Gerusalemme, 10 novembre 2015

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Da due settimane non c’era stato nessun attentato a Gerusalemme. La gente passeggiava tranquilla, un po’ infastidita dalla pioggia battente che bagnava le stradine della città vecchia, rendendo scivolose le pietre e costringendo, turisti e locali, a stare molto attenti durate i loro sali e scendi frettolosi. La città vecchia è, infatti, un labirinto di stradine, di scale e rampe che si arrampicano su una collina che ha il suo punto più alto nella chiesa di San Salvatore, dove sorge la custodia di Terra Santa, presidiata dai frati francescani: il cuore del quartiere cristiano. Domenica scorsa aveva miracolosamente cessato di piovere ed io felice come un uccellino appena liberato dalla sua gabbietta, spiccai il volo fuori dalle mura della vecchia Gerusalemme. L’aria era pungente, ma era molto piacevole camminare e nella mia ansia di libertà mi avventurai fuori dalla porta di Jaffa lungo, le mura esterne che avvolgono il quartiere ebraico e comprendono anche alcuni dei monumenti cristiani più importanti: la dormitio, il cenacolo e il cenacolino. Ero talmente felice di sgambettare all’aria fresca che non mi resi neppure conto di essere completamente sola. I pullman lasciano sempre il loro carico di turisti sulla strada che corre proprio nella zona sottostante la porta di Jaffa, e i visitatori, per lo più ignari del luogo in cui vengono scaricati, cominciano ad arrampicarsi verso la porta della città per addentrarsi nel suk e poi raggiungere il santo sepolcro. Quindi nessuno veniva nella mia direzione, ma questo non mi preoccupava e per un buon tratto segui spensierata il sentiero che costeggiava le mura godendo della vista della curatissima vegetazione che abbelliva il percorso. Giunta presso un sentierino rivestito in pietra all’inizio del quale si trova una specie di miliare che annuncia l’ingresso nel quartiere ebraico, svoltai a sinistra e salii le scale, seguendo la direzione che mi conduceva fino alla porta di Sion e da lì al cenacolino. Qui vidi due gruppi di turisti sudamericani che, posti intorno alla loro guida, ascoltavano pazientemente la storia del luogo. Feci un giretto intorno al cenacolino sperando di poter catturare anche un flebile segnale del loro WI-FI, ma dovetti desistere e sconsolata presi la via di casa, decidendo di passare dal quartiere armeno che giace addossato a quello ebraico. Era un po’ di tempo che non percorrevo quel tratto di strada, ossia, non avevo prestato molta attenzione al luogo in cui mi trovavo le volte precedenti, camminando velocemente cercando irrimediabilmente di colmare il mio ritardo cronico al lavoro. Questa volta, dunque, passeggiavo e cercavo di respirare l’aria di libertà a pieni polmoni, annotando nella mente ogni piccolo particolare, ogni novità presente nel quartiere. Ed ecco che mi balzò subito agli occhi un piccolo manifesto che aveva per tema il genocidio degli Armeni. Immagini raccapriccianti, una mappa con disegnate le rotte della deportazione, le croci indicanti i punti di sterminio degli intellettuali armeni, componevano il piccolo foglio formato A3 attaccato alle pareti di alcuni edifici accanto alla chiesa di san Giacomo. Sono rimasta più di un quarto d’ora a guardare la mappa, seguendo col dito le linee rosse che indicavano le rotte di deportazione, leggendo con n soffio di voce le città in cui erano avvenuti gli eccidi; luoghi famosi oggi per motivi turistici o archeologici e nessuno potrebbe immaginare che invece sono stati bagnati dal sangue di centinaia di persone. Quando mi scossi dal mio torpore, comincia a guardarmi intorno con un atteggiamento diverso: l ceramista, il ristoratore, il seminarista con la lunga veste nera non erano più ai miei occhi de comuni commercianti, preti, artisti, ma avevano assunto la loro vera natura, erano diventati dei sopravvissuti, il miracolo della forza di volontà e di sopravvivenza di un popolo. Non si può non notare a questo punto l’accostamento quasi simbolico del quartiere armeno a quello ebraico: due genocidi, due miracoli che testimoniano la forza di sopravvivere di una minoranza che trova la sua ragione d’essere nella sua identità di popolo.

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Tornando a casa, rimuginavo questi pensieri con me stessa e completamente assorta attraversavo le stradine della città vecchia per tornare a casa. Ormai il pensiero del terrorismo era lontano, solo un brutto incubo da ci occorreva scuotersi.

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I giorni che passavano tranquilli avvaloravano, infatti, questa teoria, il terrorismo a gerusalemme era finito, schiacciato dai controlli di polizia o dagli accordi sulla gestione della spianata delle moschee, a noi non israeliani e non musulmani, in fondo importava poco. L’essenziale era che si potesse tornare ad uscire come si faceva prima di questa terribile escalation di aggressioni terroristiche.

Con questa idea nella mente esco stamani dal lavoro per godere appieno della mia pausa pranzo, in cui riesco sempre a inserire una piccola pennichella, da inguaribile meridionale. Mentre ero appisolata e sognavo beatamente di rimanere in quella posizione paradisiaca ancora allungo, vengo infastidita da un abnorme suono di sirene e dal rullio degli elicotteri che svolazzavano a bassa quota sulla nostra testa. Ho pensato che fossero le solite esercitazioni e per questo senza scompormi mi sono tirata le coperte sulla testa per continuare il mio sonnellino gli ultimi 5 minuti che sono i più importanti. Alla fine alla sveglia si mette contro di me e sono costretta ad alzarmi e tornare al lavoro. Vedo tanta gente affollata vicino all’uscita che dalla città vecchia porta verso la città nuova e chiedo che cosa stesse succedendo: due accoltellamenti mi rispondono uno di seguito all’altro. Ma dove? Chiedo. Uno nella zona di Pisgadaat Zeev e l’altro dopo meno di mezz’ora nella zona della porta di Damasco.

La gente è incredula. Ancora! Si sente vociferare. La resurrezione che sembravamo finalmente aver ricevuto in dono è stata di colpo allontanata, rimandata a data da destinarsi. In ufficio non parliamo degli attentati, ma continuiamo a lavorare come se nulla fosse accaduto, cercando di ignorare le sirene, gli elicotteri e i colpi di fucile a salve. In Italia stranamente non si è diffusa la notizia. Mia madre non sa nulla, il mio fidanzato dorme sonni tranquilli e non ha tuonato come al solito dal Brasile il suo perentorio: non uscire. Così tranquilla e sollevata dopo il mio orario di lavoro mi avvio verso il mercato della città nuova. Ho appuntamento con una mia amica ebrea. È da tanto tempo che ci eravamo ripromesse di bere un caffè insieme e non saranno certo gli attentati di oggi a scoraggiarci. Cammino velocemente percorrendo Yafo street perché sono come al solito in ritardo. Vedo che però anche gli altri intorno a me camminano  a passo svelto e arrivata all’altezza della fermata del treno leggero City hall sento una voce che da un altoparlante sta impartendo delle istruzioni ai passeggeri. Non ho tempo di ascoltare e proseguo. Ancora non ero a conoscenza della dinamica degli attentati, non sapevo che era stato colpita una guardia in uno scompartimento del treno leggero. Se l’avessi saputo avrei fatto attenzione alla voce che parlava, avrei sicuramente fatto tesoro delle sue istruzioni. E invece, da cittadina non abituata a vivere sotto attacco terroristico, ho ignorato una regola fondamentale: informarsi per poter prevenire o fronteggiare un attacco.

La mia cavalcata si ferma al primo semaforo rosso, interminabile come al solito. Sono in ritardo e vorrei sapere di quanto, così apro la borsa per vedere l’ora sul display del telefonino. Quello che per me è un gesto quotidiano e innocente sembra agitare la mia vicina che ha come un sussulto e si tira leggermente indietro, mentre infilo la mano nella borsa. Quando, però, si accorge che la mia mano stringe un groviglio di fili al termine dei quali appare un cellulare rosa skoccking si rasserena, ma comincio ad agitarmi io. Vedo le facce della gente intorno a me: solo i ragazzi più giovani ridono o sembrano più spensierati, gli anziani sono vigili, camminano lenti sotto il peso degli anni e fissano con aria inquisitoria la gente che passa loro accanto. Ricordo questa atmosfera, era esattamente la stessa che si respirava i primi giorni degli attentati, momenti difficili in cui anche io ho avuto paura, ma poi mi sono sentita ridicola guardando con quanta forza d’animo affrontavano il pericolo i religiosi. Loro si, che sono dei bersagli mobili: facilmente riconoscibili, naturalmente distratti e sicuramente disarmati. Eppure dimostrano una spavalderia realmente invidiabile, anche se il loro passo è sempre spedito e si guardano intorno di frequente, come a rassicurarsi di continuo che va tutto bene.

Arrivata a destinazione trovo la mia amica un po’ seccata del mio ritardo. In effetti l’avevo fatta attendere quasi un quarto d’ora, ma poi mi rendo conto che il suo nervosismo non è dovuto al mio ritardo, ma alle vicende della mattina. Due accoltellamenti uno alle 12,35 ed uno circa 30 minti dopo, compiuti da giovanissimi, addirittura i due attentatori del treno leggero avevano 12 e 13 anni. Mi lascio scappare un commento perentorio sui due ragazzini perché proprio non capisco come a quell’età invece di andare a scuola, studiare e pensare al proprio futuro, si prende un coltello e si va incontro alla morte. I media israeliani, proprio per cercare di affrontare questo fenomeno dei baby attentatori, (almeno così l’ho interpretata io) hanno creato un filmato-cartoon che utilizzando un sarcasmo raffinatissimo, tipico del popolo ebreo, cerca di dissuadere gli attentatori. Gli attentati, infatti, si erano fermati a Gerusalemme, ma non nel resto d’Israele dove giornalmente si registravano attacchi, tentativi, morti. La mia amica proprio non riesce a rilassarsi e mi chiede come io faccia ad essere così coraggiosa. Perché? le domando, in che senso. Secondo la mia interlocutrice, la vita in città vecchia è pericolosa, perché è una zona ad alto rischio ed io uscendo ed entrando nella cinta muraria mi metto in pericolo. Esprimo immediatamente  il mio dissenso perché non solo il quartiere cristiano è tranquillo, ma è anche ben protetto. Davanti porta nuova stazionano sempre delle guardie di frontiera con le loro auto e all’interno della città la polizia controlla tutto e ha uomini collocati in tantissime postazioni. Un giorno ho trovato un poliziotto seduto sulle scale di casa mia che, insieme ad altri due un po’ più lontani, era di guardia in quella zona della città. Guardava il cellulare in modo fisso e ogni tanto rispondeva a dei messaggi. Ah! Mamma mia ricordo che mi sono detta, beato che protegge lui! Riferendomi alla sua capacità attentiva in quel momento. E invece appena mi avvicinai di qualche passo per salire i gradini ed entrare in casa, mi piantò subito il suo sguardo indagatorio sul viso e quando capì che abitavo là, si rimise a guardare il cellulare. A quel punto mi sembrava gentile fare un po’ di conversazione e gli chiesi se stava bene e tutto era ok. Lui mi piantò in faccia i suoi occhioni sconcertati e mi disse un timido si bene, quasi non fosse abituato a ricevere una domanda del genere. Capii il suo imbarazzo e lo salutai ringraziandolo per il suo servizio. Di tutta risposta mi guardò trasognato e non mi rispose, quasi avesse visto un fantasma.

Di conseguenza gli angeli custodi non ci mancano, forse, però, ci sarebbe, invece, solo bisogno di un po’ di buona volontà per riuscire a vivere insieme senza recriminazioni. La mia amica ha fretta di andare via così va verso il treno leggero, mentre io mi avvio per i viottoli del Suk, ritenendo più importante non morire di fame che di attacco terroristico.

E.P.

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