Di Salvo Barbagallo
Mentre al nord, in Italia il 25 aprile del 1945 si festeggiava la Liberazione, in Sicilia si tentava un’altra “Liberazione”, quella dell’indipendenza dell’Isola. Due storie diverse che ancora oggi il Paese preferisce ignorare perché mai le istanze di Libertà e Autonomia dei Siciliani, in qualsiasi tempo e modo, potevano essere accettate da chi governava il Paese. Così come ignorato e non “riconosciuto” fino ad ora è stato il contributo “armato” dei Siciliani alla lotta contro il nazifascismo, così non viene detto che la Sicilia non venne “liberata” ma “occupata” perché resta ignorato e non riconosciuto il periodo dell’occupazione angloamericana della Sicilia (luglio 1943-febbraio 1944) e gli abusi e le stragi perpetrate contro la collettività isolana da parte dei militari italiani dei primi Governi “provvisori” nazionali. Non viene detto che mentre al nord la guerra ai nazifascisti continuava, al sud gli italiani erano posti contro Siciliani. A settant’anni di distanza si è festeggiato il giorno della Liberazione, ma cosa accadeva in Sicilia nei mesi che precedettero e seguirono quel lontano 25 aprile del 1945? E’ un’altra storia che vale la pena raccontare a chi la “memoria” non possiede e a chi, soprattutto, la “memoria” ha accantonato perché “scomoda”.
Va ricordato che caduto il Fascismo il 25 luglio 1943, dopo l’8 settembre 1943 costituitosi il primo Governo Badoglio, l’Italia resta divisa in due: al nord la lotta partigiana, al sud il Governo alleato e una situazione politica ed economica disastrosa. Il 10 gennaio del 1944 gli alleati consentono la ricostituzione dei partiti in Sicilia e un mese dopo, il 14 febbraio, l’Isola viene riconsegnata all’Amministrazione italiana. Il 30 marzo successivo viene nominato Alto Commissario per la Sicilia il filo indipendentista Francesco Musotto che, in meno di tre mesi, il 18 giugno viene sostituito nella carica da Salvatore Aldisio. Gli intrecci, i collegamenti tra i partiti, la monarchia, il Movimento indipendentista, e la mafia sia con il Comando militare alleato, sia con i responsabili delle Forze armate italiane, sia con il Vaticano, diventano talmente trasversali che venirne a capo appare impossibile: lo dimostrano gli stessi documenti accessibili dell’OSS statunitense, che conserva negli archivi rapporti contradditori. Rapporti che, comunque, fanno intravedere le trame che si annodano e gli accordi che si vanno stringendo fra le parti. Le cosiddette forze democratiche non riescono ad imporsi al Movimento Indipendentista Siciliano e a formulare un chiaro discorso alternativo ad una situazione divenuta quasi cancerogena in un processo apparentemente irreversibile. La Sicilia si ritrova in una condizione di rottura verso tutte le istituzioni, riconosciute e non. Fallito l’esperimento dei “granai del popolo”, e tutte le forme di provvidenze economiche, con conseguente deterioramento della situazione alimentare – fattori che si aggiunsero alla dilagante disoccupazione, al basso livello delle paghe per le categorie a reddito fisso – incominciano ad esplodere le contraddizioni di una terra che dalla “liberazione” si aspettava qualcosa di meglio del caos generalizzato.
Tumulti spontanei non manipolati da forze politiche ma pura espressione dello stato d’animo della popolazione hanno inizio ai primi del 1944 a Canicatti, a Raffadali e a Ganci. Le prime vittime sono del 31 marzo a Partinico, dove, a seguito di una sommossa contro accaparratori di grano, perdono la vita un maresciallo dei carabinieri ed un ragazzo di quattordici anni. Il 19 aprile dimostrazioni a Naso contro il Commissario prefettizio provocano l’arresto dì una cinquantina di comunisti e la chiusura della locale federazione del PCI. Altri due morti a Regalbuto il 27 maggio, in uno scontro a fuoco fra carabinieri e dimostranti Altre vittime l’indomani a Licata fra una folla di mietitori che protestavano contro i collocatori dell’Ufficio provinciale del lavoro. Il 30 luglio, fortunatamente incruenta, sommossa a Palermo di manifestanti, con alla testa gli operai dei Cantieri navali. A quella sommossa incruenta nel capoluogo regionale segue la strage di via Maqueda, avvenuta il 19 ottobre del 1944. Un episodio emblematico del clima arroventato che si viveva. Granai del popolo vuoti, disoccupazione, fame. Uno sciopero dei dipendenti comunali, una manifestazione di impiegati comunali viene trasformata dalla folla inferocita in una dimostrazione di piazza contro il carovita. Il corteo di impiegati da via Maqueda si indirizza verso la prefettura: migliaia di persone disperate e urlanti. La Prefettura chiede l’intervento della Polizia, i poliziotti che stanno avendo la peggio, chiedono l’intervento dei militari. Giungono le forze regolari del 139° Reggimento di fanteria che si parano davanti alla folla. I soldati ricevono ordini precisi: fermare ad ogni costo la fiumana popolare. I soldati aprono il fuoco: è un bagno di sangue. I soldati sparano, ed a terra rimangono 19 morti e 254 feriti, 71 dei quali moriranno in ospedale.
A metà novembre del 1944 viene diffuso clandestinamente, stampato alla macchia, il giornale “Sicilia Indipendente” con l’etichetta di “Organo del MIS”: lo realizza il professore Antonio Canepa (con lo pseudonimo di Mario Turri) antifascista della prima ora e uomo della Resistenza siciliana contro le truppe di occupazione tedesca nell’isola. Il foglio vuole essere una risposta concreta alla politica adottata da Salvatore Aldisio, Alto Commissario per la Sicilia. Aldisio, dopo i luttuosi fatti di Palermo, non solo aveva proibito i funerali pubblici delle vittime, ma aveva istituito nella città lo stato d’assedio, presidiandola con l’Esercito e vietando le pubbliche riunioni e gli assembramenti stradali. Aldisio aveva ordinato anche l’arresto di numerosi separatisti, la perquisizione e chiusura delle sedi del MIS (Movimento Indipendenza Siciliana), e il sequestro di materiale di propaganda definito “pericoloso e antistatale”. Il primo numero di “Sicilia Indipendente” pubblica una lettera “aperta” indirizzata al colonnello Stevens, noto commentatore della Radio Britannica, che così si esprime: “Signor Colonnello! Noi abbiamo per voi una simpatia senza limiti. La vostra parola, assiduamente ascoltata alla radio, ci ha dato fede durante i tristi anni della guerra fascista, ci ha spinti e sorretti nella lotta per la libertà. Ma con la stessa sincerità con cui vi manifestiamo questa nostra simpatia, dobbiamo anche dirvi che noi radioascoltatori siciliani, di fronte ad alcune vostre affermazioni contrarie alla indipendenza della Sicilia, siamo rimasti dolorosamente sorpresi. Ci rifiutiamo di credere che voi possiate farvi paladino dell’oppressione di un popolo che chiede soltanto di riacquistare, nelle norme sancite dalla Carta Atlantica, la propria secolare libertà. Sui motivi che ci muovono potreste meglio informarvi venendo tra di noi e studiando da vicino i risultati nefasti di ottanta anni di unità italiana. Vi accorgereste allora che non si tratta soltanto di una questione economica, ma anche di una questione morale. Si tratta soprattutto della dignità di un popolo! Quando poi al timore che il Movimento separatista possa ostacolare l’apporto bellico dell’Italia agli alleati, non è difficile indovinare da chi simili dicerie vengono messe innanzi. Il governo italiano rivolgendo questa accusa al separatismo siciliano, cerca una giustificazione per la propria incapacità organizzativa e, in pari tempo, spera di farsi aiutare dagli alleati a reprimere le nostre voci e i nostri moti di libertà. Ma le Nazioni Unite non si presteranno al gioco del governo italiano. Perché sanno che lo sforzo bellico della Sicilia è già notevolissimo. E ancora più notevole potrà diventare il giorno in cui gli alleati, anziché cedere alle interessate suggestioni di Roma, sosterranno i diritti del popolo siciliano. E li sosterranno sicuramente se, come voi signor Colonnello ci avete insegnato, la ragione e il senso della guerra che si combatte è proprio questo: garantire il trionfo della libertà e della democrazia sulla terra”.
Il 14 dicembre 1944 la Lega Giovanile Separatista organizza a Catania un manifestazione di protesta al richiamo alle armi. Un corteo di studenti, con cartelloni con la scritta “Non partiremo”, si dirige nella mattinata verso il Distretto militare: qui giunti si fermano urlando. Un militare lancia una bomba a mano: un giovane sarto perde la vita. II corteo viene sciolto violentemente. L’indomani una rappresentanza di studenti si reca in Municipio a conferire con il capo gabinetto del sindaco, dottor Puglisi, per chiedere l’invio di una corona di fiori da parte del Comune, e una scorta di vigili urbani per il funerale della vittima. La richiesta viene respinta e i giovani si fermano, protestando, nella piazza antistante il Palazzo di città. Attorno agli studenti si raccolgono i passanti che prendono a spalleggiare le richieste degli studenti. Ha inizio una fitta sassaiola: il portone del Municipio viene chiuso e 28 vigili urbani si serrano dentro il cortile. Il comandate dei vigili, Musumeci, dietro ordine del sindaco Ardizzone, chiede aiuto alla Polizia che, memore sicuramente degli incidenti di Palermo, non interviene. La folla chiede a gran voce “Giustizia per chi muore”, poi assalta con una trave il portone dell’edificio, abbattendolo. Penetra dentro la fiumana non ostacolata dai vigili urbani che hanno avuto ordine di non intervenire. La folla mette a sacco e a fuoco la sede comunale. I vigili del fuoco, intervenuti quando le fiamme si levano dal terzo piano, non riescono a domare l’incendio perché gli idranti non funzionano. Ma la folla non è paga: distrutto il Municipio si dirige alla locale Associazione Combattenti, da dove asporta e fa a brandelli la bandiera nazionale. Quindi assalta la sede dell’Associazione Giovane Italia, in via Manzoni, poi l’Ufficio di Leva, il Palazzo di Giustizia, e gli Uffici dell’Esattoria e dell’agenzia delle Imposte. Una giornata di fuoco.
(1-Continua)