Aveva 24 anni, Mohamed Ahmed Mokhar, egiziano arrestato a metà agosto, individuato come scafista. Era detenuto nel carcere Malaspina di Caltanissetta, e vai a sapere di quali pensieri era preda quando ha sfilato i lacci dalle scarpe, ne ha ricavato una cordicella, e con questa si è impiccato.
Gli agenti della Polizia penitenziaria quando lo hanno visto rantolare sono subito intervenuti, il personale del 118 è accorso con un defibrillatore, Mohamed è stato trasportato all’ospedale, ma non c’è stato nulla da fare: ormai era morto. L’ennesimo suicidio in carcere.
Più o meno nelle stesse ore il Ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri visitava il carcere genovese di Marassi. Carcere che il Ministro Cancellieri ben conosce, perché per molti anni è stato prefetto nel capoluogo ligure. “Quello delle carceri è un tema drammatico sottovalutato nel passato”, dice Cancellieri. “Le carceri scoppiano, ma se ne parla poco. Bisogna riuscire a riportarle a una condizione di vivibilità e di civiltà”.
Come fare? “I punti sono tre. Primo: c’è molta gente che potrebbe non andarci, in carcere, scontando pene alternative. Secondo: in Italia non si applica il regolamento carcerario: noi pretendiamo che il detenuto resti in cella non più di otto ore al giorno, mentre in molte realtà è costretto a restarvi per 22 ore. Parliamo della possibilità che il detenuto lavori, cosa che purtroppo accade raramente. Infine c’è la necessità di costruire nuovi istituti penitenziari…”.
Il carcere non è solo sovraffollamento e vetusto, secondo Cancellieri: “Da una parte occorre garantire che chi ha sbagliato paghi il suo conto, dall’altro serve una risposta adeguata non una tortura, si deve cambiare atteggiamento. Non dimentichiamoci che a maggio dovremo andare in Europa a spiegare quello che stiamo facendo e altrimenti sarà dura, perché abbiamo un eccesso di detenuti rispetto ai posti carcere che al momento è tra le venti e le 25mila unità. Quindi prima di maggio dobbiamo affrontare in maniera molto concreta il problema, l’Europa ci bacchetta da molto tempo su questo”.
Roberto Martinelli è il segretario del Sappe, uno dei sindacati della Polizia penitenziaria. “A pagare lo scotto del costante e pesante sovraffollamento”, dice, “sono anche i poliziotti penitenziari. Solo nel 2012 a Marassi ci sono stati 28 atti di autolesionismo, 9 tentati suicidi sventati dalla Polizia penitenziaria e 12 ferimenti. Questi dati sono importanti per far conoscere il duro, difficile e delicato lavoro della polizia penitenziaria”.
Già, la Polizia penitenziaria. Per capire i termini della questione, spostiamoci in Calabria: è il cuore della ‘ndrangheta, una delle più pericolose e spietate organizzazioni criminali del mondo. In Calabria le carceri sono tredici, 2.650 i detenuti, almeno 900 gli affiliati alle varie cosche. A Catanzaro un nuovo padiglione del locale carcere non può essere aperto: manca il personale. Stesso discorso per il carcere di Paola. Il nuovo istituto di Arghillà, alle porte di Reggio Calabria, dopo ben 25 anni di lavori, è stato finalmente inaugurato. Ospita 200 detenuti, può arrivare a contenerne fino a 700. Il problema, dicono i sindacati della polizia penitenziaria, è che dei 40 agenti assegnati, dieci non sono neppure arrivati in sede. Per coprire i buchi, si è attinto dal personale di altre carceri, che è un modo di tamponare una falla creandone un’altra. Carenza di personale si registra anche a Locri, a Palmi, a Rossano, Vibo Valentia. Deprimente che vi sia una simile situazione proprio in una regione ad alto tasso mafioso…
Purtroppo è una situazione diffusa, non circoscritta alla sola Calabria. L’organico della Polizia penitenziaria prevede che gli agenti siano circa 45mila. In servizio, però, ce ne sono 38.500. Con i distacchi e le assegnazioni in sedi che non sono carceri, se ne vanno altri 4mila agenti circa. Non solo: l’organico diminuisce, per ragioni fisiologiche, di almeno 800 unità, che solo in parte vengono rimpiazzate.
Ecco dunque che per assicurare la necessaria sicurezza, molti padiglioni di carcere sono chiusi, mentre in altri si vive stipati come sardine; gli agenti devono sottoporsi forzosamente a turni massacranti, saltano ferie e riposi, la notte da soli devono sorvegliare interi padiglioni; e a fronte di tutto ciò non c’è neppure la prospettiva di chissà quale guadagno: lo stipendio base oscilla tra i 1.200 e i 1.800 euro. Insomma: anche loro vivono e patiscono quotidianamente il degrado delle strutture carcerarie. Un indicatore significativo ed emblematico è costituito dall’alto numero dei suicidi. Non solo tra i detenuti. Sono tanti anche gli agenti che si tolgono la vita, un numero impressionante: sei, sette, otto ogni anno. Il 2013 non è ancora terminato, e siamo già a sette, quest’anno. Dal 2000, all’interno del corpo si sono consumati almeno un centinaio di suicidi. Le motivazioni possono essere le più varie, nessuno ha indagato in maniera specifica. Sono comunque numeri alti, sorprendono e sconcertano.