TACCUINO DI LETTURA: Catalano, Loteta, Anna Maria Sciascia

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Possiamo permetterci, una volta tanto, di mettere in “Primo Piano” la Cultura, anziché parlare di quella sorta di politica siciliana che, di questi tempi e in vista delle elezioni regionali del prossimo 28 ottobre, riempie le prime pagine di tutti giornali locali? Riteniamo che lo possiamo fare in quanto nessuno ci obbliga il contrario, e queste recensioni di Valter Vecellio, riteniamo anche, possono rompere il muro delle abitudini.

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IL GIOCO DEI PADRI – Anna Maria Sciascia – Avagliano

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L’ORMA DEL LUPO – Vito Catalano – Avagliano

Potrà sembrare operazione ardita, anzi avventata e arbitraria associare in un’unica recensione questi due libri. In effetti “narrazioni” non potrebbero essere più diverse. Però…

Cominciamo con “l’orma del lupo” (Avagliano, pagg. 87, 10 euro). Si parte da una leggenda, un racconto tramandato in serate fredde, dinanzi al fuoco di un caminetto; la leggenda di un lupo assassino, che sembra averci preso gusto nel cibarsi di carne umana, come la tigre di certi racconti di Rudyard Kipling. Un lupo che terrorizza quella parte di Sicilia tra Palazzolo Acreide, Buscami e Giarratana. Ma è poi davvero un lupo, quello di cui scrive in una sua remota cronaca del 1695 un frate cappuccino, Giacinto Maria Farina? “In quest’anno”, scrive il frate, “apparve il lupo, che scannava tutti i picciotti, che poteva avere, e mangiataseli. Il quale la prima volta fece danno nell’Ebraida prendendosi una creatura dalla naca; dipoi seguì di mano in mani in molti eziandio adulti, si nelle terre, come nelle campagne. E comparve essere castigo di Dio, poi con tante scopettate non fu possibile ammazzare. Dopo tre anni mancò senza averne notizia veruna”.

Da questa cronaca, “cronachetta verrebbe da dire, Vito Catalano ne ricava un godibilissimo racconto, un “giallo” che non si esaurisce con il dipanare della storia. Diciamo anzi che la vicenda di Teresa e di Pietro, è tutto sommato marginale, pur se si tratta di due protagonisti. In un’atmosfera cupa, opprimente, si “scioglie” il giallo, che solo in parte troverà una soluzione, e ci lascia però una bella batteria di interrogativi. Per dire: dove sono andati, Teresa e Pietro? E il luparo con la gola squarciata, è davvero il lupo grigio l’assassino come pare? Lascia l’amaro in bocca, la conclusione: per salvarsi, come insegna Alessandro Manzoni, occorre fuggire: perché giustizia e legge, sono parole cui non corrisponde un reale significato.

Scrive con mano sicura Catalano; evidentemente buon sangue non mente. Non credo di dire cosa avventata, se dico che questa “cronachetta” sarebbe molto piaciuta al nonno: per lo stile, per la scrittura, per la scelta dei “caratteri”. Catalano ha confezionato un racconto con molti rimandi e significati, che il lettore si può dilettare a scoprire.

Storia completamente diversa “Il gioco dei padri” di Anna Maria Sciascia (Avagliano, pagg.90, 5 euro). Già dalla copertina si scoprono le carte: un bel ritratto di Luigi Pirandello, e nella quarta un altrettanto bel ritratto di Leonardo Sciascia, il padre. Aprite il volume, e mettete le due copertine sul piano: uno sembra guardare l’altro. Ma prima – per quegli scherzi e quelle bizzarrie di cui solo la memoria è capace, simile com’è a quel bimbo che cammina sulla spiaggia e non sai perché si china a raccogliere quella conchiglia e non l’altra che forse più bella – un piccolo saggio scritto quasi vent’anni fa da Sciascia per “Micromega”, intitolato: “Pirandello, mio padre”, e vai a capire perché lo scritto di un siciliano che si occupa di un altro siciliano è illustrato con un disegno di Corto Maltese di Hugo Pratt, e sullo sfondo Venezia. Ma per tornare al saggio su “Micromega”: “…Posso dire che il mio rapporto con l’opera pirandelliana ha una qualche somiglianza col rapporto col padre: che si sconta dapprima sentendolo come ingiusta e ossessiva autorità e repressione, poi sollevandoci alla ribellione e al rifiuto; e infine liberamente e tranquillamente vagliandolo e accettandolo, più nel riscontro delle somiglianze che in quello, tipicamente adolescenziale, delle diversità… Pirandello ha operato per me una specie di catalizzazione, di precipitazione: la realtà mi si è fatta più reale, la verità più vera. E s’intende che questa parola – verità – altra traduzione ed esplicazione non consente, in Pirandello, che questa: la verità della ‘trappola’, della ‘pena di vivere così’ – o quella più umile e grottesca, per cui Tararà, dicendo la sua, si prende una condanna a tredici anni di reclusione, invece dell’assoluzione che avrebbe avuta mentendo”. Questo brano l’ho scoperto leggendo “Micromega”, ma Anna Maria ci ricorda che fa parte del discorso commemorativo che Leonardo pronunciò tre anni prima, in occasione del cinquantenario della morte di Pirandello. Un testo che possiamo leggere in “Pirandello e la Sicilia” (Adelphi, pag.245).

Ma è ora di lasciare la parola ad Anna Maria: “Figlia di Leonardo Sciascia non posso non nutrire un grande amore per Luigi Pirandello, amore che risale infatti a un lontano anno dell’adolescenza passato interamente in casa senza alcun impegno scolastico. Presto noia e inquietudine si sostituirono all’euforia dei primi giorni di libertà. Mio padre mi soccorse prima con le “Novelle per un anno” e successivamente con i romanzi. I giochi pirandelliani mi hanno subito conquistato, salvato dalla malinconia, aiutato a crescere…”.

Un bel gioco di specchi, questo di Anna Maria: Pirandello e il suo complesso rapporto con donne che segnano la sua vita: la moglie Antonietta Portulano, la figlia Lietta, e Marta Abba: “Confinata in quel letto e isolata dal mondo non può far altro la povera Antonietta che osservare il suo Luigi mentre seduto accanto a lei scrive, fisicamente presente e vicino, ma prigioniero che anela alla fuga, quella fuga verso una vita diversa e libera che letterariamente attua narrando i fatti accaduti a Mattia Pascal…”(pag. 49).

Nelle ultime pagine de “Il gioco dei padri” Anna Maria svela quel che si intuisce e coglie fin dalle prime pagine, a saper prestare un minimo di attenzione (e, beninteso, con un po’ di sensibilità): “Non mi è stato difficile comprenderla (Antonietta), come per altro verso non mi è stato difficile capire l’amore incondizionato e totalizzante di Lietta per il padre, il suo disagio, che le pagine di diario esprimono perfettamente, in un perenne nec tecum nec sine te vivere possum…”.

Chissà: forse è meglio che Anna Maria non sia stata in grado di salire sul treno del viaggio letterario intorno a Pirandello, se l’alternativa a quel “viaggio”, a quel “treno” è questo libro. Che, è da credere, le sia costato qualcosa, ma a noi lettori dà tanto. Quei padri sono anche i nostri padri.

ROMANZO MESSINESE – Giuseppe Loteta – Pungitopo

Giuseppe Loteta si era già fatto apprezzare per un paio di libri: un saggio che racconta la storia “dimenticata” di uno dei personaggi più straordinari, e malinconicamente sventurati dell’antifascismo europeo, l’anarco-libertario-socialista Fernando De Rosa, caduto durante la guerra civile in Spagna (“Fratello, mio valoroso compagno…”, Marsilio editore); e poi per un romanzo che per la sua costruzione e la sua “cornice” molto sarebbe piaciuto a Leonardo Sciascia: “Messina 1908” (Pungitopo). Ora Loteta, con “Romanzo Messinese” (Pungitopo), propone diciassette brevi racconti: scritti con stile limpido e piacevolmente essenziale. Racconti brevi, annota Vanni Ronsisvalle, che sarebbero potuti essere romanzi. Peccato. O forse, chissà, è meglio così: fulminanti e secchi, rapidi. Si domanda Ronsisvalle: “Quando siete arrivati in fondo al libro vi chiederete retoricamente come me: perché di ognuna di queste ‘folgorazioni’ Loteta non ne abbia fatto altrettanti romanzi?…”. Uno spreco, risponde sempre Ronsisvalle: “perché quei racconti di Loteta sono un concentrato di romanzerai suscettibile di diventare anche altro. Basta trattenersi un momento sulle prime righe di ognuno, sugli incipit tradizionali e accattivanti…”.

Spreco o no su cui si sia abbandonato, Loteta si conferma abile e sapiente affabulatore. Le sue “piccole” cronache, tutte percorse da umorismo dolente e da una vena di divertito scetticismo, ci sembrano stilisticamente perfette; e godibilissime, anche quando, come in “Da Adua a Messina: una morte ritardata”, sono amare; oppure, come in “Fischia il sasso…”, raccontano di una maturità umana e politica sul “campo”. O, ancora, quando in “Mezzanotte è passata da un pezzo”, ci restituisce atmosfere e ideali che credevamo smarriti da tempo, e che invece sono, probabilmente, celati sotto una crosta, e attendono solo il momento buono, l’occasione giusta per emergere e manifestarsi. Ci si augura che ne abbia molti altri, di racconti, Loteta; e che prima o poi si decida a estrarli dal cassetto in cui li custodisce. E un editore non esiti a pubblicarglieli. Farebbe un affare. Come noi facciamo un affare a leggerli. Nell’attesa che accada, rileggiamoli almeno tre volte, questi racconti. Ogni volta sarà una piacevole sorpresa.

Valter Vecellio

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