di Salvo Barbagallo
C’è in atto una sorta di “involontaria” preparazione psicologica alla guerra. Alla guerra totale o circoscritta, poco cambia. Una preparazione attraverso le “volontarie” e continue informazioni (o presunte tali) che i mass media stanno diramando a piene mani. Informazioni che scaturiscono da fatti reali che si ingigantiscono spontaneamente, e che rispecchiano il quadro di una situazione che si aggrava ogni giorno che passa e, alla quale i soggetti principali che dominano la scena del mondo non riescono a trovare (o non sanno, o non vogliono) soluzioni. Se è vero che preoccupa quanto sta accadendo a due passi da casa nostra (in Libia), quanto si verifica in luoghi molto lontani (Corea del nord) allarma quanti, invece, si trovano prossimi in quell’area di minaccia. La precaria stabilità è a rischio mentre concreto resta il timore che a qualcuno possa scivolare il piede.
Negli ultimi giorni sono risuonate in più circostanze le prime quattro parole dell’articolo 11 della Costituzione Italiana: L’Italia ripudia la guerra ma, come spesso accade nelle ambiguità di marca nostrana, non viene ricordata la frase per intero, che testualmente recita L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo. Un articolo che, alla fine, ha consentito e consente all’Italia di partecipare a interventi militari che hanno la finalità di assicurare la pace e la giustizia fra le Nazioni. Per non parlare dell’Afghanistan, della Somalia, dell’Iraq dove militari sotto la bandiera tricolore hanno operato e operano, adesso è il caso e il “momento” della Libia. La Coalizione internazionale (Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Germania in testa) hanno accettato l’affrettata richiesta dell’Italia di essere “guida” della Coalizione, e ora quasi “pretendono” questa guida, con il relativo “contraccambio” in termini umani e materiali. Quale contraccambio? Lo abbiamo appreso da una (affrettata?) intervista che l’ambasciatore degli Stati Uniti d’America a Roma, John R. Phillips, ha rilasciato al quotidiano Il Corriere della Sera: cinquemila uomini sul campo, l’utilizzo delle basi militari in Sicilia e la risoluzione delle controversie giudiziarie per il sistema satellitare Muos di Niscemi.
Di tutto ciò (e altro) ora in Parlamento il Movimento 5 Stelle chiede conto e ragione al premier Matteo Renzi e al ministro della Difesa Roberta Pinotti. Palazzo Chigi – come riportano i mass media – sceglie il silenzio e la grande cautela prima di sottoporre una adeguata relazione nella sede istituzionale deputata al dibattito.
Agli USA l’Italia ha già dato tanto, la richiesta dell’uso delle basi militari in Sicilia sembra quasi una presa in giro dal momento che, proprio in Sicilia, le basi statunitensi, se pur in territorio nazionale, sono completamente “autonome” nella loro attività. Appare altrettanto evidente che tale richiesta probabilmente si prefigge obbiettivi maggiormente utili, uno quali è il diretto coinvolgimento dell’Italia alle operazioni belliche con proprie forze, dal momento che gli USA non hanno alcuna intenzione di portare le proprie truppe in terra Libica. Il riecheggiare di una frase tristemente nota, “Armiamoci e partite”, assume significati sinistri.
Nella complessa vicenda libica anche l’episodio dei quattro connazionali rapiti, due dei quali trucidati e due (fortunatamente) in vita, che presenta lati oscuri e che ha fatto dimenticare la storia del giovane ricercatore Giulio Regeni assassinato dopo essere stato torturato in Egitto.
Per Matteo Renzi questo momento è una contorta forma di “resa dei conti” con gli alleati che contano e con l’opposizione che per lui non conta. L’importante è che in Italia non si pronunci la parola “guerra”, anche se tutti la visualizzano come imminente e inevitabile…