La Carta Costituzionale sancì “da subito” l’uguaglianza di tutti i cittadini: via quindi come parametri di valutazione sesso, razza, religione, censo, professione, cultura, prestanza fisica e nobiltà con relativi privilegi. La Repubblica Italiana non riconosceva i titoli nobiliari e ogni eventuale privilegio fino ad allora concesso ai nobili: i privilegi non erano (giustamente) diritti acquisiti. Mai più le vecchie sperequazioni. Chiunque poteva essere rappresentante del popolo purché dal popolo stesso eletto nel contesto della competizione tra partiti, veri garanti (a meno di derive) della democrazia.
Sorvoliamo sul fatto che il sistema codificato con le leggi elettorali non ha sempre premiato tutti i più meritevoli o tutti i più votati: “transeat”.
Fu anche risolto il problema della sopravvivenza degli eletti: per rappresentare il popolo avrebbero dovuto trascurare (“avrebbero dovuto” beninteso) i loro affari, i loro lavori, le loro fonti di reddito insomma: allora non esisteva la professione “politico”, come tanti hanno da sempre amato definirsi e qualcuno faceva scrivere (lo fa ancora?) sui documenti. Bene, problema risolto: un magnifico indennizzo che, con tutti i benefit, in un mese può anche superare la paga annua di un lavoratore. E caspita: il nobile o il ricco borghese rincorrevano l’elezione per “vanità”, pagandosi tutte le spese, ma il cittadino repubblicano (fosse anche straricco) deve essere adeguatamente e signorilmente premiato. D’accordo l’impegno politico è una missione, ma non una beatitudine.
L’impegno obbligatorio da profondere in una legislatura? Non scherziamo signori: non si tratta di operai alla catena di montaggio o di modesti “travet” negli uffici ma di rappresentanti del popolo e il popolo (si sa) deve essere sempre rispettato (non fosse altro perché paga tutti gli stipendi, anzi, pardon, tutti gli indennizzi). Quindi un giorno o un mese o un anno o un periodo più lungo di impegno in tutta la legislatura è più che sufficiente.
E mentre il “lavoro” di rappresentanza popolare era quello che era sono cresciuti nel tempo “indennizzi, benefit, privilegi” sempre più difesi come diritti acquisiti.
Strano vero? Non esistono diritti acquisiti per i lavoratori dei “ranghi inferiori”; ma per i rappresentanti del popolo e i loro “sommi” , infaticabili, infallibili “fedeli” collaboratori (in primis i vertici della burocrazia, da alcuni definiti burosauri, e i vertici degli enti economici pubblici, definiti a volte boiardi di stato) i compensi, benefit, privilegi sono ineludibili, inalienabili, indiscutibili, eterni diritti sacralizzati per volere divino.
Non potevano i padri costituenti prevedere la professione “politico” e la crescita esponenziale delle spese dei rappresentanti del popolo. E poi vi rendete conto come è stressante al giorno d’oggi mantenersi “super partes”? Quante e quali sono al giorno d’oggi le parti su cui applicare il super? E la potenza economica e il potere politico con cui sono capaci di “aggredire”? Forse, poverini, avrebbero diritto almeno al doppio di tutto, con villeggiatura spesata per tutto l’anno e un sostituto (tele-diretto) a carico dei contribuenti per le noiose routine d’aula e di commissione.
Parlando di privilegi acquisiti possiamo estendere la citazione agli ambienti regionali e ad altri: magari potreste esplorare voi stessi le italiche lande, dal basso in alto.
E sorvoliamo pure sugli sconvolgimenti successivi che hanno umanizzato i partiti: si vota il partito, non più l’uomo. E da uomini i partiti si comportano: nascono, crescono e muoiono ad età differenti, vittime come sono spesso del nuovo sport: “il salto sul carro”.
Quali sarebbero le altre offese?
Ne citiamo due.
Al primo posto troviamo la sistematica violazione dello Statuto Speciale della Regione siciliana:è nato prima della Costituzione italiana, divenendo esso stesso Legge costituzionale o , se vi piace, costola essenziale della carta costituzionale.
Al secondo posto mettiamo una questione matematica: noi crediamo che i padri intendessero quantificare l’importo delle tasse da pagare con un criterio di “pura e rigida proporzionalità (linea retta)” rispetto al reddito, sì da dare anche certezze “certe e visibili” ai cittadini ; invece il criterio applicato è di “libera e geometrica esponenzialità (curva iperbolica) ”.
Dove sta la differenza?
Un lavoratore che s’affanna e guadagna per tre (diciamo per pura ipotesi lavora 108 ore settimanali) pagherà tasse non per tre ma per quanti ne “racchiuderà” l’esponenzialità: per quattro, per cinque in ragione del reddito.
In alto invece può capitare che in un tempo molto ma molto inferiore si arrivi ad incassi globali molto superiori ma in gran parte classati come rimborsi a tassazione separata o addirittura nulla: il risultato finale, grazie all’esponenzialità applicata, potrà castigare facilmente il piccolo lavoratore.
Boh!
La vera e umana uguaglianza auspichiamo noi.
Giusto, santo e intoccabile è il nostro trattamento privilegiato; non osate neppure discuterlo: ringhiano altri.