Giacomo Matteotti, Leonardo Sciascia e le “vecchie zie”

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Giacomo-MatteottiDi Valter Vecellio

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Ci sono degli italiani con cui l’Italia ha un debito, di cui deve essere fiera, orgogliosa. Tra questi italiani, che sono assai più di quanto si sappia e si creda, e a cui dobbiamo riconoscenza e gratitudine, c’è senz’altro Giacomo Matteotti. Il 10 giugno saranno novant’anni dalla morte, più propriamente dall’uccisione provocata da cinque membri della polizia politica fascista. Non mi pare che siano molte le occasioni, che si sono create per ricordarlo, per onorarne la memoria e il sacrificio. Non mi sorprende, ma ugualmente ne sono rammaricato.

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A lungo si è dibattuto se Mussolini sia stato il mandante di quel delitto, se sia invece imputabile all’ala dura del fascismo che ha agito a insaputa del capo costretto a prenderne atto. se Matteotti doveva subire solo una “lezione”, poi sfociata in tragedia; e le inconfessabili ragioni di quel delitto.  C’è un’ampia storiografia in materia, con punte a volte anche decisamente fantasiose. Renzo De Felice, ritenuto il più autorevole studioso del fascismo e di Mussolini, per esempio era convinto che Mussolini non avesse dirette responsabilità in questo delitto, che non l’abbia ordinato nè voluto. Ma anche Federico Chabod e Benedetto Croce, per citare altri insospettabili studiosi e autorevoli testimoni erano dello stesso parere. Ma al di là di questo – un terreno in cui non mi voglio addentrare – mi pare abbiano subito visto giusto quei socialisti vicini a Filippo Turati che il 17 giugno del 1924 sostengono che «L’autorità politica assicura solerti indagini per consegnare alla giustizia i colpevoli, ma la sua azione appare totalmente investita dal sospetto di non volere, né potere colpire le radici profonde del delitto, né svelare l’ambiente da cui i delinquenti emersero». Fa riflettere che si possano usare le stesse parole per tanti delitti e per tante stragi che hanno insanguinato il paese dagli anni Settanta agli anni Novanta…

Il sentire popolare fu ancora più esplicito; una famosa canzonetta dell’epoca diceva:

« Or, se a ascoltar mi state,

canto il delitto di quei galeotti

che con gran rabbia vollero trucidare

il deputato Giacomo Matteotti,

Erano tanti:

Viola Rossi e Dumin,

il capo della banda

Benito Mussolin. »

Il “Becco Giallo” famosa rivista umoristica di massa, un irriverente “Il Male” dell’epoca con in più l’autorevolezza di un “Canard Enchaine” pubblicò una vignetta nella quale un truce Mussolini siede sulla bara di Matteotti.

Di Matteotti, Carlo Rosselli scrive che “…possiede una qualità rara tra gli italiani e rarissima tra i parlamentari, il carattere. Era tutto d’un pezzo. Alle sue idee ci credeva con ostinazione, e con ostinazione le applicava…“. Uccidendo Matteotti, conclude Rosselli, Mussolini “ha indicato all’antifascismo quali debbono essere le sue preoccupazioni costanti e supreme: il carattere, l’antiretorica, l’azione“.

Altro che socialismo zuccheroso e buonista, da libro “Cuore” (a parte che anche questo grande libro e il suo autore Edmondo de Amicis andrebbero liberati da questa patina dolciastra con cui li si è voluti avvolgere)! Era, è, piuttosto, un socialismo umanitario, non credo si debba aver timore di questa parola, che cercava di coniugare i valori della libertà, della giustizia, dell’uguaglianza; quel liberal socialismo che troveremo nei fratelli Rosselli, e poi in Aldo Capitini e Guido Calogero – anche questi personaggi, non per un caso dimenticati e ignoti, volutamente, “scientificamente” ignorati. Per non parlare di Ignazio Silone, che ha avuto una travagliatissima esperienza politica: fondatore del PCI, una intensa e appassionata militanza, dirigente di spicco del partito, poi la violentissima rottura con il comunismo, la denuncia di ogni totalitarismo non importa di quale colore, l’impegno a favore di un socialismo intriso di valori cristiani nel senso letterale; è Silone che conia  l’espressione “fascismo rosso”, contro le degenerazioni dello stalinismo, ponendo l’accento sulla dialettica fra l’apporto degli intellettuali nella loro area politica di appartenenza e i vertici di partito…

Questo, in sintesi, il mondo di Giacomo Matteotti. Ma anche il mondo di Piero Gobetti, di Giovanni Amendola, di Gaetano Salvemini che pure nei confronti dei socialisti non era particolarmente tenero, di Ernesto Rossi, Filippo Turati, Sandro Pertini, Fernando de Rosa, dei tanti che accorrono per combattere in Spagna i golpisti di Francisco Franco, ma devono fare i conti anche se non sopratutto con gli agenti di Stalin. George Orwell ha scritto pagine illuminanti al riguardo.

E qui si incontrano Leonardo Sciascia e il sentire popolare.

Immaginiamola, Racalmuto, il paese dove Sciascia è nato ed è cresciuto, anni, diceva, che sono formativi per una persona, e la segnano per il resto della vita. Ancora oggi non è facile arrivare a Racalmuto. Certo non con il treno… anche con l’automobile è un bel viaggio. Figuriamoci negli anni ’20-’30. Piccole case, viuzze, gente che si ammazzava dalla fatica per quattro soldi, qualche notabile e possidente. Niente televisione, la radio di regime, poche le automobili,  molti gli analfabeti, qualche giornale, il circolo… Al di là del regime che se pur blandamente anche a Racalmuto avrà vigilato, parallelo ad altra, più spietata,efficiente e superiore vigilanza, le notizie arrivavano tardi, e male, non c’era internet, la rete, i tam tam di oggi…

Nel 2002 Matteo Collura, grande amico di Sciascia e suo biografo, autore del bel “Il maestro di Regalpetra” pubblicato da Longanesi, per lo stesso editore dava alle stampe “Alfabeto eretico“: cinquantotto voci dall’opera di Sciascia, da don Abbondio a Zolfo, e poi l’America, la mafia, il fascismo, Pirandello, Moro, la Sicilia, per capire Sciascia e il suo mondo… una in particolare, qui interessa, ed è la voce dei parenti. Sono appunto le zie.

Scrive Collura: «Figure determinanti nella vita di Sciascia, avendone influenzato il formarsi del carattere (…) e fornendogli impagabili spunti nella sua formazione di scrittore (…) Fu una zia a rivelargli, mostrandogli un ritratto di Giacomo Matteotti, tenuto nascosto tra gli attrezzi per il cucito, che i fascisti avevano ucciso un “padre di famiglia che aveva dei bambini “». Di questa e poi mille altre morti, spesso ingiuste, scrisse Leonardo Sciascia. Storie di Sicilia e del mondo. E ieri come oggi, questo scrittore c’insegna sempre qualcosa. Zie colme di quella popolare saggezza che consente di sapere quel che conta e che vale, una saggezza che sa istintivamente dov’e’il sugo del sale, non solo nel libro di Collura compaiono queste simpaticissime zie. Sciascia ne scrive in articoli, ne parla in interviste. Sono una presenza costante.

Un cugino di nostro padre” racconta lo scrittore ne “Le parrocchie di Regalpetra”, “ci portò in casa il ritratto di Matteotti. Io abitavo con le zie, erano tre sorelle, due di loro non uscivano mai di casa, e spesso riavevano visite di parenti…”. Quel parente racconta come avevano ammazzato Matteotti, e dei bambini che lascia: “…mia zia cuciva alla macchina e diceva – ci penserà il Signore- e piangeva. Ogni volta che vedo da qualche parte il ritratto di Matteotti immagini e sensazioni di quel giorno mi riaffiorano…mia zia prese il ritratto, arrotolato dentro un paniere in cui teneva filo da cucire e pezzi di stoffa. In quel paniere restò per anni. Ogni volta che si apriva l’armadio, e dentro c’era il paniere, domandavo il ritratto. Mia zia, biffava le labbra con l’indice, per dirmi che bisognava non parlarne. Domandavo perché. Perché l’ha fatto ammazzare quello, mi diceva. Se alla mia domanda era presente l’altra mia zia, la più giovane, che era maestra, si arrabbiava con la sorella – devi farlo sparire quel ritratto, vedrai che qualche volta ci capiterà un guaio. Io non capivo. Capivo però chi fosse quello…“.

Valgono più questi ricordi di poderosi saggi e dotte ricerche storiche, per capire che tipo di incidenza abbia avuto un personaggio come Matteotti tra quella gente comune  che poco o nulla sapeva di alchimie e strategie politiche, ma molto capiva e s’intendeva di quello che Manzoni definisce “guazzabuglio del cuore umano”; e la chiave è appunto in quella istintiva commozione per un padre con bambini ucciso da “quello” e nel ritratto gelosamente conservato. Un ricordo che seguirà Sciascia, condizionandolo, tutta la vita; e che si rifletterà in tutta la sua opera.

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