La solitudine di Falcone e Borsellino

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“Si muore generalmente perché si è soli                 
o perché si è entrati in un gioco troppo
grande. Si muore spesso perché non si                                  
dispone delle necessarie alleanze, 
perché si è privi di sostegno. In Sicilia la
mafia colpisce i servitori dello Stato che
lo Stato non è riuscito a proteggere.”
(Giovanni Falcone)

Ve la ricordate Ilda Bocassini la “rossa”? Si commemorava a Palazzo di Giustizia di Milano Giovanni Falcone, e lei prende la parola. Un intervento duro, spigoloso, come il personaggio. “Non tutti”, sibila, “hanno il diritto di piangerlo”. E guarda fisso negli occhi i suoi colleghi.

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Un passo indietro, 21 giugno 1989: sugli scogli davanti a una villa sull’Addaura, affittata per trascorrere qualche giorno di vacanza in pace, si scopre una borsa imbottita di candelotti di tritolo. Falcone è assieme a due colleghi svizzeri; l’attentato è fissato per il giorno prima, ma Falcone improvvisamente cambia programma. Lo sanno pochissime persone. Un attentato, di mafia, ma non solo: concepito, dice Falcone, da menti raffinatissime. Quella mattina del 21 giugno sulla spiaggia dell’Addaura sembra che a fronteggiarsi ci siano due gruppi: uno a terra, composto da mafiosi dell’Acquasanta e, si dice, da agenti dei servizi segreti; l’altro gruppo è in mare: un canotto con un paio di finti sommozzatori che hanno il compito di neutralizzare l’attentato che si prepara, e impedire che il tritolo sia fatto esplodere. I due sub hanno un nome: Antonino Agostino, ucciso non si è mai saputo da chi, il 5 agosto del 1989 assieme alla moglie; ed Emanuele Piazza, strangolato e il corpo fatto sparire nell’acido l’anno dopo. Sia Agostino che Piazza erano specializzati nella caccia ai mafiosi latitanti. A lungo si insinuerà che l’attentato lo ha organizzato lo stesso Falcone, per farsi pubblicità.

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   Tommaso Buscetta, quando decide di pentirsi e raccontare le sue verità, a Falcone dice: “Dottore, l’avverto: cercheranno di distruggerla, fisicamente e professionalmente. Il conto che apre con Cosa Nostra non si chiuderà mai”.

   Cosa Nostra, paziente, aspetta. Aspetta e uccide: fa il vuoto attorno a Falcone. Cade Beppe Montana, capo della sezione latitanti; cade Ninni Cassarà vice-dirigente della squadra mobile… Per paura di nuovi attentati Falcone, Paolo Borsellino e le famiglie vengono trasferiti all’Asinara; lì come carcerati, unico svago qualche bagno di sole, concludono l’istruttoria del maxiprocesso. Alla fine lo Stato presenta il conto: 415mila 800 lire a testa per il pernottamento, 12.600 lire al giorno.

   Il maxiprocesso si conclude con 360 condanne. Quando il capo dell’Ufficio istruzione di Palermo Antonino Caponnetto considera finita la sua missione e va in pensione, sembra naturale che al suo posto sia nominato Falcone. Ma la maggioranza del Consiglio Superiore della Magistratura fa valere il criterio dell’anzianità e non della competenza, e nomina Antonino Meli, magistrato con scarsissima esperienza di mafia. A favore di Meli e contro Falcone, votano anche due dei tre componenti del CSM eletti nelle liste di “Magistratura Democratica”. Meli, appena insediato, smantella il pool, teorizza che tutti si devono occupare di tutto. Così Falcone si deve occupare di indagini su scippi, borseggi, assegni a vuoto. Borsellino, l’amico fraterno, si ribella, rilascia interviste nel corso delle quali lancia accuse di fuoco. Finisce a sua volta sul banco degli accusati, costretto a doversi difendere al CSM.

   Falcone è sempre più solo. Si candida ad Alto Commissario per la lotta antimafia, viene bocciato. Si candida al CSM, i suoi stessi colleghi lo bocciano. È la stagione delle lettere anonime del “corvo”, è accusato di gestione discutibile e disinvolta del “pentito” Salvatore Contorno. Il culmine, quando Leoluca Orlando, e altri leader della Rete, lo accusano di tenere nei cassetti la verità sui delitti eccellenti. È costretto a una umiliante difesa al CSM. Alla fine accetta la proposta del ministro della Giustizia Claudio Martelli di dirigere gli Affari Penali a Roma. Lo accusano di diserzione.

   Infine la procura nazionale antimafia: nasce da un’idea dello stesso Falcone, un organismo con il compito di coordinare le inchieste contro Cosa Nostra. Lui è il naturale candidato, il CSM lo boccia ancora una volta. Gli viene preferito Agostino Cordova, procuratore capo di Palmi, uno di quei magistrati che aveva firmato un documento, assieme ad altri decine di colleghi, in cui si individuava come un pericolo per l’operato e l’indipendenza dei magistrati. Alessandro Pizzorusso, componente “laico” del CSM designato dall’allora PCI, firma sull’“Unità” un articolo che grida vendetta: in pratica si dice che Falcone non è affidabile, sarebbe “governativo”, avrebbe perso le sue caratteristiche di indipendenza.

   Quando, il 23 maggio viene ucciso, anche Borsellino, l’amico di sempre capisce che anche per lui il tempo è scaduto. Il 13 luglio rivela: “So che è arrivato il tritolo per me”. A due colleghi magistrati confida, in lacrime: “Non posso credere che un amico mi abbia potuto tradire”. Il 19 luglio, due minuti prima delle 17 un’autobomba lo uccide a via D’Amelio assieme ai cinque uomini della scorta. Andava a trovare la madre.

   Ninni Cassarà, Emanuele Basile, Rocco Chinnici, Giacomo Ciaccio Montalto, Gaetano Costa, Carlo Alberto Dalla Chiesa, Boris Giuliano, Pio La Torre, Rosario Livatino, Beppe Montana, Cesare Terranova…, sono tante le vittime della mafia, impossibile ricordarle tutte: magistrati, carabinieri, politici, lasciati soli, esposti. Come soli furono lasciati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

Valter Vecellio

 

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