di Salvo Barbagallo
È da mesi che si attendeva una qualche stabilizzazione del Governo libico riconosciuto dall’Onu, e da mesi si attendeva una conseguenziale richiesta di “aiuto” da parte del premier Fayez al-Sarraj per fronteggiare i mille e mille problemi che ha sul tappeto, problemi tutti o quasi irrisolti. L’invito di Sarraj all’Italia, all’Onu, alla Coalizione europea a scendere in campo per mantenere le promesse fatte, ora è pressante: le risorse petrolifere della Libia sono in pericolo, possono cadere in mano dei jihadisti dell’Isis/Daesh.
Non è una “richiesta” inaspettata, se è vero (come è vero, ma circostanza dimenticata) che il premier Matteo Renzi (a suo tempo) chiese la leadership della coalizione che sarebbe dovuta intervenire in Libia: la “richiesta” è pervenuta ed ora c’è anche chi si meraviglia per un imminente invio di contingenti militari italiani in quei luoghi squassati dalle lotte intestine da quando venne eliminato dalla scena il dittatore Gheddafi.
Nell’ultimo summit del G5 tenuto ad Hannover l’aiuto a Sarraj ha avuto da Obama, dalla Merkel, da Cameron, Hollande e Renzi il via libera ufficiale, e si attende soltanto che venga formalizzato dalle Nazioni Unite, così come appare certo che la guida delle operazioni venga affidata all’Italia. Ciò significa, come ha sostenuto Marco Galluzzo su Il Corriere della Sera, che il “contingente da inviare in terra africana per l’Italia deve essere il primo in termini numerici, e che dunque la presenza di altri alleati di prima fascia, come Stati Uniti, Francia e Inghilterra, dovrebbe attestarsi su una quota più bassa: «L’apporto italiano alla missione potrebbe essere superiore al 50% del totale dei militari dispiegati, ma tutto potrebbe svolgersi in due fasi, prima un contingente più piccolo per Tripoli, poi la missione completa per il resto del Paese» (…) Secondo gli ultimi piani operativi messi a punto dal nostro governo un contingente militare da impiegare in Libia, con funzioni di protezione di alcuni siti sensibili (compresi i pozzi petroliferi) e con funzioni di addestramento dell’esercito locale, dovrebbe avere una dimensione numerica di alcune centinaia di uomini, fra le 600 e le 900 unità (…) le nostre forze dovrebbero essere scelte fra Arma dei Carabinieri ed Esercito e avrebbero anche il compito di garantire la sicurezza della missione Onu a Tripoli (…)”. Insomma, militari italiani “tuttofare”.
E, a dire come stanno le cose, questo non è il primo contingente che varcherà il Mediterraneo. Come ha scritto Davide Bartoccini su Difesa Online una settimana addietro (19 aprile) “L’Italia ha più di 1000 uomini in Iraq. A riportarlo è un documento del CRS (Congressional Research Service), think tank che opera nel ramo legislativo e collabora principalmente con il Congresso degli Stati Uniti”.
Oltre alle 450 unità che il nostro Paese ha schierato a difesa della diga di Mosul, altre 300 unità sono impegnante in compiti di “Training and Advising Mission Contributions” nelle basi di addestramento di Baghdad e Erbil, e 260 unità sono addette alle operazioni di volo di 4 cacciabombardieri Panavia Tornado IDS (Interdiction and Strike), 1 aerocisterna Boeing KC-767A, e 2 UAV MQ-1 Predator (aeromobile a pilotaggio remoto). Queste cifre vengono segnate come ‘approssimative’ nel documento che riporta per filo e per segno il completo dispiegamento di forze della ‘Coalizione Internazionale’ che da due anni prende parte alla ‘campagna globale’ con l’obiettivo di contrastare distruggere il sedicente Stato Islamico (noto sotto gli acronimi di IS, ISIS, ISIL e in arabo dispregiativo Da’esh). Esso tiene conto solo ed esclusivamente delle informazioni ‘non classificate’ come segrete. A somme fatte, delle 66 nazioni che hanno preso parte all’operazione congiunta, l’Italia compare come quarto contingente per numero di unità dopo Stati Uniti, Francia ed Australia.
La richiesta di aiuto da parte del governo libico di Fayez al-Sarraj –c’è da dire– che è la logica conseguenza dell’incontro che ha avuto con il ministro degli Esteri italiano l’11 aprile scorso. Paolo Gentiloni a Sarraj dichiarò apertamente: “Siamo pronti a venire incontro alle richieste delle autorità libiche nel campo della lotta allo Stato islamico. Questo processo non viene deciso a Roma o a Londra, ma a Tripoli ed è il governo libico che dovrà gestirlo. L’Europa è impegnata a sostenere con forza il consiglio presidenziale (…)”.
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