di Salvo Barbagallo
Sarà perché il terrorismo jihadista non si è fatto (ancora) sentire in Italia, sarà perché la mafia un tempo (c’era una volta?) con i suoi attentati era un incubo e incuteva paura, ma quando venne chiamato dal governo l’esercito in Sicilia per fronteggiare il pericolo di ulteriori e possibili azioni delittuose degli affiliati a Cosa nostra, allora il cittadino per un periodo non breve si ritenne al sicuro. E così fu: la “presenza visibile” dello Stato impedì eventi criminali e mise all’angolo la mafia.
Ricordare per non dimenticare e fare buon uso delle esperienze positive passate. Dal 25 luglio 1992 all’8 luglio 1998 le Forze armate italiane condussero in Sicilia un’operazione di ordine pubblico. La presenza dell’esercito fu resa necessaria in appoggio alle normali forze di polizia dopo la tragica serie di eventi che insanguinarono la Sicilia agli inizi degli anni novanta del secolo scorso, come l’attentato mafioso che provocò la morte del giudice Giovanni Falcone, ucciso insieme con la sua scorta nell’attentato del 23 maggio 1992. Alla strage di Capaci quasi due mesi dopo seguì l’assassinio del giudice Paolo Borsellino e della sua scorta, il 19 luglio 1992 nella strage di via d’Amelio. Eventi tragici ai quali si reagì, il governo reagì: l’invio dell’Esercito venne deciso il 24 luglio 1992 dal consiglio dei ministri presieduto da Giuliano Amato, ministro della Difesa il siciliano Salvo Andò. Il Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, generale Goffredo Canino, concordò con il capo della Polizia prefetto Vincenzo Parisi, di attribuire ai militari impegnati le funzioni di agenti di pubblica sicurezza. Il 25 luglio 1992 i primi reparti furono impiegati a Palermo, con 300 paracadutisti della Brigata Folgore atterrati all’aeroporto di Punta Raisi. Il 14 agosto operavano in Sicilia oltre 8 mila militari: 1.000 paracadutisti della Brigata Folgore e 500 lancieri del 6º Gruppo Squadroni Lancieri di Aosta a Palermo; 1.800 alpini della Brigata Julia a Enna, Ragusa e Siracusa; 1.500 soldati della Brigata Aosta a Catania e Messina; 800 bersaglieri del 23º Battaglione Bersaglieri e altri 1.500 soldati della Brigata Aosta a Trapani, mentre 1.800 soldati della Brigata Friuli ad Agrigento e Caltanissetta.
Ebbene, in quegli anni lo Stato c’era, e c’è da chiedersi perché ora non venga ripresa quell’operazione denominata “Vespri Siciliani” che ridette fiducia nelle Istituzioni. Allora non vennero presidiati soltanto i siti “sensibili”, ma intere città e province, tutto il territorio, insomma. Ciè non accade ma, in compenso, si verificano strane coincidenze.
A distanza di 17 anni ieri (18 novembre) carabinieri del Gruppo di Monreale, con l’aiuto di unità cinofile per la ricerca di armi e di un elicottero, hanno eseguito un’operazione antimafia tra i comuni di Corleone, Chiusa Sclafani e Contessa Entellina, nel palermitano, procedendo a numerosi arresti. Alcuni mafiosi arrestati dai carabinieri pensavano di colpire il ministro dell’Interno Alfano, responsabile dell’inasprimento del 41bis: gli investigatori hanno intercettato, durante l’inchiesta, una telefonata in cui gli indagati progettavano di uccidere il ministro dell’Interno “proprio come accadde nel 1963 a Dallas al Presidente degli Stati Uniti Kennedy” (sic!). La vicenda potrebbe apparire risibile, se non fosse per la riconosciuta alta professionalità dell’Arma dei carabineri. E’ un po’ surreale, infatti, immaginare oggi un mafioso (giovane o anziano?) che fa riferimento a John Fitzgerald Kennedy e alla sua (ancora) misteriosa fine, quando siamo consapevoli che neppure i giovani studenti conoscono quella storia e quel personaggio passati nel dimenticatoio da decenni. E poi lascia stupiti (o perplessi?) che gli intendimenti della mafia odierna (presunti o di millantato credito?) saltino fuori nel momento in cui c’è la ferocia concreta e tragicamente vissuta di un terrorismo jihadista che sta facendo allarmare il mondo intero.
Le cose di Casa nostra sono sempre ben particolari, come applicare la “sicurezza” solo in certi posti e nella maggior parte del Paese affidarsi alla normale routine, accresciuta non a sufficienza per affrontare eventi straordinari come quelli che si stanno attraversando. Minimizzare il pericolo per rassicurare la collettività forse (ma possiamo essere in errore) non è la ricetta giusta.