Le conclusioni cui giungono i procuratori di Caltanissetta, cioè che lo Stato tramite alcuni suoi uomini ha operato sottotraccia per raggiungere un accordo con Cosa Nostra, dovrebbe apparire un evento catastrofico e invece per tutti noi sembra quasi una circostanza di non poco conto, qualcosa che ognuno aveva già preventivato. Dalle indagini della Procura emergono fatti, ricordi e persino amnesie inspiegabili. Scoprire i responsabili non è cosa di poco conto se consideriamo che la seconda Repubblica nasce sulle macerie di due terremoti che hanno scosso, alla base, l’intera politica italiana: Mani Pulite e, appunto, le stragi mafiose dei primi anni novanta.
Non mollare la presa e tenere viva la speranza implica un atteggiamento teso verso una giustizia e una verità che non sia solo processuale. Non bisogna cadere nel tranello che è compito esclusivo della magistratura accertare i fatti, non almeno in questo caso; al contrario, mai come in questo momento, dovrebbe essere la politica, con i suoi illustri rappresentanti, a perseguire la via della sincerità e dell’onestà intellettuale. Un percorso difficile da percorrere, tuttavia essenziale affinché i discorsi antimafia non assumano i contorni di una retorica futile e fastidiosa.
I fatti, con tutto il loro carico di responsabilità, s’impongono senza troppi giri di parole: Paolo Borsellino sapeva della famosa trattativa tra Stato e mafia, ed era venuto a conoscenza del famigerato negoziato verso la fine di Giugno grazie alle rivelazioni del magistrato Liliana Ferraro, e sempre alla fine del mese lo stesso Borsellino aveva confidato alla moglie tale circostanza, e lo aveva fatto non molto tempo dopo essersi sfogato in Procura con due suoi colleghi di lavoro. In quel frangente, Borsellino, stremato e in lacrime, avrebbe detto che un suo caro amico l’aveva tradito. Questo fu il motivo principale perché l’attentato al giudice antimafia fu anticipato, rapidamente e senza esitazione. Paolo Borsellino costituiva un ostacolo troppo grande per qualsiasi intesa, tacita o meno.
Che il capitano De Donno, e il comandante Mori, potessero avere una forza contrattuale tale da indurre Riina e i suoi a credere effettivamente di realizzare una trattativa appare una contingenza un po’ paradossale. Tranne che, di fatto, esistevano due livelli di negoziato: uno più alto, quindi politico, con chi poteva garantire un effettivo potere decisionale; e un altro più basso, quindi pratico, attraverso l’utilizzo di organi operativi degli apparati di sicurezza.
I vertici politici dell’epoca, Mancino, Martelli, Conso, e altri, tendono a dare versioni differenti di determinate circostanze: c’è chi non ricorda alcuni passaggi rilevanti ai fini dell’inchiesta, come l’ex ministro dell’interno Mancino, chi altro fornisce elementi discordanti che mal si conciliano con l’attività investigativa. Un grosso pantano impossibile da sbrogliare; almeno che qualcuno, fra attori protagonisti e comparse di secondo piano, non decida di dire una volta per tutte la verità. Un atteggiamento necessario a costo di sacrifici e rinunce: altrimenti su quali basi vorremo costruire una nuova fase politica?
Salvo Pappalardo
l’ho letto solo adesso , bravo per tutto 🙂