È proseguita nella mattinata di ieri l’udienza preliminare relativa al procedimento sulla cosiddetta “Trattativa” Stato-mafia. Siamo giunti alla quarta seduta camerale e viste le dinamiche intraprese dalla discussione in aula è molto verosimile che prima di pervenire all’epilogo di questo segmento processuale, attraverso una sentenza di non luogo a procedere o un decreto che dispone il giudizio idoneo ad inaugurare la fase dibattimentale (e quindi il processo vero e proprio), passerà dell’altro tempo. Per la prima volta nella storia della nostra Repubblica, secondo le richieste della Procura di Palermo, dovrebbe celebrarsi un processo che vedrebbe imputati contemporaneamente i vertici dello Stato e i vertici della mafia, per la vicenda della “trattativa” tra lo Stato e Cosa Nostra intercorsa tra il 1992 e il 1994, quella stessa che, secondo l’accusa, Paolo Borsellino avrebbe scoperto nella sua fase iniziale. La Procura, dopo quattro anni di indagini, ha chiesto il rinvio a giudizio di dodici indagati che avrebbero “agito per turbare la regolare attività dei corpi politici dello Stato”.
L’udienza che procede sempre a porte chiuse nel pieno rispetto della normativa processuale, svoltasi nuovamente presso l’aula bunker del carcere Ucciardone, è iniziata poco dopo le 9.30.
Le questioni da esaminare concernevano le numerose eccezioni di competenza territoriale e funzionale presentate dai legali di alcuni imputati, rispetto alle quali la Procura di Palermo, rappresentata in aula dai pm Di Matteo, Sava e Tartaglia, si era già preliminarmente opposta.
Per l’esattezza i legali di Marcello Dell’Utri, Nicola Mancino e Calogero Mannino avevano chiesto il trasferimento del procedimento alla cognizione dei giudici di Roma, mentre i legali dei boss Totò Riina e Leoluca Bagarella avevano chiesto il trasferimento dell’inchiesta a Firenze e in subordine a Caltanissetta dove dalla relativa procura sono state riaperte, e sono in corso, le indagini sulla strage di via D’Amelio.
Imputati presenti in aula Nicola Mancino, Calogero Mannino (presentatosi per la prima volta in udienza) e Massimo Ciancimino. Presenti invece tramite collegamento in video conferenza Bagarella, Brusca (alla scorsa udienza, dopo una breve apparizione, rinunciante), Cinà e Provenzano. Intorno a mezzogiorno Riina si è allontanato rinunciando all’udienza. Assenti invece gli altri imputati De Donno, Dell’Utri, Mori e Subranni.
Intorno alle 11 il primo legale a prendere la parola, e a delucidare le proprie motivazioni in merito all’eccezione di incompetenza territoriale proposta, è Carlo Federico Grosso, avvocato di Mannino. Attraverso una lunga esposizione, questi ha addotto le proprie ragioni circa il deferimento della cognizione del processo ai giudici di Roma, ritenuti gli unici ad essere competenti territorialmente. La dettagliata esposizione ha consentito al successivo avvocato, Basilio Milo, difensore di Mori e Subranni, di concludere in pochi minuti riagganciandosi all’approfondita discettazione del collega che lo ha preceduto e quindi di passare la parola al legale di Nicola Mancino, Massimo Krogh. L’ ex Ministro dell’Interno, che non è coinvolto nella “trattativa” ma viene accusato di falsa testimonianza, in quanto “Deponendo al processo Mori, anche al fine di assicurare ad altri esponenti delle istituzioni l’impunità, ha affermato il falso e comunque taciuto in tutto o in parte ciò che sapeva”, ha sempre ed in ogni occasione negato ogni addebito a suo carico.
Nel corso dell’esposizione delle motivazioni circa l’istanza di incompetenza territoriale e funzionale del Tribunale di Palermo, l’avv. Krogh ha contestato il fatto che tanto Mancino quanto Mannino si troverebbero nella singolare e concomitante posizione processuale di imputati e parti offese e ha concluso chiedendo lo spostamento della competenza a giudicare la posizione processuale del suo assistito in capo al Tribunale dei Ministri.
Successivamente è stata la volta del legale di Bernardo Provenzano, avv. Rosalba Di Gregorio, che già da tempo denuncia la presunta incapacità del proprio assistito di partecipare coscientemente ai processi. E’ stata prodotta nuova documentazione circa l’ aggravamento delle condizioni di salute del capomafia in cui si attesta il ricovero d’urgenza del boss presso l’ospedale Civile.
Da ultimo, hanno preso la parola i legali delle parti civili. L’avvocato Fabio Repici, che rappresenta il movimento delle Agende Rosse e l’Associazione nazionale familiari vittime di mafia (presenti in aula per i rispettivi enti esponenziali di interessi lesi dai reati oggetto dei capi di imputazione, rispettivamente Salvatore Borsellino e Sonia Alfano), ha contestato le svariate eccezioni di incompetenza territoriale argomentando la fondatezza della cognizione attribuita al Tribunale di Palermo: come risulta dal capo di imputazione, formulato dalla procura, i fatti citati sono tutti connessi: dall’omicidio di Salvo Lima fino alle stragi del ’92 e del ’93. Secondo il legale per una serie di ragioni di diritto, eccepite da varie sentenze della corte di Cassazione, il processo non si deve spostare, né a Caltanissetta né a Firenze, ma si deve celebrare a Palermo in quanto la prima minaccia al governo (rappresentata dall’omicidio di Salvo Lima) si è consumata nel capoluogo siciliano. Dopo analoghe contestazioni formulate da parte dell’avvocato Lanfranco, legale di altre parte civili ammesse nel procedimento, è stata la volta dei rappresentanti della Procura palermitana.
Il primo a replicare alla sfilza di eccezioni di incompetenza, addotte dai legali degli imputati, è stato il pm Tartaglia che ha dichiarato infondata la questione sulla presunta competenza del Tribunale dei Ministri, addotta dal legale dell’ex ministro Nicola Mancino: tale organo non può essere investito della competenza a giudicare sui fatti oggetto dell’ imputazione in quanto non sono stati commessi mentre questi ricopriva la carica di Ministro ma di recente e comunque in un momento di molto successivo alla decadenza da tale incarico istituzionale.
Il pm Di Matteo ha contestato le eccezioni di incompetenza nella parte in cui rilevano che l’eventuale presenza di un nesso di collegamento tra il patto stretto da membri delle istituzioni e Cosa nostra e l’assassinio del giudice Paolo Borsellino sarebbe idonea a far spostare la competenza, a decidere sul procedimento, a Caltanissetta. Nel suo intervento, il pm ha sottolineato come il primo atto col quale si è esplicitata la minaccia al governo – e che quindi ha aperto la trattativa – è stato l’omicidio di Salvo Lima, commesso a Palermo, ed è questa la ragione per cui la competenza è dell’autorità giudiziaria palermitana: ”Le stragi del Continente possono certamente considerarsi come commesse in esecuzione della minaccia a corpo politico dello Stato“. Trattandosi di reati tutti della stessa gravità, il c.p.p. assegna la competenza complessiva al giudice competente a giudicare il primo reato. Le ragioni che radicano la competenza in capo all’ Autorità Giudiziaria di Palermo, secondo i pm, sono da rintracciare, infatti, nell’art. 16 c.p.p. rubricato “Competenza per territorio determinata dalla connessione”, che nel primo comma recita testualmente che nei casi di «procedimenti connessi rispetto ai quali più giudici sono ugualmente competenti per materia», la competenza per territorio «appartiene al giudice competente per il reato più grave e, in caso di pari gravità, al giudice competente per il primo reato» . Il reato più grave è quello per cui è prevista la pena più elevata nel massimo e, sempre ai sensi dell’art.16 com.3 “in caso di parità dei massimi, la pena più elevata nel minimo». La pena per i reati (più gravi) contestati nel caso specifico, ovvero omicidio con l’aggravante della premeditazione e strage (delitto che, in astratto, fonderebbe la competenza della Autorità Giudiziaria di Firenze), è quella, senza alternative, dell’ergastolo. In presenza , quindi, di pari gravità, secondo l’accusa, non resta che dare applicazione al criterio della priorità temporale, alla luce del quale va individuato nell’omicidio di Salvo Lima il primo tra i reati più gravi. “Già questo – si legge nella memoria presentata al gup Morosini – dimostra l’infondatezza della prospettata competenza delle autorità giudiziarie fiorentina e romana”.
Per quanto riguarda il collegamento tra la strage di via D’Amelio e la trattativa, il pm è alquanto esplicito. “Sulla base degli elementi di prova acquisiti è invece possibile ritenere l’esistenza di un collegamento fattuale tra la ‘trattativa’, scaturita dalla minaccia, e l’uccisione di Paolo Borsellino. Ma è necessario chiarire l’effettiva consistenza di tale nesso. Ed infatti, il collegamento esiste e rileva non perché la strage di via D’Amelio sia stata perpetrata ‘per eseguire’ la minaccia, ma semmai ‘per proteggere la trattativa’ dal pericolo che il dott. Borsellino, venutone a conoscenza, ne rivelasse e denunciasse pubblicamente l’esistenza, in tal modo pregiudicandone irreversibilmente l’esito auspicato”. In questo senso, secondo i pm, “può certamente escludersi la configurabilità di una di quelle relazioni strumentali espressamente e tassativamente previste dall’art. 12 c.p.p. ai fini della competenza per connessione“. Il pm entra ulteriormente nello specifico dei collegamenti tra la trattativa e le stragi quando legge il passaggio relativo alle “stragi del continente”. Secondo Di Matteo, le stragi del ’93 a Roma, Firenze e Milano “possono certamente considerarsi come commesse in esecuzione della minaccia che viene contestata”, quindi collegate alla Trattativa, collegamento invece non riscontrato per la strage di Capaci. Nel documento firmato congiuntamente da Lia Sava, Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia viene evidenziato che in base al compendio degli elementi probatori, in gran parte valutati anche da più sentenze delle Corti di Assise di Caltanissetta e Catania, l’omicidio di Giovanni Falcone sia da ricondurre a moventi e finalità “principalmente riconducibili alla vendetta nei confronti del ‘nemico storico’, che era riuscito ad incidere pesantemente nei confronti di Cosa Nostra anche nella sua veste di direttore degli Affari penali. Alla finalità vendicativa certamente si accompagnava una finalità spiccatamente preventiva, volta a neutralizzare i pericoli che all’organizzazione mafiosa sarebbero derivati dalla prospettata nomina del dott. Falcone alla carica di Procuratore Nazionale Antimafia, ma anche – ed ancor più nell’immediatezza – dalla continuazione di quella vera e propria strategia di contrasto incisivo che lo stesso, con il sostegno politico del Ministro Martelli e in piena sintonia con il Ministro dell’Interno Scotti, aveva sviluppato fin dal primo momento successivo alla sua nomina a direttore degli Affari penali”.
È spiccata all’occhio l’assenza dell’Avvocatura dello Stato, che evidentemente ha ritenuto di non avere nessun motivo per pronunciarsi sulla competenza, lasciando il compito di sostenere le ragioni dell’attuale incardinamento solo alla Procura e alle parti civili.
Il gup di Palermo Piergiorgio Morosini, titolare di questa fase, a conclusione dell’udienza ha disposto una perizia per accertare lo stato di salute psicofisico del boss Bernardo Provenzano. Alla richiesta di approfondimento delle reali condizioni di salute, che potrebbero incidere sulla capacità di stare in giudizio, non si è opposta la Procura che, però, ha prodotto un altro certificato medico del 19 ottobre in cui si attesta che l’emergenza è rientrata. Il gup ha disposto gli accertamenti e nominerà il 29 novembre il perito che dovrà effettuarli. Nella stessa data le parti nomineranno i loro consulenti.
Intanto la decisione sulla competenza territoriale e quindi la pronuncia definitiva sull’Autorità Giudiziaria, che sarà ritenuta competente a giudicare, si attende nel corso della prossima udienza fissata il 4 dicembre.
Sempre per il 4 dicembre è stata già calendarizzata l’udienza pubblica della Corte Costituzionale per la discussione nel merito del conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato promosso dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano contro la Procura di Palermo.
Lo scontro tra poteri ruota attorno alla vicenda riguardante le intercettazioni delle conversazioni telefoniche del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano con l’ex ministro dell’Interno ed ex vicepresidente del Csm Nicola Mancino, sottoposto a sorveglianza dai PM di Palermo per l’indagine sulla trattativa Stato-mafia.
Il ricorso è stato depositato dall’Avvocatura dello Stato presso la cancelleria della Corte Costituzionale il 26 settembre, dopo essere stato dichiarato ammissibile dalla stessa Corte la quale, con l’ordinanza n. 218 (giudici relatori Gaetano Silvestri e Giuseppe Frigo), si è pronunciata in questi termini «sussiste, allo stato – salvo il definitivo giudizio all’esito dell’instaurazione del contraddittorio – la materia di un conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato la cui risoluzione spetta alla competenza di questa Corte».
Nelle dodici pagine dell’ordinanza i giudici costituzionali spiegano come il ricorso presentato dal Capo dello Stato «è proposto a salvaguardia di prerogative del presidente della Repubblica che sono prospettate come insite nella garanzia dell’immunità prevista dall’articolo 90 della Costituzione».
La Procura di Palermo ha presentato una memoria di costituzione di 32 pagine, è rappresentata da un collegio difensivo costituito dal professor Alessandro Pace, già presidente dei costituzionalisti italiani, e dai professori Giovanni Serges e Mario Serio.
Per un singolare gioco della storia, il ventennale dell’uccisione di Paolo Borsellino si è intrecciato con il conflitto di attribuzione tra Quirinale e procura di Palermo. Sulla presunta trattativa si discute a tutti i livelli da svariati anni.
L’istituto del conflitto di attribuzione, regolato oltre che dalla Costituzione anche dalla legge n. 87 del 1953, risponde alla necessità di mantenere l’ordine fra i poteri statali al più alto livello, risolvendo crisi di indubbia gravità istituzionale che si possono verificare, in linea di principio, quando i due organi si dichiarano entrambi competenti o incompetenti a provvedere in un dato caso; oppure quando uno dei due ritiene di essere stato menomato, nelle sue prerogative, dal cattivo uso del potere fatto dall’altro organo.
Il giudizio si svolge in due fasi consecutive: nella prima, la Corte verifica se il conflitto rispetta i requisiti previsti; nella seconda, risolve la controversia, stabilendo a chi spetta la competenza, ovvero come debba essere esercitato correttamente il potere in modo da non ledere le attribuzioni dell’altra istituzione.
Con la decisione di sollevare il conflitto di attribuzione dunque:
1) Il Presidente della Repubblica non difende la sua persona, ma le prerogative costituzionali della Presidenza della Repubblica;
2) Il giudizio sul conflitto di attribuzione non è un giudizio di responsabilità dell’operato della Procura di Palermo, ma la valutazione da parte della Corte del rispetto dei principi costituzionali;
3) L’azione del Presidente si inquadra perfettamente nell’alveo delle procedure costituzionali.
Va rilevato, altresì, che l’articolo 7 della legge 5 giugno 1989, n. 219 prevede che nei confronti del Presidente della Repubblica non possono essere adottati i provvedimenti che dispongono intercettazioni telefoniche o di altre forme di comunicazione, ovvero perquisizioni personali o domiciliari, nonché quelli che applicano misure cautelari limitative della libertà personale, se non dopo che la Corte costituzionale ne abbia disposto la sospensione dalla carica.
Circa l’operato della Procura, va ricordato che l’articolo 268 del codice di procedura penale prevede che i risultati delle intercettazioni, disposte dal pubblico ministero, entrino nel fascicolo, salvo che siano manifestamente irrilevanti, oppure siano vietate dalla legge.
La valutazione è compiuta sia dalle parti (pubblico ministero, imputato, …), sia dal giudice (anche d’ufficio), nel corso di un’apposita udienza, e le parti hanno facoltà di esaminare prima i documenti e di ascoltare le registrazioni.
Qualora l’intercettazione sia vietata, la relativa documentazione è inutilizzabile ed è distrutta su ordine del giudice, salvo che essa costituisca corpo di reato (articolo 271).
In varie dichiarazioni la Procura di Palermo ha sottolineato che “si tratta di intercettazioni irrilevanti ma legittime e utilizzabili. Sull’eventualità che vengano distrutte si pronuncerà il giudice” e che “la comunicazione di Napolitano è processualmente irrilevante, tanto che si esclude di utilizzarla sia in sede investigativa, sia nel processo”.
Se il Presidente della Repubblica, dopo aver doverosamente – quale supremo garante del rispetto della Costituzione – sollevato il conflitto di attribuzione, chiedesse di rendere pubblico il contenuto delle intercettazioni di cui tanto si discute, si eliminerebbe ogni dubbio. Come ha affermato lo stesso Presidente Napolitano: “si deve lavorare senza sosta e senza remore per la rivelazione e sanzione di errori ed infamie che hanno inquinato la ricostruzione della strage di via D’Amelio e si deve giungere alla definizione dell’autentica verità su quell’orribile crimine. Non c’è alcuna ragion di Stato che possa giustificare ritardi nell’accertamento dei fatti e delle responsabilità’, ritardi e incertezze nella ricerca della verità specie su torbide ipotesi di trattativa tra Stato e mafia. E proprio a tal fine è importante scongiurare sovrapposizioni nelle indagini, difetti di collaborazione tra le autorità ad esse preposte, pubblicità improprie e generatrici di confusione”.
E oggi questa urgenza non appare più differibile.
Luciana Cusimano
Il giudice Paolo Borsellino fu ucciso per nascondere la trattativa tra stato e mafia, la negoziazione tra stato e anti-stato.
Alto Tradimento.
Pena di morte per comportamento mafioso ed alto tradimento.
http://www.ilcittadinox.com/blog/paolo-borsellino-ucciso-per-nascondere-trattativa-stato-mafia.html
Gustavo Gesualdo
alias
Il Cittadino X
Il giudice Paolo Borsellino fu ucciso per nascondere la trattativa tra stato e mafia, la negoziazione tra stato e anti-stato.
Questo è Alto Tradimento.
Pena di morte per “comportamento mafioso” ed “alto tradimento”.
http://www.ilcittadinox.com/blog/paolo-borsellino-ucciso-per-nascondere-trattativa-stato-mafia.html
Gustavo Gesualdo
alias
Il Cittadino X
Prendiamo atto di un parere legittimamente espresso, ma rileviamo che anche parlare di pena di morte è anticostituzionale.
La forza di una Democrazia, come proprio l’opera di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino dovrebbe insegnarci, è quella di credere -malgrado tutto- nel corpo istituzionale. Alla magistratura il dovere di giudicare quei fatti e comminarne giusta sentenza. (Luigi Asero)