Comfort Women inaugurazione mostra a Raddusa

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di Luigi Asero

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Comfort Women, la prima mostra, a Motta Sant’Anastasia è stato un successo enorme, adesso si replica al Centro Polifunzionale Giovanni Paolo II di Raddusa che ospita dal 16 al 23 aprile la singolare ed importante mostra fotografica. Il tema trattato è abbastanza delicato e decisamente poco conosciuto: le “comfort women”.
L’iniziativa nasce per volontà dell’Associazione Renarossa e di uno dei suoi soci, il fotografo freelance Rosario Vicino. Una storia per anni taciuta che è interamente basata sulla verità storica per tanti anni negata (ed infine ammessa) dal governo giapponese.
L’inaugurazione alla presenza delle autorità locali sarà alle ore 18 presso i locali del Centro Polifunzionale di Raddusa “Giovanni Paolo II in via Margherita.

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L’autore della mostra, il fotografo freelance catanese Rosario Vicino, da sempre attento alle tematiche del rispetto della donna ha raccolto tutto il materiale facendo un lavoro attento ed accurato e puntando l’attenzione dei visitatori non sui corpi di queste sfortunate fanciulle vittime della sempre immensa barbarie umana, bensì attenzionandone le conseguenze psicologiche, i risvolti umani, le tante che scelsero di non vivere più questa non-vita, le tante che sopravvissero ma convivendo per sempre con gli orrori vissuti, stuprate decine di volte al giorno e senza alcuna tutela delle autorità che erano anzi promotrici di questo scempio della vita umana.

Le “comfort women” (Jugun Ianfu) subirono di tutto e da tutti, morirono di stenti, di malattie veneree contratte durante gli stupri continuati, dovettero sopportare la guerra e la “pace” degli uomini che andavano “intrattenuti”.
Persero tutto nella loro non-vita. Alcune sopravvissero ed è proprio grazie alle sopravvissute che qualcosa sappiamo. È grazie a loro che alla fine il governo nipponico ha dovuto ammettere quanto era stato fatto in un’epoca ormai remota (alle menti giovani) e che invece segna un’altra incancellabile punta della barbarie umana. Grazie alle sopravvissute il Primo Ministro del Giappone Tomiichi Murayama dovette infine ammettere, molti anni dopo: “Come Primo Ministro del Giappone, io dunque rinnovo le mie più sincere scuse e il mio più sincero rimorso a tutte le donne che furono sottoposte ad immensurabili e dolorose esperienze e che soffrirono ferite fisiche e psicologiche incurabili nel ruolo di comfort women”.

In pochi significativi passi la loro storia, la loro “vita” non vissuta, amaramente subìta…

comfort-women-brochureDurante la seconda guerra mondiale il governo decise di aiutare il morale delle truppe (cosa che peraltro non fu esclusiva nipponica) usando la più semplice (ed orrenda) delle prassi: il sesso.
Si aprirono quindi una serie di “case” dove le giovani donne (inizialmente volontarie) offrivano il proprio corpo e i propri “servizi” di natura sessuale agli uomini.
Nel tempo però l’orrenda pratica degenerò e alle sempre meno disponibili volontarie vennero affiancate ragazze che vennero appositamente sequestrate alle loro famiglie e ai loro affetti in tutta la regione asiatica.
Il reclutamento delle comfort women ebbe luogo principalmente in Corea, tra il 1939 e il 1943. Molte delle ragazze reclutate furono circuite dagli agenti locali del governo giapponese che offrivano loro un lavoro, cibo e una remunerazione sicura per seguire le truppe giapponesi al fronte.
Dopo esser state radunate con l’inganno o con la violenza, le ragazze arrivavano con mezzi propri o trasportate in carovane alla sede del coordinamento regionale che organizzava la loro distribuzione nei vari campi militari. Giunte a destinazione, le donne e le ragazze si ritrovavano in piccoli spazi, a volte comuni, dove venivano rinchiuse e dove venivano costrette a subire fino a 30-40 violenze giornaliere.
Nel febbraio del 1944 dieci donne olandesi furono prelevate a forza dai campi di prigionia a Giava da ufficiali dell’Esercito Imperiale, per diventare schiave sessuali.
Le truppe australiane trovarono nell’isola di Timoa 46 comfort women giavanesi che erano state obbligate a vestire la fascetta della Croce Rossa per nascondere la vera natura della loro presenza sull’isola.
Malattie, mutilazioni e suicidi erano all’ordine del giorno e alla fine del conflitto le donne che non erano decedute a causa delle sofferenze e delle condizioni di vita nei campi, furono abbandonate nella giungla o giustiziate.

Nel 1965, il governo giapponese pagò 364 milioni di dollari al governò coreano come indennizzo per tutti i crimini di guerra, incluse le ferite procurate alle comfort women. Nel 1990, Jan Ruff-O’Herne testimoniò ad un comitato della Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti. Nel 1994, il governo giapponese creò il Fondo Donne Asiatiche per distribuire compensazioni supplementari a Corea del Sud, Filippine, Taiwan, Paesi Bassi e Indonesia, Il fondo fu chiuso il 31 marzo 2007. Infine, il 28 aprile 1998 i giudici giapponesi decretarono che il Governo nipponico dovesse indennizzare le donne con 2.300 dollari ciascuna.

Della violenza che qui non vogliamo nemmeno considerare “uomo contro donna” ma più marcatamente “uomo contro essere umano, contro essere vivente”, barbarie contro umanità. Per questo Rosario Vicino ha raccolto anche una serie di testimonianze di sopravvissute, testimonianze che negli anni sono state portate all’attenzione del governo giapponese. Ne riportiamo qui alcune, perché si possa comprendere cosa sia stato. Quale inferno quelle povere piccole ragazze abbiano dovuto subire.

Comfort-Women-002“Molte storie sono state raccontate su orrori, brutalità, sofferenze e inedia delle donne olandesi nei campi di prigionia giapponese. Ma una storia non fu mai raccontata, la storia più vergognosa della peggiore violazione dei diritti umani commessa dai giapponesi durante la seconda guerra mondiale: la storia delle Comfort women, le Jugun Ianfu.
(Sopravvissuta Jan Ruff-O’Herne)

“Nei cosiddetti centri del comfort, sono stata sistematicamente picchiata e violentata giorno e notte. Anche i dottori giapponesi mi stupravano ogni volta che visitavano i bordelli per visitarci a causa delle malattie veneree”.
(Sopravvissuta Jan Ruff-O’Herne)

“La vita per noi non aveva più senso. E se qualcuna provava a ribellarsi, era la fine. Una sera la più giovane tra noi, che aveva forse 13 anni, cerco di sottrarsi alle attenzioni di un ufficiale giapponese particolarmente violento. Fummo tutte radunate nel cortile; la ragazza che aveva osato opporsi allo stupro venne trascinata per i capelli fin nel centro. Un soldato le staccò la testa di netto con la sciabola. E il suo corpo fu ridotto in tanti piccoli pezzi”.
(Sopravvissuta Hwang So Gyun, rapita a 17 anni)

“Qualche volta venivano dei medici militari a visitarci, ci isolavano in infermeria per curarci. Ma spesso le donne affette da malattie sparivano nel nulla. So di donne sepolte vive per questo”.
(Sopravvissuta Yi Sunok)

Fa particolarmente male, seppur sia immaginabile, la testimonianza di un soldato giapponese, fa comprendere più di altro quanto non ci fosse alcuna percezione in quegli “uomini” del dolore inferto, delle sofferenze arrecate:

“…le donne piangevano ma non c’importava se le donne vivevano o morivano. Noi eravamo i soldati dell’imperatore. Sia nei bordelli militari che nei villaggi, violentavamo senza riluttanza”.
(Soldato giapponese Yasuji Kaneko)

Le “comfort women” non torneranno in vita, non cancelleranno mai il loro dolore, ma grazie a questa bellissima mostra avranno almeno una nuova dignità. Non le conoscevamo, come non abbiamo conosciuto nessuna vittima delle passate guerre. Ma se esiste una Memoria, se è giusto comprendere gli errori per poterli evitare in futuro… allora sì, questa mostra va vista, vissuta, meditata. Una briciola di Memoria potremo ridargliela affinché, se è proprio non potranno mai più sorridere, possano almeno aver fiducia che una speranza c’è.
Perché le guerre non cessano mai, non se ne intravede alcuna volontà umana. Ma abbiamo tutti il dovere di far Memoria e magari, così, limitarne gli effetti.

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