Con l’inizio del nuovo secolo, all’orizzonte del nostro futuro si profila una tendenza inquietante, maturata nell’ambito delle oligarchie neoliberiste dell’Occidente: il frequente ricorso alla guerra, anche locale, come risposta ai problemi insorti con la crisi globale.
Tale tendenza è insita nella natura violenta, nella stessa dinamica del capitalismo internazionale. Tuttavia, oggi, appare anche come una reazione metodica alle difficoltà crescenti d’imporre il suo modello politico-culturale e consumistico.
Più che un fenomeno ciclico, essa parrebbe denunciare una difficoltà, perfino un declino, non tanto del sistema capitalistico in se stesso quanto dell’egemonia occidentale sul terreno dell’economia e della cultura.
Siamo a un cambio d’epoca? Si vedrà, nel tempo.
Intanto, appare necessaria un’analisi più puntuale, più precisa dei sanguinosi conflitti aperti in varie parti del pianeta; vere e proprie guerre locali che provocano morte e distruzioni, specie laddove più si concentrano le principali riserve minerarie, di energie fossili (petrolio e gas), di acqua e di beni alimentari. Con questo libro cercheremo di analizzare, in particolare, la situazione di due aree fondamentali del Pianeta, ricche di materie prime e di contrasti sociali, dove tali processi sono in corso d’opera: l’America Latina e la regione Mena (acronimo di “Middle East North Africa” comprendente il Medio Oriente e il Mediterraneo) nelle loro relazioni con le nuove superpotenze dell’economia e della finanza.
C’è chi sostiene che tale conflittualità sia propedeutica al “nuovo ordine internazionale” e pertanto necessaria per garantire la transizione dal vecchio ordine al nuovo.
Eppure, dal crollo dell’Urss e del sistema dei Paesi a economia socialista (Comecon) è passato un quarto di secolo e la “transizione” può dirsi compiuta, almeno sul terreno politico ed economico. Tuttavia, il “nuovo ordine” non è arrivato o, peggio, si presenta come un nuovo, pericoloso disordine internazionale.
Ideologicamente, il neo-liberismo ha vinto ed è dilagato anche nei territori ex socialisti. A cominciare dalla Cina che si ostina a proclamarsi socialista seppure la sua economia sia perfettamente inserita nel sistema globale di produzione capitalista.
Sul campo non restano più forze antagoniste organizzate, potenze rivali capaci di contrastare il disegno del vincitore.
A seguito di una guerra così lunga e snervante (anche se “fredda”), finita senza spargimento di sangue e con la resa incondizionata del “campo socialista”, (per la prima volta nella storia un “impero” si arrende al nemico senza colpo ferire!), era lecito attendersi che “scoppiasse” la pace, che seguisse un periodo di grande fervore costruttivo, di crescita compatibile con l’integrità degli eco-sistemi e ri – equilibratrice degli storici divari fra Nord e Sud, di benessere condiviso, ecc.
Invece, sta accadendo, esattamente, il contrario. Dopo la “vittoria” del campo neoliberista, probabilmente truccata[1], sono scoppiate le guerre regionali, religiose, tribali che insieme fanno una guerra più grande, micidiale, una “ guerra infinita” che per Papa Francesco è la “terza guerra mondiale”, non dichiarata.
Venti di guerra soffiano in ogni direzione e alimentano conflitti che sembrano divenuti insanabili, specie in alcune regioni del mondo meno sviluppato (Medio Oriente, Africa, ecc), disegnano scenari terrificanti che generano e alimentano paure e smarrimenti nei popoli.
Secondo “Armed Conflict Database – 2015” dell’IISS (International Institute for Strategic Studies), nel 2014, sono stati 42 conflitti armati fra i più sanguinosi e distruttivi che hanno provocato 180.000 vittime (in gran parte civili) e 12.181.000 di rifugiati in diverse regioni del mondo.
Da notare che bel 8 di tali conflitti si svolgono nella regione Mena (Libia, Egitto, Israele – Palestina/Gaza, Iraq, Siria, Libano, Yemen), mentre altri 14 in Paesi asiatici e africani di prevalente e o importante tradizione islamica, alcuni detentori di rilevanti risorse petrolifere e di gas (Nigeria, Nagorno- Karabach, Cecenia, ecc). Visto l’alto numero dei conflitti (il 52%) in atto in questa categoria di Paesi), si potrebbe pensare a una sorta di “guerra all’Islam”. La religione c’entra poco o nulla: la guerra è per l’accaparramento degli idrocarburi che, in buona misura, si trovano nel sottosuolo dei territori dell’Islam.
Nonostante ciò, la globalizzazione neoliberista procede decisa e spietata, senza tener conto delle perdite in vite umane, delle gravissime conseguenze sociali e ambientali, degli squilibri politici e territoriali prodotti.
Impropriamente, la chiamano “crisi”, in realtà si tratta di una colossale sistemazione degli assetti produttivi e di poteri che mira al dominio globale,
La “crisi”, infatti, evolve provocando emarginazioni sociali e povertà e nuove concentrazioni di ricchezza, intolleranze razzistiche, politiche di rapina supportate da vili commerci di uomini e di armi, omologazioni culturali e pensiero unico, egoismi e militarismi, ecc.
Così procedendo, il XXI° rischia di caratterizzarsi come il secolo della disuguaglianza e del terrore. Se il XX° fu detto “il secolo breve” (che breve non fu) il XXI° potrebbe passare come il secolo della guerra endemica, infinita, dell’esplosione degli odi razziali e di nuove povertà.
Questa è, oggi, l’atmosfera che sovrasta il mondo e deprime lo spirito pubblico, soprattutto quello europeo, occidentale. Con l’aggravante che non s’intravvede una via d’uscita.
Non è questa la sede per aprire una riflessione su tali aspetti. Tuttavia, qualche cenno va fatto.
I capi delle grandi potenze occidentali tacciono perché non hanno risposte convincenti e pensano di cavarsela, come sempre, a buon mercato, cospargendo l’umanità di vecchi e nuovi “terrori” per meglio imporre il loro dominio e militarizzare il sistema delle relazioni internazionali.
Come se questo decadente Occidente, dominato da una sorta di “governo profondo”, uscito dai consigli di amministrazione di banche e di anonime società d’affari, non riuscisse più a esercitare il suo ruolo storico, la sua attrattiva culturale e produttiva, non fosse più capace di elaborare soluzioni alla crisi globale diverse dall’ opzione militare.
Ritorna la domanda: siamo all’ineluttabilità della guerra globale?
Speriamo di no, anche se in giro si avvertono strani sentori.
A distanza di un secolo dalla prima guerra mondiale (1914-18) e a settanta anni dalla seconda, anche in Europa si colgono una sorta di stanchezza, un senso di pericolosa insofferenza verso la lunga pace e una tendenza, presente anche in certa pubblicistica, che non esclude la guerra come soluzione dei problemi di relazione insorti con altri paesi e regioni.
Forse, non si arriverà alla guerra globale per timore della conflagrazione nucleare ossia della “mutua distruzione assicurata”, ma sono ammissibili, fattibili le guerre a livello locale, regionale. E, difatti, si stanno svolgendo in varie parti del mondo accompagnate dalla fanfara della propaganda psicologica e mediatica di tipo bellicista che va dall’esaltazione del professionismo militare ai lucrosi affari delle agenzie di contractors ossia le nuove compagnie di ventura, dai giochi di guerra alle play- station, alle fiere internazionali degli armamenti, ecc.
Tutto ciò contribuisce a rendere più difficile la gestione politica e diplomatica della “crisi” che sempre più si manifesta anche come crisi del pensiero occidentale. Poiché non c’è dubbio che quando per risolvere un conflitto politico o d’altro tipo si ricorre alla guerra vuol dire che si sta esaurendo la capacità di mediazione e di ricomposizione delle controversie ossia l’egemonia politica e morale.
Crisi culturale, dunque, derivata dai processi di omologazione, dall’infiacchimento della democrazia partecipativa e della laicità degli Stati, dalla scomparsa dei grandi partiti di massa e dall’umiliazione della politica oramai asservita ai disegni della finanza e delle consorterie economiche internazionali, dal dilagare della corruzione e dei poteri criminali.
Soprattutto, pesa la crisi del modello dei consumi (esorbitanti) e della struttura economica dell’Occidente, che si caratterizza per alcune contraddizioni insanabili: non riuscendo più a produrre le risorse (eccessive) che consuma, continua a importare, e a sprecare, enormi risorse energetiche, inquinando il Pianeta; e, per procurarsele, tormenta l’umanità più povera con guerre micidiali.
Come detto, non si tratta di una vera crisi, ma di una maschera che nasconde un disegno politico ben preciso e mirato a cambiare i rapporti di forza e di produzione a favore delle oligarchie finanziarie.
Le crisi, anche cicliche, ci sono sempre state e, bene o male, sono state affrontate e superate.
Questa volta, però, non s’intravede una soluzione a breve termine e in armonia con gli equilibri esistenti.
Ai piani alti del potere oligarchico l’arroganza si alterna al nervosismo. Si teme che, a conclusione di questo processo di globalizzazione, probabilmente, l’Occidente non sarà più il principale protagonista della storia.
Siamo in presenza di aspetti controversi, complessi di una strategia unica sulla quale andrebbe approfondita la riflessione e contro la quale suscitare una lotta a livello mondiale, coinvolgendovi, nelle forme possibili, le grandi massi popolari che sono le vittime passive di tali processi.
Soprattutto, appare necessario ricominciare a lottare per una vera giustizia sociale, riprendere, su basi nuove e planetarie, la sacrosanta lotta di classe. Uscendo dall’equivoco, alimentato ad arte, secondo cui la lotta fra le classi è finita con il “crollo del muro di Berlino”, superata dalla storia, dal mercato.
In realtà, la lotta fra le classi non è mai cessata. Oggi, in questo mondo unipolare, questa lotta è nel pieno del suo drammatico svolgimento.
La differenza fra il passato e il presente consiste nel fatto che mentre prima si combatteva, ad armi quasi pari, fra un capitalismo non parassitario e la classe operaia e le sue organizzazioni politiche e sindacali, oggi la lotta ha un protagonista unico ovvero le oligarchie finanziarie e i “loro” governi che infieriscono contro gli operai e i tecnici, i lavoratori dipendenti, i pensionati, i giovani inoccupati lasciati soli e indifesi.
Storicamente, c’è stato un conflitto tra capitale e lavoro. Oggi, di fatto, sono rimaste in campo soltanto le forze del capitale (nelle sue forme inedite e complesse) che continuano ad accanirsi contro i lavoratori mentre i sedicenti rappresentanti politici e sindacali del mondo del lavoro hanno, praticamente, smesso di lottare contro il capitale oppressore e vindice.
E, così, vediamo questo neocapitalismo finanziario speculativo, detentore di tutte le principali leve del potere economico, politico e mediatico, massacrare la classe lavoratrice, i ceti medi in ogni regione del pianeta, sia nei paesi poveri sia in quelli “ricchi”.
La sfrontatezza di tali forze è giunta al punto di spingersi- come ha fatto recentemente la Jp Morgan, società Usa leader nei servizi finanziari globali- a proporre per i Paesi del sud Europa una cura davvero ripugnante oltre che iper – classista: sbarazzarsi delle Costituzioni antifasciste del dopoguerra perché troppo sbilanciate a favore dei diritti dei lavoratori.
“I sistemi politici dei paesi del sud, e in particolare le loro costituzioni, adottate in seguito alla caduta del fascismo, presentano una serie di caratteristiche che appaiono inadatte a favorire la maggiore integrazione dell’area europea…Poiché mostrano una forte influenza delle idee socialiste, e in ciò riflettono la grande forza politica raggiunta dai partiti di sinistra…e presentano tipicamente le seguenti caratteristiche: esecutivi deboli nei confronti dei parlamenti; governi centrali deboli nei confronti delle regioni; tutele costituzionali dei diritti dei lavoratori; tecniche di costruzione del consenso fondate sul clientelismo; e la licenza di protestare se vengono proposte sgradite modifiche dello status quo…” (Spataro, 2012).
Tutto ciò, in nome dell’occidentalismo, della globalizzazione neoliberista.
Senza mai chiedersi se tale globalizzazione, imposta a tappe forzate e all’insegna dei “valori”del massimo profitto, sia la risposta giusta o stia conducendo l’umanità verso il precipizio.
In realtà, il liberismo si sta dimostrando incapace di governare le economie e gli Stati
Alla sua prima uscita in pubblico, questo neo capitalismo, liberista solo a parole giacché i conti dei suoi disastri li continua a scaricare sui bilanci degli Stati e dei cittadini (vedi crisi delle borse in Usa, crisi finanziaria greca, ecc.), non è stato all’altezza dei compiti derivati dai processi da esso stesso generati.
Questa è la verità o se si preferisce la sorprendente novità: il neoliberismo è un disastro in campo politico e anche nei campi di sua pertinenza della finanza e dell’economia.
Le banche, le borse valori, le società di rating, i manager e i consulenti prezzolati, le teste d’uovo avevano promesso il paradiso in terra, un “nuovo ordine internazionale” più giusto e più equo. Invece, ci ritroviamo con un mondo in disordine e segnato da nuove ingiustizie e disuguaglianze, da mortali pericoli per l’ambiente, per la vita sul pianeta.
Conseguenze insite nel sistema che si producono anche automaticamente come nota Thomas Piketty: “Quando il tasso di rendimento del capitale supera regolarmente il tasso di crescita del prodotto e del reddito- come accadde fino al XIX secolo e come rischia di accadere di nuovo nel XXI- il capitalismo produce automaticamente diseguaglianze insostenibili, arbitrarie, che rimettono in questione dalle fondamenta i valori meritocratici sui quali si reggono le nostre società democratiche” (Piketty, 2014).
Tali processi, inoltre stanno riducendo gli spazi di democrazia e dei diritti dei singoli e dei popoli.
Incapaci di governare il caos e decisi a fuorviare lo spirito pubblico, i “liberisti” cercano a destra gruppi e partiti disponibili ad accendere la miscela esplosiva del nazionalismo deteriore, del neo- nazismo perfino.
Nulla di nuovo sotto il sole. E’ questo un gioco vecchio, ma sempre pericoloso per la libertà e la democrazia oggi più svuotata dei suoi valori fondanti, debilitata nei suoi effetti politici. Come se il sistema democratico, invenzione e vanto della borghesia illuminata, stesse troppo stretto agli attuali, anonimi gestori del potere mondiale. Si profila una sorta di “democrazia illiberale”?
E così, vediamo in varie regioni del mondo riaccendersi nazionalismi, anacronistiche pretese territoriali, intrighi secessionisti, frustrazioni razziste, xenofobe, integralismi religiosi, intolleranze politiche, ecc.
Insomma, il neo-liberismo, non potendo completamente addomesticare i popoli e gli Stati ai propri voleri, tenta di frantumarli, di schierarli l’uno contro l’altro. Chissà se, alla fine, non ci esca una bella guerra patriottica e/o di religione? Per la gioia dei produttori di armi e dei mercanti di morte!
Tendenze e interrogativi drammatici che in Occidente non sembrano sfiorare le “titaniche certezze” della gran parte dei ceti intellettuali, degli economisti e dei partiti sedicenti di “sinistra” e/o di centro- sinistra, in larga misura, asserviti al potere dominante.
Tuttavia, la rinuncia, l’abiura di alcuni non significa che siamo al tracollo della sinistra, soprattutto delle sue idee di giustizia sociale. In tanti paesi, soprattutto dell’America latina, forze importanti progressiste e di sinistra stanno combattendo, anche con successo e da posizioni di governo, una dura lotta di libertà e d’indipendenza economica nazionale e regionale. Lottano anche per i popoli, per i lavoratori d’Occidente che sembrano narcotizzati dal falso progressismo o rassegnati alla moderna subalternità.
Tuttavia, qualcosa si muove a sinistra anche in Europa, specie nei paesi più colpiti dalla mannaia neoliberista quali Grecia e Spagna. Anche nel campo dei moderati qualcuno cerca di abbozzare una risposta, un’analisi controcorrente. Ecco- per esempio- cosa scrive Alì Laidi, un giovane studioso maghrebino di tendenze moderate.
“L’ideologia del mundialismo pretende che la salvezza dell’umanità si trova nel libero mercato e nella concorrenza libera e perfetta… Intendiamoci bene, non si tratta di rifiutare la mondializzazione né di rigettare i suoi risultati positivi, ma di mostrare che la mondializzazione occidentale è nociva quando si propone come ultimo universalismo…”
“E’ in atto una resistenza alla standardizzazione dell’uso del mondo. Ciò che temono i popoli non è la mondializzazione, ma l’assenza del loro punto di vista sul nostro destino comune…Questa mancanza di rappresentanza rende furiosi i più radicali e li spinge nella violenza.”
D’altronde- continua Laidi – “L’Occidente sa che la generalizzazione del suo modello è una chimera. L’Occidente ha capito che la Terra non sopporterà un’umanità vivente con gli attuali standard occidentali. Un mondo totalmente occidentalizzato è un mondo esausto, perduto, morto a breve termine. La vittoria dell’occidentalizzazione del mondo significherà dunque la sua disfatta…”.(Laidí, 2011)
Infine, ci sia consentita una nota a margine per chiarire che la nostra critica, talvolta severa, verso l’ideologia e le pratiche del neo-liberismo non è, non vuole essere “antiamericanismo” di maniera ossia un’avversione preconcetta nei confronti delle politiche delle amministrazioni Usa, ma un’analisi ragionata e motivata, per quanto opinabile, di una nuova forma di dominio egemonico, unilaterale che mette a rischio la convivenza pacifica e il progresso sociale e culturale dell’umanità.
E’ necessario saper distinguere, separare gli interessi delle oligarchie finanziarie e militari da quelli della maggioranza del popolo statunitense, la prima vittima delle loro strategie, che bisognerebbe aiutare a liberarsi dell’ipoteca consumistica di tipo neo-imperiale che l’opprime.
Prima o poi la crisi del gigante Usa, che continua a vivere molto al di sopra delle risorse proprie, scoppierà e si dovranno profondamente modificare politiche e comportamenti in contrasto con gli interessi generali nazionali e globali, con la sopravvivenza stessa del Pianeta.
Su tale prospettiva bisogna aprire una riflessione generale e feconda, cogliendo taluni segnali interessanti provenienti dall’interno della società statunitense, anche per respingere le comode accuse di chi si rifugia nell’americanismo furbastro per bollare come “antiamericanismo” le analisi preoccupate sulla controversa realtà degli Usa.
Generalmente, chi si spinge in questi “territori” rischia di essere tacciato perfino di razzismo da chi finge di non vedere le odiose pratiche razziste in casa propria.
Ovviamente, tale, eventuale accusa non ci tange; la nostra formazione marxista, la nostra educazione umanitaria ci pongono al di sopra di tali meschinità.
La nostra critica sottende l’auspicio che il popolo statunitense, che ha dato un contributo notevole alla crescita democratica e allo sviluppo tecnologico mondiali, possa tornare ad essere un soggetto primario del cambiamento, in senso progressista e pacifista, dell’umanità.
[1] Prendono sempre più corpo le voci, da anni circolanti, di un crollo “concordato” dell’Urss e dei regimi dei Paesi socialisti dell’Est europeo. Da una trasmissione della TV ungherese “Hatoscsatorna” dell’agosto 2014, si è appreso che durante il summit di Malta (del 7 dicembre 1987) fra Ronald Reagan, presidente degli Usa e Mihail Gorbaciov, presidente dell’Urss e segretario del Pcus, oltre agli accordi per il ritiro e la distruzione dei missili nucleari intermedi delle due parti schierati sul teatro europeo (SS20 sovietici e Pershing e Cruise Usa/Nato), sia stato concordato, segretamente e dietro una forte dazione in denaro da parte Usa, il ritiro delle truppe sovietiche di stanza nella RDT (Germania Est) e in altri Paesi del Patto di Varsavia. Insomma, un “via libera” allo smantellamento dei regimi statalisti dell’Est europeo che, infatti, due anni dopo, nel 1989, caddero uno dopo l’altro senza colpo ferire. Per altro, gli Usa non mantennero la promessa degli aiuti finanziari (si parla di circa 40 miliardi di dollari), la qualcosa fece esplodere la crisi politica e istituzionale al Cremino e provocò l’umiliante cacciata di Gorbaciov.
INDICE:
INTRODUCCIÓN
ESCENARIOS DE LAS CRISIS EN EL MUNDO
I PARTE
I Capìtulo
ECONOMÍA DEL TERROR Y CRISIS DE LA ECONOMÍA MUNDIAL CAPITALISTA
LA CRISIS CAPITALISTA
II Capìtulo
HACIA UNA RECONFIGURACIÓN MULTIPOLAR
III Capìtulo
LAS GUERRAS POR LAS MATERIAS PRIMAS: ¿LA ECONOMÍA DEL TERROR?
II PARTE
IV Capitulo
LA OTAN COMO INSTRUMENTO OPERATIVO MILITAR GLOBAL
V Capìtulo
PETROLIO Y DICTADURAS
VI Capìtulo
MULTINACIONALES: UN SUPERPODER SIN CONTROL
VII Capìtulo
DE EL “PARTENARIADO EURO-ÁRABE” AL “CIRCULO MENA”
EL “CIRCULO MENA”
DENTRO Y AFUERA DEL “CIRCULO MENA”
VIII Capìtulo
¿EL NUEVO CALIFADO ES LA SOLUCIÓN ISLAMISTA?
IX Capìtulo
LA NUEVA HEGEMONIA COMERCIAL “U.S.A.”
III PARTE
X Capìtulo
AMÉRICA LATINA, RECURSOS NATURALES Y GOBIERNOS PROGRESISTAS
XI Capìtulo
GEOPOLÍTICA EXTRACTIVISTA EN AMÉRICA LATINA
A manera de conclusiòn: ¿HACIA DONDE NOS DIRIGIMOS?
Bibliografia
Anexos
LA NUEVA GEOPOLÍTICA MUNDIAL
ACERCA DE LOS AUTORES