di Salvo Barbagallo
Non occorreva avere la sfera di cristallo per comprendere che la posizione dell’Italia sarebbe stata “variabile” sulle controverse e complesse vicende della Libia: da troppo tempo si è parlato di “imminenti” interventi della cosiddetta Coalizione internazionale (con leadership “italiana”), ma nulla si è verificato di concreto. Ora, come scrive Fiorenza Sarzanini su Il Corriere della Sera, In attesa che la situazione si stabilizzi, l’Italia non prevede l’invio di soldati. La conferma è arrivata in queste ore, alla vigilia del vertice di Vienna che dovrà studiare un percorso di sostegno al governo guidato da Fayez Serraj. Troppo alti sono i rischi, troppo forte il pericolo che i reparti stranieri diventino bersagli di attacchi. Il presidente del Consiglio Matteo Renzi decide dunque di tenere la linea che aveva già anticipato nelle scorse settimane spiegando che «di fronte alle pressioni per andare in Libia abbiamo scelto una strada diversa».
In pratica, ribadita la posizione espressa in Senato l’8 marzo scorso dal ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, allorché sostenne che Confondere legittima difesa con stabilità della Libia non aiuta. Anzi, può provocare spirali pericolose. A chi agita la minaccia di Daesh, che è una minaccia reale e dalla quale dobbiamo difenderci, per invocare interventi militari rispondiamo che gli interventi militari non sono la soluzione. Talvolta possono addirittura aggravare il problema. A chi snocciola cifre di soldati italiani pronti a partire, ricordo che la Libia ha un territorio sei volte l’Italia e ha 200 mila uomini armati tra milizie ed eserciti di varia bandiera: non è un teatro facile per esibizioni muscolari. Il governo non è sensibile al rullar di tamburi e non si farà influenzare da radiose giornate interventiste.
Niente di nuovo dunque, nelle decisioni attuali, anche se il tutto ha contraddetto (nei fatti) la gran voglia di partecipazione espressa in precedenza dal premier Matteo Renzi in merito a possibili interventi militari, tanto (basta ricordare) da rivendicare per l’Italia la “leadership” della Coalizione. Bisognerà vedere cosa scaturirà dal vertice delle delegazioni guidate dal segretario di Stato Usa John Kerry e dal ministro degli Esteri Paolo Gentiloni che da ieri si tiene a Vienna. E, comunque, evidente che sta prevalendo la prudenza, chiamata e definita “diplomazia”, che ha come obbiettivo finale la stabilità di quel Paese, ma che tiene nel debito conto che la presenza di forze armate provenienti da Europa e Stati Uniti potrebbero essere considerate come forze di invasione, e di conseguenza esposte a ritorsioni provenienti da tutte le varie parti in conflittualità nel territorio.
L’incertezza della situazione in Libia e i contrasti sul caso Regeni con l’Egitto, intanto, hanno intensificato il flusso dei migranti verso le coste siciliane, grazie anche alle condizioni metereologiche favorevoli. E ciò nonostante che la Marina militare italiana da oltre un anno pattugli con quattro mezzi sottomarini “U212” le coste libiche per intercettare le comunicazioni e localizzare scafisti e jihadisti. Francesco Grignetti sul quotidiano La Stampa illustra la missione di questi mezzi subacquei: È un’operazione coperta dal più stretto riserbo, i cui dettagli non possono essere rivelati anche quando consente di acquisire informazioni di grande utilità per la sicurezza nazionale. I sommergibili sono parte integrante della missione Mare Sicuro, affidata dal governo alla Marina, che da tredici mesi vede 900 marinai pattugliare il Mediterraneo centrale, al largo delle coste del Nord Africa e in particolare della Libia (…) importante il loro apporto per seguire alcune navi-madre cariche di migranti, bloccate in alto mare prima che facessero scendere il carico umano sulle carrette che trainavano e che poi avrebbero lasciato andare alla deriva verso le nostre coste (…).
Nonostante il notevole apporto dei mezzi navali militari italiani, il flusso dei migranti/profughi verso la Sicilia è continuato e continua e appare inarrestabile.