla volontà dei regimi autoritari di esportare la loro visione”. Una “classifica” dove la Norvegia svetta come il paese che meglio e più garantisce la libertà di stampa; e la Corea del Nord è ultima in classifica. L’Italia sale di sei punti rispetto al 2017, e si “piazza” al 46esimo posto, dietro agli Stati Uniti, che perdono due posizioni: “In alcuni paesi, il confine tra brutalità verbale e violenza fisica è sempre più sottile”. Per esempio: nelle Filippine (133esimo posto, -6 posizioni), il presidente Rodrigo Duterte, facile a insulti e minacce, avvisa i media: “Solo perché sei un giornalista, non significa che tu sia esente dall’essere assassinato”.
Reporters sans frontières contava 326 giornalisti in carcere, 54 in ostaggio da qualche parte del mondo, 2 scomparsi e 65 morti ammazzati. Di questi ultimi, 39 sono stati presi intenzionalmente di mira perché le loro indagini disturbavano corposi interessi politico-economici e portavano alla luce affari e connivenze con le varie organizzazioni mafiose. La Siria rimane, come negli ultimi sei anni, il paese più mortale al mondo con 12 giornalisti uccisi; ma il Messico la tallona da vicino.
In quel paese ogni 26,7 ore viene aggredito un giornalista. Le prime cifre del 2018 parlano di 23 giornalisti uccisi e 176 imprigionati. Tra i giornalisti uccisi di recente vanno ricordati: Daphne Caruana Galizia, fatta saltare in aria il 16 ottobre 2017 con la sua auto a Malta; JánKuciak, assassinato il 22 febbraio assieme alla fidanzata Martina Kušnírová nella sua abitazione di VeľkáMača in Slovacchia; i nove giornalisti morti nel duplice attentato a Kabul, in Afghanistan dell’altro giorno.
Per quel che riguarda l’Italia, è vero: si registra un progresso di sei punti. Al tempo stesso il rapporto ricorda che “una decina di giornalisti italiani sono ancora sotto una protezione permanente e rafforzata della polizia dopo le minacce di morte proferite, in particolare, dalla mafia, da gruppi anarchici o fondamentalisti. Il livello di violenze perpetrate contro i reporter è molto inquietante e non cessa di aumentare, in particolare, in Calabria, Sicilia e Campania”. Gente con il “vizio” di scrivere troppo; di voler scrivere tutto quello che vedevano e sapevano. Per questo muoiono, per questo li ammazzano.
In Italia, per queste vittime (sono una trentina) c’è solo un monumento che ricorda la stampa clandestina sotto la dittatura fascista e la libertà di stampa, e in onore dei tanti caduti: è a Conselice, vicino Ravenna.
Di Shah Marai è fresco il ricordo: corrispondente da Kabul per France Press ha vissuto in diretta per diciassette anni di guerra, dalle bombe russe a quelle talebane e poi quelle degli Stati Uniti. L’altro giorno è stato ucciso da un terrorista che si è fatto esplodere, e ha massacrato un’altra trentina di persone. Prima di lui, dal 2001, altri 54 giornalisti. Nel suo blog, Marai ha lasciato una sorta di testamento: “Non vedo via d’uscita”. Qualche ora dopo la strage in cui è rimasto vittima, a Kandahar, i terroristi hanno attaccato un convoglio, sono morti undici bambini, tutti studenti di una scuola coranica…
La libertà di stampa, secondo la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, è un valore “essenziale alla costruzione di una società libera e democratica”.Un diritto fondamentale, prerequisito per la protezione e la promozione di tutti gli altri diritti umani. Lo vediamo nella Turchia di Erdogan, non a torto definita: “Il più grande carcere per gli operatori dei media, quelli perseguiti e uccisi solo per aver cercato di raccontare storture e violenze dei regimi che ancora in tante parti del mondo vessano le proprie popolazioni”.
In che cosa consiste il “sempre meglio che lavorare”? Nel cercare di descrivere i fatti; nel denunciare, quando è il caso, abusi, violazioni di diritti umani; nello sforzo di lacerare la cortina di silenzio che spesso “copre” notizie che faticano a trovare spazio. Raccontare la verità del momento. Questo dà un senso all’operato di un giornalista.
Poi, certo: tocca fare i conti con situazioni, interessi e logiche che poco o nulla hanno a che fare con le esigenze di realtà che non fanno audience o i “santuari” dei tanti poteri in cui accade di imbattersi. Anche quel “meglio” che è “altro” rispetto al lavorare, a volte è faticoso, logora, comporta rischio e sacrificio.
Non è per fare dell’eroismo ai quattro formaggi. Non santi, non eroi, i giornalisti, per carità. Ma dietro un filmato di pochi minuti trasmesso dalla TV o un articolo di 2-3mila parole, a volte c’è un mondo che spesso si ha interesse a impedire che sia conosciuto. E se ogni giorno c’è qualcuno che ci regala briciole di conoscenza, beh, quel qualcuno si merita un “grazie”.
LA VOCE DI NEW YORK