“Mafia”, un termine che per decenni è stato utilizzato per individuare e definire un’organizzazione criminale organizzata in forma piramidale che, per realizzare i c.d. business, fa sistematicamente ricorso a mezzi intimidatori e violenti nonché a rapporti privilegiati con le istituzioni, divenendo spesso elemento interno alle stesse. La definizione, ormai “ufficiale”, data dai giudici di Palermo parla di questo fenomeno come “vincolo associativo continuativo tra almeno tre persone, allo scopo di commettere una serie indeterminata di delitti, con la predisposizione comune dei mezzi occorrenti per la realizzazione del programma delinquenziale e con la permanente consapevolezza di ciascun associato di far parte dell’illecito sodalizio e di essere disponibile ad operare per l’attuazione del comune programma criminoso”.
Un fenomeno che è stato sempre erroneamente ritenuto distinto dalla società della quale si nutre, nonché quale unica causa del rallentamento e allontanamento della Sicilia e dei siciliani, e di tutto il sud del paese in genere, dal resto dell’Italia. Tale stereotipo, propinato per anni, non solo ha permesso erroneamente agli abitanti del centro-nord di pensare che la mafia fosse un problema solo del Sud (smentiti poi dalle evidenze del presente), ma ha anche permesso al Sistema di perdurare distogliendo l’attenzione dai mali reali come: l’assistenzialismo, il clientelismo, l’affarismo.
Proviamo, invece, a definire il “sistema mafia” in altri termini: un’organizzazione di individui che attraverso collaborazioni che tagliano trasversalmente il sistema nella quale operano, si assicura Potere (di influenza e decisionale) e Denaro per tutti i suoi componenti e collaboratori.
Partendo da tale definizione, ci rendiamo subito conto di come tale fenomeno sia talmente presente nella nostra quotidianità da essere diventato una consuetudine che influenza direttamente e/o indirettamente il nostro agire nonché le nostre scelte, e di come vada di pari passo, quasi in sinergia, con i 3 grandi problemi del meridione in particolare e dell’Italia in generale: assistenzialismo, clientelismo, affarismo.
Le azioni portate avanti in questi decenni da parte di una classe politica digerente sia a livello nazionale che regionale, sono state indirizzate non tanto a ridurre il divario tra nord e sud con una politica industriale degna di tale nome, ma con azioni singole di assistenzialismo mirato a questa o quella categoria produttiva, diventando nel tempo una zavorra per l’intero sistema (si pensi alle disoccupazioni agricole).
La continua necessità e lo stato di bisogno economico, oltre che garantire “manovalanza” per lo spaccio di sostanze stupefacenti (dal quale la criminalità ricava ingenti somme liquide da reinvestire e far circolare), nutre il c.d. clientelismo che a sua volta, alimentando quel fenomeno tutto italiano “del diritto che diventa favore”, diventa legge imperante quando si entra in relazione con la pubblica amministrazione e, soprattutto, si ricerca un posto di lavoro, in quanto non conta la preparazione o la capacità, ma conta principalmente il nome “dell’amico”, meglio se politico.
Il sistema politico ha creato l’assistenzialismo e naturalmente sguazza nella melma del clientelismo, soprattutto perché tali elementi garantiscono la sopravvivenza all’interno di questo circuito chiuso ed aprono le porte verso l’affarismo.
Purtroppo per l’uomo, di oggi come di ieri, la politica non rappresenta il futuro ma il presente, e quel che si verifica durante le campagne elettorali è all’evidenza di tutti!
Il famoso personaggio interpretato da Antonio Albanese, Cettola Qualunque, con il suo slogan ”tu mi voti e io ti sistemo, tu non mi voti ntò culu tu e la tua famiglia” sintetizza forse perfettamente questo sistema.
Gli interrogativi che una coscienza sociale non assuefatta a questo meccanismo potrebbe porsi sono diversi: che tipo di relazioni conducono agli accordi che garantiscono voti elettorali in cambio di appalti o un irraggiungibile posto di lavoro in qualche centro commerciale o azienda edile, agricola o cooperativa? Tali accordi sono convergenti con quelli della collettività?
La storia ci insegna che troppo spesso non è stato così, si pensi alla Salerno – Reggio Calabria iniziata in tempi biblici, i grandi laghi sotto utilizzati o inutilizzati , strade che non portano da nessuna parte, o a tutti quegli appalti assegnati dalle varie amministrazioni comunali senza bandi pubblici e che non tutelano il tessuto imprenditoriale del territorio.
Senza parlare poi del “piatto forte” che per anni ha alimentato e unito le tasche di pochi: “i fondi Europei”. A causa di una (mala)gestione dell’informazione e di una attenta campagna di disinformazione, l’accesso a tali fondi è risultato, quasi o del tutto, impossibile per i cittadini sprovvisti di santo in paradiso, facile invece per i soliti “amici”.
Ovviamente tutto ciò ha causato danni alla collettività che ogni anno si è vista beffata dalle istituzioni e che per il mancato utilizzo ha sostanzialmente dovuto restituire i fondi all’Europa. Tali fondi potevano agevolare lo sviluppo dell’imprenditoria e contribuire a colmare il gap infrastrutturale.
Quanto detto mira a sottolineare il circolo vizioso nel quale la società si trova intrappolata ormai da troppo tempo e non certo a scaricare le collettive responsabilità su un sistema affaristico-politico “alieno”, poiché l’ordinamento politico istituzionale è espressione diretta della società civile.
Per poter cambiare la nostra sorte è fondamentale una rivoluzione culturale generalizzata (non violenta), che parta dal basso, ciascun cittadino deve capire il ruolo cruciale che svolge all’interno della società così da contribuire all’inversione di questa tendenza al ribasso.
Un esempio per tutti, tramutare il trinomio negativo “Assistenzialismo – Clientelismo – Affarismo” in un trinomio positivo “Investimenti – Trasparenza – Imprenditorialità”.
Michele Cannavò