Selinunte: ricostruire il tempio G

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Sembra che l’idea di rimettere in piedi il più grande tempio del Mediterraneo, cioè il tempio G di Selinunte, sia dello scrittore-archeologo Valerio Massimo Manfredi il quale ovviamente grazie ai suoi studi universitari ricorderà che precedenti operazioni di ricostruzione dei templi di Selinunte non hanno dato esiti particolarmente entusiasmanti dal punto di vista scientifico (ci riferiamo alle 14 delle 17 colonne del tempio C, rialzate nel 1925 ed alla ricomposizione del tempio E effettuata nel 1957-58). Ma oggi la tendenza è quella di mediare quanto più possibile fra le rigide posizioni degli accademici e le esigenze di fruizione dei monumenti antichi nell’ottica commerciale dello sfruttamento dei siti culturali in generale (ricordate lo slogan pubblicitario “Sicilia è cultura”?). Quindi di fronte a quei puristi che storcono il naso dicendo “i monumenti vanno conservati e non ricostruiti”, dobbiamo, a malincuore, ribattere che non sempre è saggio che sia così.
Chi ha visitato il Parco archeologico di Selinunte e conosce il tempio G sa bene che in realtà il visitatore ha davanti a se un immenso cumulo di architravi spezzati, rocchi di colonne e capitelli, concentrati su un’area di circa 10.000 metri quadrati, devastati dalla furia di un sisma di 2500 anni fa, da cui emerge un’unica possente colonna, chiamata per tradizione “fuso della vecchia”. Difficile per il turista medio immaginare quale imponenza potesse avere quel mucchio di pietre.
In questi casi quindi stroncare l’idea di una possibile “ricostruzione” non ci sembra una posizione che si possa assumere a priori o alla leggera.
Ciò nonostante non siamo particolarmente entusiasti del fatto che tale “iniziativa” non sia venuta dagli studiosi che da anni si sono occupati dei templi di Selinunte e soprattutto non da quelli siciliani (se non è così saremo ben lieti d’essere smentiti). Ci sentiamo presi dallo scoramento quando leggiamo che il presidente della Regione Siciliana va a visitare Selinunte e dintorni in occasione di un sopralluogo scaturito dall’idea proposta da Valerio Massimo Manfredi (più scrittore di romanzi storici che archeologo, ndr.), e che dichiari candidamente di aver scoperto le Cave di Cusa solo tre settimane fa. Evidentemente il nostro presidente ritiene urgente e indispensabile imbarcarsi in un’operazione (poco scientifica) che ha poche probabilità di ricevere un largo consenso e di vederla realizzata solo a colpi di dictat.
Chissà quante altre scoperte sorprendenti potrebbe fare Lombardo se si facesse accompagnare dagli archeologi che lavorano nei siti dell’Isola o dai responsabili delle Sovrintendenze che svolgono seriamente il loro lavoro sul territorio siciliano. Potrebbe anche scoprire che esistono siti archeologici chiusi e abbandonati per mancanza di fondi.
Ma non vogliamo essere disfattisti e quindi siamo moderatamente soddisfatti da alcune dichiarazioni d’intenti che sono state fatte negli ultimi giorni, come ad esempio la richiesta d’iscrizione, fatta dalla Direzione del Parco di Selinunte, del tempio tra i siti della World Heritage List dell’Unesco e la creazione di un comitato scientifico che possa valutare le delicate decisioni da prendere in merito ad operazioni di tale portata.
Inoltre Manfredi annunciando che il prossimo 20 ottobre sarà presentato il progetto di “ricostruzione” alla presenza di alcuni studiosi provenienti da tutto il mondo, ha dichiarato: “Questa prima parte di lavori è propedeutica ad una analisi accurata di un sito così importante, che non è mai stato studiato capillarmente. Si è pulito e liberato da erbacce, e adesso siamo in grado di riconnettere le parti cadute con quelle rimaste in piedi, i frammenti gli uni con gli altri, recuperare i colori adoperati. Questa prima parte di risultati sarà presentata molto presto. Il budget finora impiegato? 50 mila euro. Nulla, per i risultati raggiunti, grazie alla passione con cui stanno lavorando le persone coinvolte e il sostegno di uno sponsor privato che crede in questo progetto: per non trasformare le rovine in macerie”.

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In realtà per questa prima parte di lavori sono stati stanziati 180 mila euro, con fondi della Protezione civile, ma l’assessore ai Beni culturali di Trapani, Sebastiano Missineo, ha annunciato che a Selinunte arriveranno presto fondi importanti, 8 milioni di euro provenienti dal Po Fsr 2009-2013.
Infine fra le cose dette che ci sono sembrate positive c’è la dichiarazione del soprintendente per i Beni culturali di Trapani, Sebastiano Tusa, figlio del grande archeologo siciliano Vincenzo Tusa, scomparso il 5 marzo 2009, il quale ha espresso, a buon diritto, il suo parere: “Innanzitutto sarebbe opportuno coinvolgere archeologi importanti, come Dieter Merkens, che conoscono già questo luogo perché qui hanno lavorato. Per un progetto così occorre avere un team che rappresenti i migliori archeologi del mondo. E poi occorrerebbe mettere gli accordi con gli sponsor nero su bianco”.

Chiudiamo rivolgendo un pensiero e formulando una speranza. Il pensiero va a Vincenzo Tusa, uno dei massimi studiosi della Sicilia antica e preistorica, al quale dobbiamo le realizzazione del Parco archeologico di Selinunte e al quale vengono rivolte le lodi e le imprecazioni di chi, a seconda delle proprie convenienze, parla di questa importantissima area archeologica. La speranza è quella che gli amministratori pubblici di Castelvetrano, di Trapani e della Regione Siciliana capiscano che il nostro “oro nero” sono proprio i Beni Culturali e che non bastano solo le “idee” eclatanti come questa; esse dovrebbero essere precedute possibilmente da serie, anzi serissime (cioè fatte da esperti del settore) programmazioni di interventi strutturali e di sfruttamento sistematico delle risorse messe a disposizione dall’Europa, al fine di creare non effimeri posti di lavoro occasionale, ma figure professionali con collocazioni organiche nella “produzione culturale”.

29/08/2011 – Corrado Rubino

 

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