La costa catanese fra mito, leggenda e storia – Seconda parte

Condividi questo articolo?

Racconti semiseri per non dimenticare le origini della nostra cultura

Pubblicità

(seconda parte)

 

Un altro mito ci presenta un Polifemo, che sembra avere avuto anche una vita sentimentale (sfortunato anche da questo punto di vista).

Il tema del “ricongiungimento” del fiume al mare è ricorrente nella mitologia di questi nostri luoghi. Anche se i “fotoromanzi” ci sembrano ormai cose lontanissime nel tempo, i nostri antenati dell’8° secolo prima di Cristo non avevano nemmeno quelli e allora i primi protagonisti dei romanzi d’amore furono proprio le divinità del mondo mitologico. Amori agresti contrastati fra le sorgenti (associate alle Naiadi, divinità femminili) e i corsi d’acqua (associati a  divinità maschili) sono il filo conduttore dei primi racconti romantici.

Così, tra i Dori di Siracusa, ad esempio, si raccontava la storia del dio Alfeo che in Grecia si era innamorato di Aretusa. Non solo il  figlio del dio Oceano non era un “bell’uomo”, in quanto era un dio, ma non era neanche un “bel dio”. Aretusa invece era bella come una dea ovviamente, ma  non ricambiava il sentimento di Alfeo. Quello che le dava più fastidio era che lui invadeva la sua privacy spiandola mentre faceva il bagno nuda (fare il bagno nuda… nel bosco… anche lei però! Ma allora te le cerchi!). Il povero Alfeo, deciso a dichiararle il suo amore, un giorno uscì allo scoperto, (no, no, non ce l’aveva l’impermeabile del maniaco!), ma Aretusa, spaventata, sfuggì alle sue attenzioni, attraversando il Mar Ionio e rifugiandosi dal Peloponneso a Siracusa, sull’isola di Ortigia, (lì dietro l’angolo) dove la dea, sua protettrice, Artemide la tramutò in una fonte. Alfeo, affranto per il rifiuto della nereide si rivolse a Zeus chiedendogli di fare in modo di riavere la sua amata. Zeus commosso dal dolore di Alfeo decise d’intervenire, ma, anche se era il re dell’Olimpo, non aveva la sensibilità di Cupido e quindi lo tramutò in fiume. Bell’aiuto!!! Ma come! Alfeo gli chiese di farlo ricongiungere ad Aretusa e lui lo trasformò in fiume! Neanche Zeus poteva influenzare i sentimenti che sono propri degli umani e allora l’unico modo per fare incontrare Alfeo con la sua Aretusa fu quello di trasformarlo in un fiume che dal Peloponneso, in Grecia, potesse percorrere tutto il Mar Ionio fino ad unirsi all’amata fonte d’acqua dolce sull’isola di Ortigia.

Ma torniamo al nostro Polifemo. Anche per i Siculi della costa etnea l’acqua è l’elemento da cui sgorga la vita e qui il mito del “ricongiungimento” ha come protagonista il giovane Aci, figlio dell’italico Fauno. Usando il  primitivo culto di Aci, divinità fluviale tipica dell’area costiera etnea, nasce il racconto mitologico del pastorello Aci e della sua amata ninfa Galatea e del terzo incomodo. Si, proprio lui: il ciclope Polifemo. Più tardi i poeti Teocrito, Virgilio ed Ovidio ambientarono questo racconto mitologico a Xiphonia (Capo Mulini).

Lo sfortunato Polifemo ama Galatea che ovviamente a sua volta s’innamora perdutamente del bellissimo pastorello Aci. Abbiamo già detto che nella mitologia i ciclopi non sono noti per la loro bellezza e del resto l’approccio di Polifemo non è dei più romantici. Mentre il giovane Aci incanta Galatea con le sue poesie, Polifemo cerca di attrarre la fanciulla con il lussurioso suono del suo flauto. Galatea è una dea all’antica e non si lascia abbindolare dal flauto di Polifemo. Sceglie quindi il romantico pastorello e la storia d’amore tra i due è subito travolgente.

Ma il ciclope, al quale qualcuno soffia all’orecchio la tresca, assalito dalla gelosia, senza tanti complimenti e com’è sua abitudine fare, lancia un masso all’indirizzo del giovane rivale; però stavolta, a differenza di quelli lanciati contro Odisseo, centra in pieno l’obbiettivo e così il masso si sfracella sulla testa del povero Aci uccidendolo.

Anche questo racconto ha però un lieto fine. Le suppliche della bella e innamorata Galatea fanno sì che il sangue dell’innamorato si trasformi in sorgente e lui stesso in fiume e quindi, come dio, si ricongiunge con lei, divinità della bianca spuma del mare.

Aretusa e Galatea, divinità marine che vengono fecondate da divinità fluviali, rappresentano così il mare che, attraverso l’eterno ciclo che tutti ben conosciamo, è, esso stesso, fonte di vita per pescatori, mercanti e marinai.

Il mare però è da sempre anche sinonimo di morte. Lo sapevano bene Ulisse, Enea, gli Argonauti e tutti gli eroi che hanno dovuto combattere contro le furie di Poseidone temutissimo e, anche per questo, onoratissimo dio del mare protettore dei naviganti e della navigazione.

Torniamo ora nel mondo dei comuni mortali. Anche se le vie del mare sono state in passato sempre preferite a quelle terrestri, molti erano i fattori che rendevano pericolose le rotte marittime. E quindi siccome gli antichi erano si antichi, ma non erano fessi, la navigazione a lunga percorrenza in età preistorica e protostorica, si svolgeva, per quanto possibile, soprattutto nella buona stagione, di giorno e quando l’esperienza faceva prevedere vento e condizioni del mare favorevoli; al tramonto le navi venivano tirate in secca su una spiaggia riparata o alla foce di un fiume e venivano rimesse in mare alle prime luci del giorno; numerosi erano quindi gli scali intermedi, anche perché era necessario l’approvvigionamento di viveri freschi e di acqua dolce.

Ma la costa catanese, nell’antichità, aveva lo stesso aspetto che ha oggi? No, assolutamente no.

I mitici personaggi e gli dei di cui abbiamo parlato prima non la riconoscerebbero affatto. Non solo per l’abusivismo edilizio ma anche per la scomparsa d’insenature, spiagge e fiumi.

Gli studiosi (quelli veri) ritengono che il basso Tirreno era già solcato seimila anni prima di Cristo, e che una rotta lungo la costa ionica della Sicilia era stata utilizzata dai primi migranti del neolitico che, provenienti dalla penisola italiana, si erano spinti fino all’isola di Malta.

La commercializzazione dell’ossidiana (un vetro vulcanico estratto a Lipari), che poteva tagliare meglio della selce (cioè una particolare pietra che per essere tagliente veniva scheggiata), sicuramente fece aumentare il traffico marittimo lungo la rotta ioni­ca ed in particolare lungo la già popolata costa catanese. È probabile quindi che nel tratto di costa catanese esistessero almeno due scali intermedi e, in corrispondenza di essi, due insediamenti a partire dal neolitico medio (5500-4500 a.C. circa). Un sito sembra essersi formato a sud-est del monastero benedettino di San Nicolò la rena, zona in cui è stato rinvenuto materiale ceramico di quest’epoca. Quest’insediamento, che oggi non appare proprio sulla costa, probabilmente, in antico, era a poca distanza da una profonda insenatura (oggi occupata da via Vittorio Emanuele II e da via Garibaldi) che incideva la costa ad ovest di piazza Duomo. Questa insenatura era chiusa a sud da un piccolo promontorio sul quale poi (diversi millenni dopo) fu costruito il castello Ursino, e in essa sfociava il fiume Amenano. Anche se per il periodo neolitico non vi sono elementi che avvalorino la presenza di un approdo proprio alla foce dell’Amenano non è una ipotesi da scartare. L’altro sito si formò nei pressi del porticciolo di Capo Mulini in cui, proprio attorno al basamento di un piccolo tempio di età romana, sono stati rinvenuti frammenti ceramici neolitici.

L’avvento dei metalli e dei loro manufatti fecero incrementare ancora di più i commerci lungo le rotte che toccavano la costa ionica, ma siamo ancora lontani dalla nascita dei centri commerciali…

…il seguito del racconto nel prossimo pezzo.

 

Corrado Rubino


 

Potrebbe interessarti

Leave a Comment

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.