di Salvo Barbagallo
L’altro ieri (domenica 13 dicembre) a Roma, nella stessa giornata in cui andavano a conclusione i lavori del Forum internazionale “MED 2015 – Mediterranean Dialogues”, altra conferenza internazionale con tematica la Libia, promossa dal ministro degli Esteri Paolo Gentiloni e dal segretario di Stato Usa John Kerry. Un vertice a 48 ore di distanza dal decisivo incontro fra le delegazioni dei due attuali e contrastanti parlamenti libici per firmare l’accordo per un governo di unità nazionale. Il Forum Mediterraneo (promosso dal ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale e l’Ispi, che ha visto riuniti per tre giorni oltre duecento leader del mondo della politica, diplomazia, business, media e cultura) ha avuto scarsa visibilità sui mass media e probabilmente non porterà a nulla di concreto, così come (purtroppo) è avvenuto con quello di Barcellona del novembre 1995. A Barcellona, si ricorderà, venne firmato un Protocollo che istituiva un Partenariato globale e euromediterraneo al fine di trasformare il Mediterraneo in uno spazio comune di pace, di stabilità e di prosperità attraverso il rafforzamento del dialogo politico e sulla sicurezza, un partenariato economico e finanziario e un partenariato sociale, culturale ed umano. Quel Protocollo, alla fine, non è stato mai applicato.
Il nuovo vertice dell’altro ieri ha avuto una materia di approfondimenti più scottante perché, come ha affermato lo stesso ministro Gentiloni “In Libia il Daesh si sta facendo sempre più pericoloso, la diplomazia e la politica questa volta devono dimostrare di essere più rapidi dei terroristi”. Due punti, dunque, all’attenzione, quello dell’avanzata delle milizie jihadiste in Libia – che ha già raggiunto la Sirte, con la stessa presenza ddel Califfo Al Bagdadi, e già occupata Sabrata – e quello dell’incontro delle delegazioni dei due parlamenti libici, fissato secondo quando indicato dall’inviato Onu Martin Kobler, per domani 16 dicembre. Come ha fatto notare sul Corriere della Sera Vincenzo Nigro, Secondo alcuni analisti che hanno partecipato alla Conferenza “Med dialogues” dell’Ispi a Roma, senza una vera intesa politica fra i 2 governi esistenti oggi in Libia, il governo dell’Onu potrebbe trasformarsi in una terzo governo in Libia, capace di sovrapporsi alle altre 2 amministrazioni senza sostituirle e quindi contribuendo a creare altro caos. D’altra parte la pressione dei paesi europei per una svolta in Libia è cresciuta moltissimo: il primo ministro francese Valls e il governo britannico di David Cameron hanno detto apertamente che hanno dato ordine ai loro militari di preparare le azioni militari per colpire al più presto l’Islamic State in Libia…”.
Alla riunione di Roma hanno partecipato l’inviato speciale del segretario generale dell’Onu, Martin Kobler e molti ministri della regione, da Egitto ad Algeria, Ciad Emirati, Marocco, Niger, Qatar Turchia, Tunisia. Il summit ha chiesto il “cessate il fuoco immediato di tutte le parti in causa” e ha espresso con determinazione la necessità di “sconfiggere l’Isis”. John Kerry in conferenza stampa ha dichiarato: “Chi si oppone alla stabilizzazione pagherà (…) E’ stato presentato un piano per riportare il governo della Libia a Tripoli entro 40 giorni (…) Il conflitto è l’instabilità durano da troppo tempo in Libia (…).
In questo contesto appare delicata la posizione “geografica” della Sicilia, già da anni meta d’approdo dei migranti/profughi che fuggono dalle loro terre in guerra, con il rischio di infiltrazioni dei terroristi. Libia-Sicilia poco meno di trenta minuti di volo, 471 chilometri di distanza Ragusa-Tripoli. Già lo scorso anno (il 16 dicembre, su questo giornale) scrivevamo: In Libia si combatte, la guerra civile sta divorando il Paese. in Libia c’è una situazione di caos, ma alla Sicilia (all’Italia, poi…) non sembra giungere alcun eco di quelle battaglie che vedono contrapposti due governi, quello del premier Thinni sostenuto dall’ex Sicilia, e soprattutto dall’Egitto, e quello di Tripoli del premier Omar Al Hassi, sostenuto dalla città di Misurata e dalla milizie islamiste. A un anno di distanza le situazioni sono ulteriormente degenerate, la ferocia del terrorismo jihadista è giunta a Parigi, nel cuore dell’Europa, mietendo vittime innocenti. Ma in Sicilia questa problematica sembra non coinvolgere (o interessare, quantomeno?) chi governa la Regione, chi governa le città: l’indifferenza sembra regnare sovrana…
ARTICOLO DEL 16 DICEMBRE 2014:
Libia-Sicilia 30 minuti di volo…
di Salvo Barbagallo
Libia-Sicilia poco meno di trenta minuti d volo, 471 chilometri di distanza Ragusa-Tripoli.
In Libia si combatte, la guerra civile sta divorando il Paese. in Libia c’è una situazione di caos, ma alla Sicilia (all’Italia, poi…) non sembra giungere alcun eco di quelle battaglie che vedono contrapposti due governi, quello del premier Thinni sostenuto dall’ex Sicilia, e soprattutto dall’Egitto, e quello di Tripoli del premier Omar Al Hassi, sostenuto dalla città di Misurata e dalla milizie islamiste.
Come riferisce il quotidiano “La Repubblica” (gli altri mass media, nella maggior parte dei casi, ignorano la delicata questione) da giorni “il più importante porto-terminale di carico del petrolio in Libia, quello di Es Sider, al confine fra Tripolitania e Cirenaica, è chiuso. Tutt’intorno infuria la battaglia fra i miliziani della Petroleum Protection Guard del capo-milizia Ibrahim Jadran e quelli della coalizione Misurata-Islamisti che da agosto controlla Tripoli e che da settimane è sottoposta agli attacchi aerei del governo che si è rifugiato a Tobruk”.
È una guerra per il controllo del petrolio: nessuna novità. La chiusura del gasdotto chi danneggerebbe? Innanzitutto l’Italia.
Poco più di tre anni addietro (il 20 ottobre del 2011) veniva tolto dalla scena Gheddafi: la fine del “dittatore” avrebbe dovuto aprire una “primavera” libica: così non è stato e quel Paese così vicino è precipitato nel caos. Non è il solo Paese, la Libia, che ha cancellato in breve tempo dal suo vocabolario il termine “primavera”, forse perché in quei luoghi “primavera” ha ancora un altro significato, sicuramente diverso da quello che l’Occidente gli dà, “politicamente” parlando. Gheddafi è un nome già dimenticato, ma negli Anni Settanta fino a metà degli Anni Ottanta la sua figura si identificava con il “salvatore della (sua) patria” e alla sua corte, e al petrolio del suo territorio al quale aspiravano, erano molti i giullari. In Sicilia c’era una linea aerea diretta con Tripoli, si pensava (e alcuni lo fecero) di costituire società miste, a Palermo c’era un Consolato libico che provvedeva a instaurare rapporti, a Catania c’era addirittura una fantomatica Camera di Commercio Siculo-Libica. In quel periodo i rapporti Sicilia-Libia erano talmente intensi che si ipotizzò che Ghedfdafi volesse annettersi l’Isola, aiutando economicamente movimenti separatisti.
Oggi i problemi sono di natura opposta: la vicina Libia non viene guardata come possibile partner in impresa, ma come un possibile pericolo di un invadente fanatismo islamico che può trovare facile terreno in una regione che non vede uno sviluppo o una soluzione alla crisi che l’attanaglia. In fondo, in passato, gli arabi sono stati di casa in Sicilia e c’era una convivenza accettata e accettabile. Questo “rischio”, a quanto pare, nessuno lo avverte: si discute solamente sull’enorme flusso di migranti che raggiungono (molti, defunti) le coste della Sicilia. Tutti non tengono in considerazione la distanza tra Libia e Sicilia, appena a 471 chilometri, meno di mezz’ora di volo…