Sarà un caso o sarà perché è più importante la soppressione dell’Imu, dai principali quotidiani e agenzie di stampa nazionali on line, la questione “Siria” è passata in secondo o terzo piano (o giù di lì): e all’improvviso sembra essere calato l’interesse verso una situazione esplosiva che avrebbe potuto (e può) coinvolgere in una guerra mezzo mondo? Sicuramente no. Probabilmente già da ieri c’era sentore che il “count down” – previsto per oggi giovedì 29 agosto – della “tre giorni” di fuoco contro Assad sarebbe stato interrotto. Troppe incognite per gli Stati Uniti a fronte di alleati (Italia compresa) titubanti e incerti per una iniziativa bellica non completamente condivisa nonostante la condanna unanime nei confronti del governo siriano per i mezzi di sterminio usati contro quelli che vengono definiti “ribelli”. Anche la Gran Bretagna concorde con gli USA nell’usare la forza contro Assad, a prescindere dal placet dell’ONU, si è imposta un “Alt” precipitoso: la mozione che il governo britannico presenterà oggi ai Comuni non chiede, infatti, l’autorizzazione all’attacco, al contrario della posizione precedente; chiede invece che il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite esamini il rapporto degli ispettori, impegnati a Damasco ad accertare la natura dell’attacco chimico del 21 agosto, prima di decidere su un intervento militare.
Obama, dal canto suo, ha ribadito che gli Stati Uniti non hanno alcun interesse a entrare nella guerra civile siriana, pur non avendo dubbi sull’uso di armi chimiche da parte del regime di Assad. Obama non avrebbe alcuna intenzione di ripetere l’esperienza “Iraq”, non intenderebbe sobbarcarsi un’avventura militare dagli sbocchi imprevedibili e lo stesso Pentagono frena su azioni belliche. Anche se il piano d’attacco alla Siria prevedeva (o prevede) un intervento limitato, i rischi maggiori sono quelli che possono derivare dal “dopo attacco”. Troppe incognite che determinano incertezza: in Siria sono pochi gli interlocutori “sicuri”, quelli che sono gli alleati di oggi – i ribelli – possono diventare i nemici di domani. Sulla decisione di un intervento armato pesano, inoltre, le minacce di azioni terroristiche con armi chimiche contro l’Europa, espresse dal viceministro degli Esteri siriano Faisal Maqdad, ha apertamente dichiarato che “Usa, Gran Bretagna e Francia hanno aiutato i terroristi che usano armi chimiche in Siria: gli stessi gruppi presto potrebbero colpire l’Europa”.
Altra minaccia che è stata presa in seria considerazione è quella che proviene dall’Iran: un attacco militare contro la Siria spingerebbe Damasco e i Paesi alleati di Bashar Al Assad a una rappresaglia che colpirà Israele.
La posizione dell’Italia è stata espressa dal ministro degli Esteri Emma Bonino che ha sottolineato come portare avanti un’azione di attacco solo “su selezionati dati di intelligence ha già causato altri interventi che non si sono rivelati molto positivi“, riferendosi esplicitamente a quanto verificatosi nel marzo del 2003 con l’invasione dell’Iraq.
Troppe, dunque, le incognite sul risultato di un intervento militare “breve” (o “lungo”, non avrebbe cambiato lo stato delle conclusioni) nei confronti della Siria: il “count down” preannunciato forse intendeva essere uno strumento di pressione, ma non più di tanto? Non è facile dare una risposta concreta.
Un segnale che la decisione dell’attacco non fosse “definitiva” lo si è potuto cogliere anche dalla mancanza di stato d’allerta elevato a Sigonella: la base siciliana della Naval Air Station della Sesta Flotta statunitense ha vissuto questi ultimi giorni in (apparente) calma. Anche se è vero che gli Stati Uniti avrebbero utilizzato le basi di Cipro, Sigonella è pur sempre l’installazione principale che supporta qualsiasi operazione militare delle forze USA nel Mediterraneo. A Sigonella, forse e in tutta segretezza, avranno operato i Global Hawks o i Predator stanziali, ma di ciò non c’è certezza.