Racconti semiseri per non dimenticare le origini della nostra cultura
(prima parte)
Già ad aprile le giornate limpide e assolate sono più frequenti e i colori balzano fuori netti decisi quasi violenti. Prova a passeggiare di mattina presto lungo la costa catanese e, nelle piccole insenature che ancora resistono alla cementificazione, vedrai le piccole e colorate barche da pesca sparse sul mare; tornano quelle dei pescatori uscite quand’era ancora buio, tornano cariche di pescato; quelle uscite da poco restano a poche decine di metri dalla costa. L’aria è ancora fredda ma l’odore del mare, della salsedine, non è più predominante come d’inverno; ora percepisci anche l’odore del sole, l’odore delle cose scaldate dal sole, l’odore della terra, delle basole di pietra lavica coperte di salsedine. I rumori sono ancora pochi e senti da lontano il cigolio di una vecchia bici che si avvicina. I vestiti invernali cominciano a darti un po’ di fastidio. Fai un bel respiro e ti viene voglia di alzare la testa a guardare il cielo terso e azzurro. La mano che istintivamente porti sulla fronte ti protegge dall’accecamento e ti fa sembrare il classico pellerossa di un film western che scruta l’orizzonte. All’orizzonte il tuo sguardo ci arriva dopo avere attraversato tutta la gamma dei colori che va dal nero della scogliera lavica al grigio dei grossi ciottoli levigati e bagnati dal mare; dal bianco della schiuma delle onde, che ancora non hanno raggiunto la quiete dell’estate, al blu intenso dell’acqua fonda proprio li sotto di te; dall’azzurro dell’acqua più lontana al verde del mare che tocca l’orizzonte. E dopo l’orizzonte c’è il cielo sempre più azzurro man mano che alzi lo sguardo fino al bianco dei raggi del sole che ti costringono a chiudere gli occhi. Ora senti il vociare confuso dei pescatori che sul piccolo molo vendono il frutto del loro lavoro. La mente vola: leggende, favole, ricordi di storie nate sui banchi di scuola, di film mitologici, di studi universitari, di letture più o meno importanti, di viaggi lungo le coste della Sicilia.
Chiudi gli occhi e ti sembra di sentire le voci di marinai di ogni stirpe, provenienti da ogni parte del Mediterraneo; gente che approda sulla nostra costa con legni e vele di ogni tipo, giusto il tempo per scaricare o caricare, per vendere e comprare e poi ripartire per il prossimo emporio costiero. Nell’attesa del vento favorevole per rimettersi in viaggio i marinai tirano in secca le navi, accendono i fuochi e raccontano di mitici personaggi d’oltremare, di riti religiosi per nuovi “dei”, e gli antichi culti siculi si mischiano, si scontrano con quelli di gente che arriva nella “terra di Efesto” dopo avere attraversato il Mediterraneo in lungo e largo; portatori di culture di mare, di culture espresse da civiltà dominanti: Fenici, Micenei, Achei, Dori e così via.
Il mondo mitologico della costa ionica forse aveva già i suoi culti e i suoi miti, fatto di “dei” piccoli e grandi, di mostri, di sirene, di ciclopi, di ninfe e nereidi. Si fa molta fatica a distinguere quali siano i miti e i culti che appartenevano già ai Siculi (contaminati dai Micenei) e quali invece quelli importati dai “migranti” ellenici che arrivarono nella Sicilia orientale nell’8° secolo col dichiarato intento di fondare colonie, filiazioni delle loro rispettive “madre patria”. Nemmeno l’Odissea riesce a fornire dei dati attendibili né sulla natura dei miti e dei culti che descrive e né sulla loro localizzazione.
In questa parte dell’Isola è lui, il mitico Polifemo, ad avere un posto di preminenza nei racconti delle antiche genti, forse prima ancora che i greci Calcidesi popolassero le coste della Sicilia ionica. Il suo mito assieme a quello dei Ciclopi, per noi inossidabile, ci ha accompagnato fin da ragazzi, fin dai primi anni di scuola e su di esso si è spesso esercitata la nostra irriverenza rivolta soprattutto nei confronti dello scaltro re di Itaca che già nell’Iliade si era guadagnata la nostra antipatia. A noi siciliani, tutto sommato, questo ciclopico antenato ci è simpatico.
Omero racconta che i Ciclopi costituivano una collettività di creature mostruose dall’aspetto gigantesco, con un solo occhio al centro della fronte, bestemmiatori degli dei; anche se Polifemo stesso era figlio di Poseidone, ma si sa che a volte il rapporto padre-figlio non è dei migliori.
Pure il poeta greco Esiodo racconta che tre ciclopi, Bronte, Sterope e Arge, figli di Urano e Gaia, erano i fabbri costruttori dei fulmini di Zeus e, manco a dirlo, li forgiavano nelle viscere dell’Etna. In altri racconti i Ciclopi erano stati i costruttori di tutte quelle antiche opere gigantesche sparse nelle terre del Mediterraneo che non sembravano essere opera dell’uomo. Insomma erano dei gran “lavoratori” a differenza degli eroi greci che al pari dei cavalieri medievali andavano a caccia di draghi e belle donne.
È talmente radicata la tradizione che localizza i Ciclopi come abitatori delle cavità dell’Etna che ormai sono stati assunti a simbolo degli antichi abitatori di questa parte della Sicilia. In realtà le descrizioni di Omero, attinte certamente dalle storie che mercanti e marinai egei raccontavano degli antichi abitatori delle “terre d’occidente”, si possono attagliare anche ad altri luoghi. Una suggestiva ipotesi moderna suggerisce che l’immagine dei Ciclopi monoculari possa essere nata nella fantasia degli antichi osservando i resti fossili dei teschi degli elefanti nani (che presentano il buco della proboscide a centro della fronte) presenti in Sicilia e di cui se ne conserva un esemplare nella collezione museale del castello normanno di Acicastello.
Agli occhi degli evoluti popoli venuti dall’Egeo il mito di Polifemo e dei Ciclopi forse si attagliava bene alle popolazioni sicule che ancora vivevano alle pendici dell’Etna, i quali, è vero che non avevano più un occhio solo, ma ancora abitavano nelle grotte, vestivano di pelli ed avevano un carattere poco socievole (un po’ come ci descrive qualcuno ancora oggi).
E allora torniamo al figlio di Laerte che approda da straniero su queste nostre coste. Qui non incontra una “bella Nausicaa” ad attenderlo; ha invece la sfortuna d’incontrare quel “fetente“ di Polifemo il quale, secondo il narratore greco, ha il torto di arrabbiarsi nello scoprire che qualcuno si è introdotto in casa sua di nascosto. Si sa che i ciclopi non conoscono le buone maniere e anche se, con uno sforzo di gentilezza, Polifemo invita a pranzo Odisseo e i suoi compagni, non lo fa secondo quella che gli Achei usano definire “sacra ospitalità”. La prospettiva di essere egli stesso il piatto forte del menù del ciclope non entusiasma l’eroe greco che certamente non ha fatto tutta quella strada per essere poi mangiato da un ignorante pastore con un occhio solo. Odisseo mette in moto il cervello e con una sfolgorante serie di geniali idee da strategòs ha ragione della forza bruta e incontrollabile del povero ciclope. A nulla può il lancio dei grandi massi vulcanici per fermare la fuga dell’ospite un po’ maleducato, ma intanto certamente il paesaggio costiero di Acitrezza ne ha tratto un grosso vantaggio per la sua immagine turistica e anche Giovanni Verga ringrazia sentitamente.
Ma un altro mito ci presenta un Polifemo, che sembra avere avuto anche una vita sentimentale…
…il seguito del racconto nel prossimo pezzo.
Corrado Rubino