Maria Favuzza si fa portavoce dello status di una generazione, delle vicissitudini, del costume, dei trasalimenti di una civiltà al tramonto e, nel clima rarefatto della rievocazione, la salva dall’oblio
Maria Favuzza nacque a Salemi (TP) il 24 dicembre 1901 e morì il 14 febbraio 1981. Il tempo nondimeno, i 30 anni trascorsi dalla sua scomparsa, non ne hanno affievolito l’affettuoso ricordo in quanti l’hanno conosciuta e amata, né ne hanno sbiadito la levatura del poeta.
La sua silloge POESIE vide la luce a Palermo nel 1976 e, a riconoscimento della validità del suo dettato, Gioacchino Aldo Ruggieri la incluse nella raccolta di poesia dialettale inedita o poco nota dell’Ottocento e Novecento da lui curata e titolata AMORE DI SICILIA, assieme con nomi all’epoca quotati quali: Emanuele Angileri, Liborio Dia, i Fratelli Giangrasso e Mariano Lamartina, ed altri.
Impiegata presso l’Ufficio Registro di Salemi, seppe dotarsi dei mezzi linguistici e culturali atti ad esprimere in un buon Italiano la propria Weltanschauung.
Ebbene, perché il Dialetto? La risposta credo sia semplicemente perché “quell’arcobaleno di ricordi, variegato di tinte chiare e scure sul lungo spazio di una vita”, quelle poesie, nate col deliberato proposito di fissare esperienze e sensazioni, sono state concepite giusto così, sono state scritte in Siciliano perché il suo sentire era siciliano, i suoi pensieri nascevano in siciliano, il suo animo era convintamente siciliano. E pertanto la sua predilezione del Dialetto è da stimare una opzione pienamente responsabile.
MUDDICHEDDI, la sua opera più apprezzabile sia per la quantità che per la qualità dei contributi e dei temi, pubblicato nel 1985, risulta essere un libro postumo. Un omaggio, vedremo, doveroso quanto meritato. Il titolo, di un primo acchito, parrebbe discendere dall’omonimo brevissimo testo a pagina 75, nell’accezione di briciole, piccolissime dosi di checchessia; ma, invero, esso ritengo abbia inteso delineare l’atmosfera minimale che regola l’antologia nella sua interezza; quantunque, constateremo, i rimandi, le seduzioni, le prerogative travalicano poi di fatto quella esteriore etichetta. Sostenuto dalla famiglia dell’Autrice, la quale ne ha evidentemente voluto rispettare la volontà, “Non strappate il mio mondo fatto di carta. Ogni parola, purificata nel silenzio, allontana ogni colpa, diventa fiore azzurro bagnato di cielo”, MUDDICHEDDI, con prefazione di Calogero Conforto, è stato stampato, a cura del Circolo di Cultura “Buoni Amici” di Salemi, dalla Cored Edizioni di Mazara del Vallo.
Il libro si apre con il componimento A SALEMI, nove quartine di endecasillabi (verso, l’endecasillabo, che Ungaretti definì “la combinazione elegante delle nostre parole”) con rime alternate ABAB. Un idilliaco messaggio d’amore e di appartenenza alla sua città,
muntagnedda duci
c’hai l’aria frisca ….
chi porta …
ciavuru d’erva, menta, alufareddi …
[e] lu celu assunnateddu lu talia.
Un testo manifestamente tenero, in ciò assecondato da un copioso ricorso a diminutivi e a vezzeggiativi – peraltro largamente diffusi in tutta la sua produzione – il cui programmatico utilizzo palesa la connotazione di leggiadria, di intimità, di infinito prossimo da cui scaturiscono i versi. E con questa accentuazione invero essi ci vengono offerti dall’Autrice, ancorché l’ortografia esibisca sostanziali accuratezza e coerenza; fattori questi che consentono loro di aggirare le insidiose secche del vernacolo. Il tema, benché con un taglio più squisitamente storico, è ripreso nel testo dal titolo LU ME PAISI: <Scunfittu e assicutatu lu Burbuni, / la prima dittatura pruclamata / di Garibaldi assemi a li Picciotti, / Salemi, frac e tuba, l’ha firmata.>
L’argomento tuttavia non è, per Maria Favuzza, di quelli che si esauriscono sbrigativamente ed ecco un terzo componimento, CENA DI SAN GIUSEPPI, viene indirizzato a Salemi, <lu caru me paisi> colto stavolta all’insegna del fervore religioso, della devozione spirituale che si combina alla larga adesione popolare. E Maria Favuzza allestisce una minuziosa e baluginante descrizione della Cena di San Giuseppe, celebrazione che si svolge nel giorno della festa del santo il 19 marzo e che lei rende dinamica, icastica ai nostri occhi, ben oltre qualsivoglia depliant turistico: cena di <fidi, oduri, / grazii. Di fulcluri tramannatu, / di genti timurata.>
I testi immediatamente successivi a quello d’apertura investono subito il nucleo dei motivi che più hanno fatto vibrare le sue corde: gli affetti e il focolare domestico, la “roba”, il lavoro e tutto quanto a questi mondi collegato. La naca … lu cucchiaru, la piattera, li luma, la campana …, e poi tazzi, bucala, cicari, bicchiera … ‘nciratina … gli oggetti della vita familiare, la “misura” dell’esistenza quotidiana. Realtà dura, <Setti rispiri dintra na casuzza / si spartinu lu lettu / e lu panuzzu>, che è sì povertà ma anche dignità, che sa coniugare la drastica pratica con un atteggiamento di fiducia, nella quale la Natura con il suo variegato campionario di flora e di agenti naturali: nuvole, vento, cielo … domina e il sole, astro primeggiante, nel suo vessillo di luce, di calore, di vita dunque, rischiara, riscalda, rincuora. Lo sguardo di Maria Favuzza avvolge carezzevole, elenca, nomina quelle cose, la sua penna le ferma, le scrive, le imprime sulla carta, nella volontà, nella responsabilità di perpetuarle, più che per sé per gli altri, per quelli che verranno dopo, per coloro che a quel contesto storico, sociale, culturale non sono appartenuti o sono appartenuti solo di striscio, e non avranno perciò modo di conoscerlo, di viverlo tranne che ripercorrendolo nel verbo immortale del Poeta (“può morire Giove – Carducci docet – ma l’inno del poeta resta”).
E, dicevamo poc’anzi, il lavoro, in un’epoca in cui le macchine erano un miraggio e l’uomo svolgeva le proprie occupazioni, che connaturate alla oggettività rurale del territorio e del tempo erano principalmente quelle dei campi, con il solo ausilio degli animali: LU SCICCAREDDU DI LA SENIA, remissivo, pasinziusu, <cu l’occhi binnati>, che un giro dopo l’altro <sciogghi na canzuna a lu silenziu di la sira.>
In tale clima, lirico quanto realistico, nostalgico quanto attento alla ineluttabilità del mondo in travolgente evoluzione, concreto quanto orientato alle istanze dello spirito, si innesta il recupero di un lessico svigorito o di imminente declino: iffula (matassa), caiuna (dirupi), pilusci (pellicce), chiumazza (materassi), ragnola (grandine), balacu (violacciocca), sciavateddri (mufuletti), sagnaturi (mattarello), ammartucata (debilitata), mirriuni (fazzoletto annodato alla nuca), lungo il monito di Pietro Tamburello per cui <ogni palora persa / nanticchia di Sicilia si ni va.>
Ci sono delle immagini ricorrenti nella poesia di Maria Favuzza: <lu patri [chi] torna versu sira>, <lu cani [chi] abbaia>, la pasta <stisa a li canni>, a comprova che questi frangenti attenevano a quel vivere, al vivere suo e a quello dei suoi coevi. La figura sociale del padre, peraltro, è ben assidua nella sua produzione al pari della figura della madre. Quanto a questa, la quale <tinia d’occhiu lu porcu, li addrini, / lu furmentu>, il fare la calza con gli aghi, <busi [chi] chiacchiarianu … agghiuttinu cuttuni> e fanno crescere <la quasetta>, non ne alleviano la pena allorquando, come spesso avveniva e tuttora avviene alle nostre latitudini, lei vede il proprio figlio andare via, emigrare in cerca di fortuna. Quel cammino della speranza piuttosto, quella “fuga” in terra straniera, quell’andare <senza turnari chiù>, è da lei percepito col dolore di chi sente calpestare la propria persona, diviene <lamentu longu, senza na palora>, <chiantu / chi si sicca nta la manu>.
Ma il suo è un caleidoscopio riccamente mutevole: una affascinante, femminile, riedizione mitologica della Sicilia, in base alla quale essa ha avuto origine da uno scialle che la luna <avia supra li spaddi> e che un <ventu vagabbunnu … c’un sciusciu> fece cadere sul <mari cristallinu> dispiegandolo a forma <di tri pizzi arriccamati>; <lu trangulu>, da “tranguliari” nella nozione di scuotere con forza, scrollare, traballare, il tipico movimento che accompagna, all’armonia delle <cianciani> e delle <canzuni>, il passo del carretto, <trufeu anticu>, tirato dal cavallo impennacchiato e condotto dal <carritteri cu la zotta ‘manu>; la malinconica percezione, non esente da una vena di rimpianto, di un mondo agreste che non è più: <lu trappitu, la mola, l’aratu, li vamperi, la rasula, lu tripporu … li casi di lu feu petra su petra / caderu a pezzi, ‘mmezzu la campagna>, e di esso, <chi di biancu vistia amuri e cori>, <sulu lu riordu tampasia>.
Quanto detto parrebbe a sufficienza promuovere la poesia di Maria Favuzza, ma … “È la forma – sostiene Attila József – che fa l’arte, benché il carattere artistico essa lo riceva dal significato, dal contenuto”.
E allora sfogliamo insieme alcune delle formulazioni della sua poesia: l’immagine graffiante di <La terra vugghi / di caluri e ciàvuru>; l’illustrazione dei giochi innocenti dell’infanzia, fatti di poco, quando non addirittura di nulla e, cosa più di ogni altra, condotti all’aria aperta: <na nuvula … cuntenta chi na petra … po dari tanta gioia ad un nuccenti … na stidda … caduta di lu celu … fatta di lanna lustra di pignata>; il quadro immaginifico per cui, partendo da spunti esili che le virtù del poeta elevano a dignità d’arte, <nta na stratuzza funna e silinziusa>, il sole scende ammirato a giocare con un gruppo di ragazzi.
Un componimento, NTA NA STRATUZZA, di grande perizia, da leggere con dedizione, con coinvolgimento, con riguardo alle scansioni, al fine di assaporarne la tensione lirica, penetrarne i gradi di invenzione, condividerne la meraviglia della icona. Un convinto plauso a uno fra i testi migliori della crestomazia al quale nella sua interezza vi rimandiamo e di cui, solo a mo’ di assaggio, si riporta una quartina:
<Nta na stratuzza funna e silinziusa, / c’è sciamu di picciotti ed alligria; / lu suli scinni a fari assemi un gniocu, / s’assetta a lu bastiuni e li talia.>
E per arrotondare questa rapida rassegna: <lu pani di casa … [chi] ogni simana ‘n casa si facia.> Una festa di gioia e di bontà da seguire passo passo, in cui, nelle circostanze delle festività: Natali, Pasqua, Carnalivari … che nel corso dell’anno si susseguono, si imbandiva <lu tavuleri> con <ficusicchi, sfinci, cucciddati, tagghiarini, stufatu …>, e leggendo e vedendo, e calandoci senza resistenza in quell’ologramma, ne seguiamo ed apprendiamo il procedimento di preparazione, ne percepiamo la fragranza, ci sale l’acquolina in bocca, sentiamo e cantiamo, stando a ridosso del forno, la supplica che accompagna il culto con l’invocazione dei santi Antonu, Zita, Sidoru, Antuninu, Ati e Nicola. Ma il rito è propizio per manifestare alla <vicina incinta>, alla <cummari c’avia figghi>, attorno ai cuddrureddra, sciavateddri, miliddri … quei sentimenti di solidarietà, di calore umano che contrassegnavano la fetta più sana delle nostre comunità.
E ancora: <Curcatu lu silenziu supra un ciuri / svigghiava na nuttata di suspiri, / svigghiava na nuttata di duluri / e larmi, persi mmezzu a tanti spini>; <lu sicchiu pinnìa / supra lu puzzu … stancu di li scinnuti e l’acchianati.> Seducente il fotogramma <lu sicchiu … stancu di li scinnuti e l’acchianati>, come se fosse il secchio a dovere autonomamente procedere su e giù per il pozzo e non già il volere dell’uomo ad obbligarlo a forza a quel compito e a quell’andirivieni, non fosse viceversa l’uomo a provare quella spossatezza che, magari a causa delle condizioni di canicola estiva, tale attività determina.
E arriviamo, zoomando tra le pagine sia di MUDDICHEDDI che di POESIE, agli esiti più allettanti e a qualche peculiarità. <Lu jornu … s’attacca ‘ntesta un fittu scuru velu> e un uccello cerca di <biccarisi lu celu / cadutu nta na zotta chi spicchia.> <Pinzeri virdi>, <scruscinu l’anni e comu chiummu pìsanu>. <Pinzeri virdi>, parafrasando una memorabile frase, è “un piccolo passo per l’uomo, ma un grande passo per la poesia dialettale siciliana”. Una, tra virgolette, rivoluzione legata sì alla fase della realizzazione, della scrittura, della traduzione del concetto in superficie vergata, ma che è compiuta già prima, e più, nel medesimo istante del concepimento dell’inconsueto accostamento tra pinzeri e virdi, nella specialità del timbro, nella suggestione, nella rigenerata energia che dalla aggregazione tra pinzeri + virdi si statuisce. Un sovvertimento, nella concreta esecuzione, nella locuzione autenticamente siciliana, nell’efficace dispositivo analogico, nella sublimazione del frasario quotidiano: <na casa / ntilarata di lacrimi e di risa>, <lu ventu arruzzulìa la megghiu vita, / dintra ‘na lanna vecchia ammattucata>, ovvero: <Scinnia la luna cu scarpi di sita>, <trova lu ventu mazzi di risati>; <La primavera dormi tra li ciuri.>
Parole. Ma, parole che nell’alchimia del Poeta si animano, s’ammantano di costrutti che eccedono la loro semplice lettera; lemmi comuni che nel loro inusitato codice compongono scenari irrefutabilmente unici, disegnano profili squisitamente singolari, assurgono a originale tramite retorico con cui il Poeta restituisce – l’affermazione è di Viktor Borisovic Šklovskij – la “visione autentica del mondo”.
<La luna a la finestra di lu celu / spampina leggi veli di palluri.> Molti incipit di Maria Favuzza sono incisivi sotto il profilo dell’estro, del richiamo fonico ed emotivo, della enunciazione innovativa della cifra poetica. C’è una felice combinazione, che di certo non poteva essere casuale, un mix avvincente che nel trapanese ne fanno per l’epoca un raro, se non esclusivo, archetipo di autore incline a destreggiarsi fra la solidità della tradizione, fatta di rime, prevalente uso dell’endecasillabo, valori che pescano (bene) nel solco e nella saggezza della poesia popolare, e lo spirito, l’attitudine ad innestare in quel solco le piantine che daranno nuovi frutti, quindi forme, e nuovi colori, odori, sapori, quindi contenuti. La suddivisione, ovviamente, non è così netta e le due anime convivono fianco a fianco nella stessa cartella, si ammiccano a distanza nella stessa selezione, coesistono scambievolmente tollerandosi: in sintesi, tradizione e formalizzazioni liriche avanzate che si frappongono.
Un’unica notazione ortografica, ma ben più ad un approfondito esame si potrebbe sviscerare, concerne, precipuamente in POESIE, la nostra “c” dolce strisciante, sovente graficamente resa col segno “sc”: scipressi, adasciu, stasciuni, dusci, cunnusci, eccetera. Segno, la “c”, massimamente quella derivante dal “fl” latino, flatus, flos, flumen, e di conseguenza in Siciliano: ciatu, ciuri, ciumi, che altrove e in altri tempi – già Lionardo Vigo nella seconda metà del 1800 ne sollevò il problema della determinazione ortografica – è stato graficamente reso con la “x”, “xh”, “ç”, o per l’ appunto con “sc”.
La poesia di Maria Favuzza trapela della identità dell’Autrice: semplice, radicata nel proprio territorio, dignitosa, rivelazione di sé, del suo tempo e della sua gente, nel cui linguaggio, ancorché guarnito dalla creatività, dal talento, dal “mestiere” di cui il Poeta è detentore, distilla pulsioni, vicende, inquietudini. Nell’avanzare del progresso tecnologico, <aggeggi moderni … chi fannu li sirvizza … senza pallari né curiusitari>, che ci trova impreparati, ci destabilizza, ci crea ansia per il futuro, <la casa nun mi pari chiù la stissa … a bidiri li mura cu fili e buttuna>, in contrapposizione ad una condizione sociale vieppiù imperante di solitudine e prostrazione, <eu sempri a lu scuru ammartucata>, Maria Favuzza si fa portavoce dello status di una generazione, delle vicissitudini, del costume, dei trasalimenti di una civiltà al tramonto e, nel clima rarefatto della rievocazione, la salva dall’oblio. Si avverte una grazia tutta femminile nel dettato, un garbo remoto, di quando in quando una vena crepuscolare, <vita passeggera, / gemma chi di biddizza si cumpiaci, / rosa chi ciurisci / e ridi allera … tu sicca mori … e ti sperdi lu ventu / c’un suspiru>, <lu tempu pilligrinu / fa di lu ventu un chiantu>, <l’urtimu cappottu / chiusu cu lu buttuni di la cruci>, un tocco ognora rispettoso della “materia” che lei va a trattare, maneggiare, strutturare, perché lei presagisce essa è materia fragile, preziosa, materia in via di estinzione che il tempo ha reso unica, irripetibile.
Maria Favuzza è una vera scoperta o, per coloro che l’hanno conosciuta, apprezzata, letta, una fausta riscoperta. L’odierna commemorazione, della quale dobbiamo essere orgogliosi poiché la sua testimonianza per la cultura, la poesia, la storia siciliane assolutamente non debbono andare perdute, intende dunque proporsi quale l’opportunità per far riappropriare la poesia dialettale siciliana di una Autrice che dà lustro alla propria terra, che merita di essere celebrata per favorirne, ben oltre questa essenziale disamina, uno studio critico rigoroso e la ristampa organica delle opere.
“Maria Favuzza”
Saggio monografico di Marco Scalabrino
edizione A.L.A.S.D. JO’ 2011