Del giornalismo in tempo di guerra (santa, laica o finta che sia)

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i-dispositivi-di-protezione-da-indossaredi Marco Di Salvo

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“embedded : agg. trad. incorporato, incassato, inserito, incastrato. Nel linguaggio giornalistico, di inviato di guerra, che opera incorporato in una delle unità combattenti”

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Di giornalismo “embedded” si cominciò a parlare esplicitamente, nei media americani, ai tempi della prima guerra nel Golfo, nell’ormai lontano 1991, anche se si realizzò ufficialmente solo nel 2003, quando 775 reporter furono di fatto aggregati formalmente alle truppe americane durante l’invasione dell’Iraq, firmando un contratto che limitava (e di molto) la loro funzione di reporter indipendenti.

In realtà, di giornalismo embedded negli ultimi anni ne abbiamo visto e ne vediamo ogni giorno, sui media di casa nostra e non solo. In tempo di guerra e non solo. Anzi, siamo arrivati al giornalismo autoembedded, ovvero ad un giornalismo che non fa domande scomode e non cerca le notizie in attesa della comunicazione ufficiale di chi sta in alto nella catena di comando. Che si tratti di una conferenza stampa o di un comunicato di un sindaco, di un comando dei carabinieri o di una procura. Una volta queste si chiamavano veline, e nei giornalisti c’era un fremito di  ribellione (spesso sopita) antecedente la inevitabile pubblicazione della notizia di regime (le “veline” nascono sotto il fascismo, erano i fogli d’ordine contenenti le disposizioni che il regime impartiva alla stampa quotidiana e periodica. Le veline del regime cominciarono a circolare dal 1935. Con l’istituzione del Ministero della Cultura Popolare, che controllava anche la SIAE e l’EIAR, le veline divennero ancora più pressanti verso la stampa. Erano in carta velina perché dovendo essere scritte a macchina e in molte copie, più sottile era la carta e più se ne potevano scrivere con una singola battitura, ponendo la carta carbone tra l’una e l’altra.).

Il giornalismo autoembedded invece non ha bisogno di stimoli esterni, ma coglie con indubitabile sagacia l’aria che tira e si da da fare con spontaneità. Un esempio degli ultimi giorni, per dare un’idea di dove ci stiamo cacciando. La vicenda del rimpatrio degli italiani dalla Libia. Avete visto tanti servizi, letto tanti articoli, scrutato tante dichiarazioni. Rientri di massa, dicevano, i notiziari prima dell’evento.  Qualcuno si spingeva addirittura a raccontare di navi affittate per sfollare in fretta e furia dal territorio in guerra. Bene, ora esaminiamo bene il contenuto delle notizie sugli arrivi.

Augusta: nella notte tra domenica e lunedì arriva nel porto siciliano una nave con (titolo corriere) “un centinaio di italiani”. Ma per chi ad Augusta c’era (giornalisti vecchio stampo, che amano vedere le cose con i propri occhi) la situazione è diversa: escono dal porto ipersorvegliato una ventina di suv (con due o un passeggero per vettura) e un signore a piedi, il signor Salvatore. Qust’ultimo viene assaltato dai cronisti presenti e dice delle ovvietà, se dette da chi proviene da un paese che è DA QUATTRO ANNI in guerra: «La situazione a Tripoli è critica…». E sull’Isis: «È già da un pezzo che è a Tripoli, lo ha detto anche la televisione». Lo dice anche la televisione. Siamo al cortocircuito, il testimone cita la tv (magari quella italiana) a conferma di quello che lui vive.

Ma torniamo agli italiani rimpatriati ad Augusta. La conta finale parla di una quarantina di persone, probabilmente tutti impiegati dell’ambasciata (nelle più diverse funzioni tipiche di un rappresentanza diplomatica attiva in territorio di guerra). Bene, direte. Ma ci sono quelli che sono arrivati a Pratica di Mare. Le cronache, senza alcuna immagine, parlano di una ventina di rimpatriati. E la cosa più divertente della vicenda è che, a detta delle cronache contrapposte di Corsera e Messaggero, l’ambasciatore pare sia sbarcato due volte, una ad Augusta e una a Pratica di Mare.

Con questo contesto (e l’espansione dei social network che servono solo di fatto a fare da grancassa all’opinione dominante) il ruolo dei giornali indipendenti si fa sempre più complesso e il loro lavoro più arduo. E maggiore deve essere l’attenzione che anche noi dobbiamo porre al flusso di notizie che veicoliamo. Una volta questa si chiama controinformazione, ora basta chiamarla informazione.

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