Pubblichiamo la traduzione del IX Capitolo del libro di Giuseppe Lo Brutto e Agostino Spataro “SIGLO XXI- LA ECONOMIA DEL TERROR?” pubblicato ( in spagnolo) nel giugno 2016 da “Ediciones E y C” di Città del Messico.
1… Se Mena è stata la risposta sostitutiva Usa ai trattati sul partenariato euro-mediterraneo di Barcellona, l’Is potrebbe essere la nuova risposta islamista al tentativo (in gran parte fallito) di aggregazione dei paesi arabi in tre Consigli regionali: Unione del Maghreb arabo, Consiglio di cooperazione del Maskrek e Consiglio di Cooperazione del Golfo.
Al suo inatteso apparire sui campi di battaglia si chiamò Isil (Islamic State dell’Iraq e del Levante). Poi si estese in altre aree arabe di crisi (Egitto, Libia), minacciando, addirittura, di voler aggredire l’Europa, e divenne semplicemente Is (Islamic State). In arabo si chiama Daesh ossia “Ad dawla al islamiya fi ‘Iraq wa Shem” che è l’acronimo originale da cui discende Isil.
Su tale denominazione si è aperta una vigorosa diatriba in Occidente e nel mondo islamico. Quasi che il vero problema fosse il nome e non scoprire più precisamente la sua vera natura e identità politica e soprattutto la finalità che persegue. Per semplificare, lo chiameremo IS (Islamic State), come, generalmente, l’intende l’opinione pubblica.
Il problema non è tanto conoscere il significato del nome quanto capire la “missione” che si è data o che gli è stata assegnata. L’opinione pubblica, sempre più terrorizzata, vuole sapere cosa sia esattamente l’Is: un nuovo “flagello” che minaccia l’Oriente e l’Occidente o una nuova sigla, fra le tante, subentrata a “Al Qaeda” che, dopo la scomparsa di Osama Bin Laden, sembra avviata verso il declino?
L’IS vuole proseguire l’opera intrapresa da “Al Qaeda” o realizzare un progetto nuovo, più ambizioso?
Oppure, sta facendo il “lavoro sporco” per conto terzi ossia ripulire il Medio Oriente, l’area Mena, di quei regimi residui che le armate occidentali e dei loro alleati in loco (Turchia, Arabia Saudita, Qatar, ecc) non sono riuscite a scalzare?
Ci s’interroga, legittimamente, su come sia nato, chi sia stato il suo mallevadore politico e finanziario, chi sono, da dove spuntano queste migliaia di combattenti ben addestrati e bene armati che stanno mettendo in serie difficoltà gli eserciti della Siria e dell’Iraq ossia i più potenti del medio oriente, dopo quello israeliano.
Per quanto è dato saperne, la gran parte delle milizie proviene da vari paesi arabi e islamici poveri (dal Maghreb ai paesi dell’Asia centrale ex sovietica) sospinti dalla fede e dalla disoccupazione, attratti da buone paghe alle quali si aggiungerebbero, in caso di morte, le promesse beatitudini del paradiso coranico. Taluni provengono anche da diversi paesi europei, sarebbe più corretto dire da diverse periferie urbane di grandi metropoli europee (Parigi, Londra, ecc.) e dalle regioni balcaniche a prevalente confessione musulmana.
La sociologa francese Maryse Esterle, che ha osservato a lungo il fenomeno, soprattutto sul versante delle periferie parigine, così tratteggia l’identikit del combattente islamista europeo:
“E’ evidente che la situazione socio-economica di uno strato di giovani svantaggiati, disoccupati o discriminati sul lavoro, nella vita sociale che vengono da nonni o genitori di origine nordafricana , è un terreno fertile per farli crescere nella disperazione. Questo segmento di giovani è facilmente attratto dalla propaganda dello Stato Islamico. Poiché trovano nello stato islamico una promessa di vendetta sociale, il riconoscimento, la possibilità di appartenere a un gruppo guerriero, a una ideologia di dominio, ultravirile, che promette loro di arrivare in paradiso quando muoiono come martiri”. (1)
2… Strano, però. Siamo davanti a un’organizzazione politica e militare che conquista parti importanti di territorio nel cuore del M.O., resasi responsabile di massacri e distruzioni davvero riprovevoli e nessuno, nemmeno le centrali d’intelligence delle grandi potenze, riesce a far sapere al mondo chi sono e che vogliono quelli dell’IS. E dato ancora più strano, solo “Site”, un’agenzia di stampa diretta dall’israeliana Rita Katz, (2) di stanza negli Usa, riesce a carpire (e a vendere) le notizie e le foto più drammatiche della guerra dell’IS.
“Senza di lei – scrive il Corriere della Sera- l’ Occidente non avrebbe mai visto i filmati delle barbare decapitazioni compiute dall’Isis nell’ultimo anno, compresa quella dei 21 contadini copti, né avrebbe saputo così tanti particolari sul Califfato e i suoi obiettivi, in sintesi della sua propaganda.”
Cos’altro aggiungere? In attesa di un’informazione più completa e veritiera, si può solo dire: meno male che Rita c’è!
Comunque sia, dalle rare dichiarazioni pubbliche (autentiche o attribuite?) si può rilevare che il “califfo” Al Baghdadi miri molto in alto, dove nemmeno Bin Laden aveva osato.
Il quadro delle connivenze non è chiaro. Tuttavia, si sa che Is ha goduto di aiuti notevoli da parte di Arabia Saudita (specie nella fase iniziale dei combattimenti) e dell’ampia cooperazione della Turchia islamista di Erdogan che è stata ( è) il corridoio privilegiato per i collegamenti logistici, i rifornimenti di uomini e armi, e per la vendita “clandestina” di enormi quantità di petrolio per l’autofinanziamento. Come si fa, clandestinamente, a convogliare enormi quantitativi di greggio, avviarli su pipeline internazionali, caricarli su navi petroliere senza che le tante, occhiute autorità se ne accorgano? Mistero!
Fra un mistero e l’altro, l’Is avanza e conquista parti importanti di territorio di Iraq e Siria (l’osso duro), nodi strategici per il controllo della regione, sotto gli occhi, evidentemente annebbiati dalle sabbie sollevate durante i rari decolli degli aerei della coalizione internazionale occidentale appositamente creata e armata per liquidare il tentativo del neo-califfato.
3… In attesa che qualcuno spieghi alle opinioni pubbliche araba e internazionale che cosa sia effettivamente questa organizzazione, chi la finanzia, chi la dirige, una cosa appare certa: l’IS vorrebbe appropriarsi dell’idea del “califfato” che è anche un’aspirazione, non del tutto sopita, politica e ideologica, che potrebbe riprendere quota nell’immaginario del mondo islamico.
D’altra parte, l’idea non è nuova ma vecchia quanto l’intera storia dello Stato islamico, fondato da Maometto e proseguito dai primi quattro califfi “ben guidati” (rasiduna).
Una storia durata circa 13 secoli, interrotta drammaticamente il 3 novembre 1924 con l’abolizione del califfato decretata da Mustafà Kemal (detto “ataturk”, padre dei turchi) ispiratore e guida della “rivoluzione” dei giovani turchi e padre della Repubblica laica della moderna Turchia.
Oggi, a quasi un secolo dalla sua abolizione, lo vorrebbe far rinascere l’auto-proclamatosi califfo Al Baghdadi.
Questo, grosso modo, il problema. L’ambizioso progetto andrà avanti? L’IS si affermerà o sarà cancellato dalla geo-politica del Medio Oriente?
La situazione resta confusa e aperta a esiti diversi, anche di segno contrapposto. Vedremo.
Intorno all’IS ci saranno (ci sono) le connivenze politiche, le strumentalizzazioni, gli interessi esterni, ma c’è anche una certa “ricettività” sociale che consente a quest’ organizzazione, venuta dal nulla, di trasformarsi, in un lasso di tempo breve, in una sorta di esercito di “liberazione”, in entità statuale insediata in territori strategici a cavallo fra Siria e Iraq.
Tranne gli sciiti e le formazioni curde, fra le quali le eroiche donne di Kobane, nessuno si oppone sul serio all’avanzata dell’IS.
Nonostante gli errori, le orrende stragi ammonitrici, le contraddizioni e le visioni, talvolta, inganne-voli, l’IS sembrerebbe volere offrire al movimento islamista mondiale una risposta concreta e affermativa a una grande questione, politica e ideale, che, da lungo tempo, si pone nel mondo arabo: come uscire dal neo-colonialismo e restaurare la “umma” ossia la comunità musulmana (senza confini geopolitici interni) con a capo, appunto, un califfo.
4… Ipotesi, suggestioni, supposizioni che evocano una storia antica. La questione del califfato, infatti, si pose subito dopo la morte del Profeta provocando fra le diverse etnie e tendenze islamiche scontri sanguinosi e più di uno scisma. Il più importante fu quello “sciita” avvenuto, nell’anno 61 dall’Egira (680 d.C), a seguito dell’uccisione, a Karbala, per mano di sicari degli Omeyyadi di Damasco, di Husayn aspirante califfo in quanto ultimo discendente di Alì genero e cugino del Profeta.
Questo assassinio sancì la rottura definitiva fra la corrente “sunnita” maggioritaria e la compo-nente fatimita (da Fatima, figlia del profeta Maometto e sposa di Alì) che pretendeva la scelta del califfo fra i discendenti del Profeta.
Ancora oggi, lo sciitismo, dominante in Iran e diffuso in diversi paesi del M.O., divide il mondo islamico e costituisce il principale nemico (interno) dell’IS.
Da segnalare all’interno dell’antico confronto, la corrente dei “karagiti” che si differenziava da entrambe le correnti maggioritarie, la quale nel 657 provocò una sanguinosa sedizione per rivendicare l’uguaglianza effettiva di tutti i musulmani, di condizione sociale e di razza, a poter accedere al soglio califfale.
Con la vittoria della rivoluzione laicizzante dei “giovani turchi”, Mustafa Kemal abolì il califfato e instaurò la repubblica, spostando la capitale da Istanbul ad Ankara.
Un taglio netto con una lunga tradizione politica e religiosa, con l’istituzione che, più di ogni altra, nell’Islam rappresentava la guida dei credenti e dell’impero.
Un vero trauma per la comunità musulmana mondiale che da allora vive nel “dramma” di essere una grande religione (circa 2 miliardi di fedeli) senza un capo spirituale e politico cui fare riferimento.
Con tutte le differenze del caso, immaginate quali conseguenze potrebbero derivarne per la chiesa cattolica se qualcuno, improvvisamente, decretasse la fine del papato. Per altro, diversamente dai Papi post- risorgimentali, il Califfo era una guida ambivalente ossia dotata di potere spirituale e temporale.
In piena fase di dispiegamento del “nuovo ordine mondiale”, la “questione” del califfato è divenuta d’attualità poiché, a parte le elites delle petro-monarchie che nel nuovo ordine sembrano trovarsi a loro agio, molte tendenze confessionali islamiste, anche moderate, vogliono sottrarre il mondo arabo-islamico al controllo economico e militare delle nuove potenze d’Occidente e d’Oriente.
Pertanto, la creazione del califfato va vista, soprattutto, come una questione di potere, politico ed economico, nel senso che si vorrebbe ri-unificare il mondo islamico sotto le insegne di un nuovo califfo per farlo partecipare, da protagonista, alla costruzione del nuovo ordine internazionale.
Ovviamente, anche questa può essere considerata una chiave di lettura soggettiva, un’ipotesi interpretativa, una deduzione logica, fra le tante, che si possono trarre da questa iniziale esperienza dell’IS e che attendono il vaglio della storia e della dura, ambigua realtà che la contorna.
5… Dopo l’invasione dell’Afghanistan dei taleban e dell’Iraq di Saddam Hussein gli anglo-americani e i loro alleati della Nato s’ illusero d’aver vinto la guerra contro il “terrorismo” islamico che, in più casi, era stato foraggiato, coperto dai servizi degli stessi paesi belligeranti.
Vittorie illusorie, appunto. Poiché gli eserciti “vittoriosi” sono ancora laggiù a combattere e/o a presidiare governi fantoccio che non ce la fanno a risolvere gli immani problemi sociali e tribali, mentre il “terrorismo”, dato per morto, appare più baldanzoso e continua a diffondersi in paesi dove, prima, non era mai attecchito, a cominciare dall’Iraq e dalla Siria.
A causa degli errori compiuti dai leader occidentali e delle ambiguità dei loro servizi d’intelligence il contesto operativo delle forze terroristiche si è ampliato, si è evoluto, passando da “Al Qaeda” di Osama bin Laden, eliminato in circostanze ancora poco chiare, al cosiddetto Stato islamico.
Nell’attesa che qualcuno si decida a interrompere questo spietato “romanzo scellerato”, vediamo di abbozzare un ragionamento politico per tentare di capire gli obiettivi principali della strategia della galassia islamista.
Tutto iniziò nel 1967, a seguito della sconfitta delle armate arabe nella guerra dei “sei giorni” contro Israele e non nel 1979 anno della “rivoluzione” khomeynista in Iran che instaurò la repubblica islamica di tendenza “sciita”, con la quale non s’identificano la gran parte dei gruppi integralisti di tendenza “sunnita”.
Il famoso giornalista egiziano Fuad Zakariya così sintetizza il senso di questo passaggio cruciale: “Oltre alla disfatta disastrosa della “guerra dei sei giorni”, il 1967 segna nel mondo arabo l’inizio di tutta una serie di rinculi: in politica estera, crescente sottomissione all’imperialismo mondiale; in politica interna, aumento delle politiche repressive e terroristiche; sul piano culturale, ritorno in forza delle tendenze più retrograde ; sul piano economico e sociale, fallimento evidente delle società musulmane a stabilire un minimo di giustizia e a mobilitare le loro risorse (leggi: idrocarburi) ai fini di un autentico sviluppo.” (3)
6… La cosiddetta “guerra al terrorismo”, proclamata da Bush, con singolare tempismo ossia il giorno stesso dell’attentato alle Torri gemelle di New York, rafforzò nell’opinione pubblica mondiale il fondato sospetto che egli l’abbia scatenata per il controllo strategico dell’area del Golfo e delle immense risorse petrolifere irachene.
Così come – dall’altro lato – si ritiene che Putin si ostini a mantenere lo stato d’occupazione russa della Cecenia per il controllo sulle risorse petrolifere insistenti nelle regioni dell’Asia centrale.
Da notare che dette regioni costituiscono i due principali poli nei quali si concentrano le maggiori riserve energetiche del pianeta e che entrambi insistono in paesi di tradizione islamica o dell’ agognata “umma” musulmana propugnata dalle organizzazioni islamiste radicali.
Ovvero nei territori dell’Islam che nel sottosuolo detengono immense ricchezze, mentre in superficie mostrano le più grandi ingiustizie sociali: miseria, disoccupazione, analfabetismo e arretratezza cronica, ecc. Il petrolio “islamico”, che per alcuni decenni farà ancora girare l’economia mondiale, è l’unica risorsa strategica di cui dispone il mondo arabo, fino ad oggi malamente gestita dai gruppi dominanti dei singoli paesi.
Soprattutto dai clan regnanti sulle petro-monarchie che realizzano una scandalosa concentrazione di ricchezze, in buona parte trasferite nel sistema delle grandi corporazioni economiche e finanziarie nord-americane e occidentali.
Pur con tutte le ambiguità e le contraddizioni manifestatesi, una cosa appare chiara: il progetto islamista mira al controllo delle principali aree petrolifere del Medio Oriente (comprese quelle di pertinenza delle petro-monarchie) e della Libia e dell’Algeria nel Maghreb ossia nella sponda sud del Mediterraneo.
A ben guardare, si tratta di uno spazio geo-politico giustapposto a quello delimitato dal “cerchio” Mena. E – fatto più sorprendente- ricalca, in larga misura, i confini del vecchio califfato, dell’impero ottomano. Sempre rimanendo nel campo delle ipotesi possibili, si può notare che se da un lato gli Usa hanno lavorato per sterilizzare il progetto del partenariato euro-mediterraneo di Barcellona per lanciare il progetto Mena, dall’altro lato l’IS (o chi verrà dopo) ha soppiantato l’idea generica della “umma” musulmana di “Al Qaeda” per proclamare l’obiettivo del nuovo califfato.
A questo punto potrebbe insorgere un nuovo conflitto poiché i due disegni ( Mena e Stato islamico neo-califfale) si vorrebbero realizzare sul medesimo territorio.
7… Sullo sfondo di tale “problema” aleggiano alcuni interrogativi di non poco conto che pesano su questo spazio molto conteso.
In particolare uno: la competitività tra Is e cerchio Mena è vera o solo di facciata? E, se vera, fino a che punto s’intende portarla avanti?
In assenza di riscontri attendibili, non è possibile dare risposte certe a tali interrogativi che stanno lacerando il Medio Oriente e mandato in tilt molte cancellerie.
Il discorso ritorna al cuore del problema che sta nelle relazioni Occidente- mondo arabo/islamico e aventi per oggetto della contesa il controllo delle risorse di petrolio e di gas insistenti nella regione.
Nella sostanza, cambiano solo gli attori del confronto e il contesto geo-politico di riferimento.
Seguendo la recente evoluzione dei rapporti fra occidente (Usa / U.E) e mondo islamico si può notare- come dato più rilevante- il passaggio da un disegno di cooperazione pacifica a uno di tipo interventista qual è il Mena propugnato dalle amministrazioni Usa.
Per non avere ostacoli sul cammino del Mena, è stato deciso di congelare l’iniziativa europea e di sbarazzarsi della presenza, divenuta ingombrante, di Osama Bin Laden e della sua “Al Qaeda”, oggi allo sbando. L’incubo sembrava finito con l’eliminazione di Bin Laden. Quando, improvvisamente, è spuntato, fra i pozzi di petrolio della pianura mesopotamica, il cosiddetto IS che si auto-propone come teoria redentrice dell’Islam annichilito dalle sconfitte, dai “tradimenti” e come entità statuale, come nucleo costituente del nuovo Califfato.
8… Molti, al solo sentire parlare di “Stato islamico” sono balzati dalle loro comode poltrone di commentatori blasonati, di direttori d’importanti giornali e canali televisivi, di specialisti e di consulenti di “cose arabe”, ecc.
In realtà, nel mondo arabo l’esigenza di uno Stato moderno, islamico o laico, è vecchia di almeno due secoli. Taluni la fanno iniziare con il “risveglio” che seguì la memorabile spedizione in Egitto di Napoleone (1798-1801) che portò sulle rive del Nilo lo spirito della rivoluzione francese.
Nei circoli intellettuali arabi (non solo egiziani) si aprì un dibattito sulla “modernità” che diede vita a una importante corrente di pensiero “l’Ennahda” (la “rinascita”) che influenzerà il corso politico e culturale di gran parte dei paesi di tradizione sunnita.
Fu quello il primo serio confronto fra il mondo arabo e l’Europa investita dalla rivoluzione francese ossia da un evento epocale che aveva cambiato la natura del potere e dei suoi rapporti con i cittadini.
Dall’Ennadha nacquero nuove tendenze culturali e politiche, associazioni e movimenti per i diritti civili, compresi quelle delle donne allora totalmente conculcati, che presto incontrarono le idee innovative di Mohammed Alì Pascià, lo statista, il capo militare, il politico visionario, costruttore dell’Egitto moderno e fondatore della dinastia abbattuta nel 1952 dalla “rivoluzione” degli ufficiali liberi di Gamal Abdel Nasser.
Abbiamo accennato a tali riferimenti storici per dire che non sempre la storia moderna del mondo arabo è stata così tenebrosa come oggi a molti piace rappresentarla.
9… Anche durante l’Ennahda si registrarono alti e bassi, contrasti, contraddizioni.
Particolare menzione merita il movimento wahabbita, sorto anch’esso sul finire del XVIII° secolo fra le sabbie dell’attuale Arabia saudita per iniziativa del predicatore solitario Mohammed Abdel Wahab che parve nato per contrapporsi al “risveglio” egiziano.
Fu quello l’Islam “beduino”, nato fra le infuocate sabbie del Sahara detto anche “il quarto vuoto”. Un movimento veramente fondamentalista rigido, conservatore che propugnava il “ritorno” all’Islam delle pure scaturigini, contro ogni modernità e le interpretazioni revisionistiche dei testi sacri.
Nonostante il suo carattere ortodosso non si può dire che il wahabismo fu un’elaborazione originale poiché Wahab attinse molto alle teorie fondamentaliste di Ibn Taimiyya, pensatore e teologo siriano vissuto nel XIV° secolo.
Il wahabismo, per quanto confinato nella penisola araba, acquisterà una crescente importanza nei primi decenni del XX° secolo, quando incontrerà la “spada” della potente tribù dei Saud e diventerà, praticamente, una sorta di religione del regno. Ancora oggi, il wahabismo plasma e orienta certe azioni di proselitismo, di finanziamento operate dalla potente dinastia che, oltre ad avere un’enorme ricchezza petrolifera, e la custode dei principali luoghi santi dell’Islam: Mecca e Medina. Tutto ciò per dire che non si sta parlando di “favole” di un misterioso Oriente, di un medioevo superato dai tempi e condannato dalla storia, ma di una pregnante, drammatica attualità che influenza il corso delle cose sia nel campo dottrinario e morale sia in quello commerciale e finanziario internazionale.
Il “fondamentalismo” di cui si parla è figlio di tali processi i quali sfociano in rivolte periodiche e quasi mai in vere rivoluzioni.
La rivoluzione, oggi, necessaria per il mondo arabo sarebbe quella per affermare la laicità dello Stato e i diritti civili e politici dei cittadini.
Insomma, una rivoluzione come quella che fecero i francesi nel 1789 ossia il più grande evento della storia moderna che, a parte qualche eccesso, consentì ai popoli europei di passare dalla condizione di sudditi di regimi assolutistici alla dignità di cittadini liberi.
10… Sulla questione dello Stato arabo moderno, improntato sulla democrazia e sulla laicità, si sono incontrate forti opposizioni, resistenze di vario tipo che hanno svuotato o impedito le poche riforme avviate soprattutto dopo il crollo del califfato ottomano in diversi paesi islamici.
Addirittura, con l’avanzare dell’islamismo radicale e dei movimenti politici dei “Fratelli musulmani”, che hanno cavalcato l’onda delle “primavere arabe”( in Egitto, Tunisia, Libia, Yemen, ecc), si è temuta una regressione rispetto alle timide riforme civili introdotte con lo Stato-nazione post-coloniale. Infatti, sia l’islamismo radicale militante sia il wahabismo governante rifiutano i concetti di democrazia e di laicità dello Stato.
Questione di enorme importanza sul piano teorico e politico, ma anche sul terreno del confronto in corso all’interno del mondo arabo e dello scontro che taluni gruppi (prima Al Qaeda, oggi IS, ecc) hanno intrapreso, in un clima di ambiguità, contro l’Occidente, variamente inteso e rappresentato.
Tale strategia s’innesta nel malessere diffuso nei popoli arabi, derivato dalla crisi economica e dello Stato-nazione, che nasce, soprattutto, non dalla pretesa inapplicabilità del modello statale importato, quanto dal tipo di gestione politica dello Stato e dagli andamenti del mercato e del contesto internazionali.
A causa delle immense risorse petrolifere, gli Stati arabi moderni e le loro elites al potere hanno dovuto subire, dal secondo dopoguerra in poi, i condizionamenti delle politiche delle grandi potenze mondiali che hanno concentrato su queste aree le loro mire egemoniche.
In assenza di una partecipazione e di una cultura democratiche, in questi Paesi si sono avuti Stati strutturalmente deboli, governati all’insegna di una concezione autoritaria, talvolta anche tribale, all’interno della quale s’intrecciano elementi di modernità e residuati di una visione dispotica e feudale.
Perciò, non si può fissare- come nota il sociologo algerino Mohammed Arkoun-“una tipologia degli Stati contemporanei nei paesi islamici. Non si può parlare né di monarchie puramente tradizionali o moderniste, né di repubbliche effettivamente rivoluzionarie, né liberali, né di stati totalitari, né Stati-nazione, ecc.” (4)
In realtà, lo Stato arabo moderno, qualunque sia la sua natura politica e configurazione istituzionale, ha retto fino a quando la situazione economica e finanziaria ha consentito di tenere in equilibrio i due assi portanti sui quali poggiava: lo stato sociale, fortemente assistenziale, per far fronte ai bisogni delle masse popolari e la ricerca dell’arricchimento del blocco di potere che con lo Stato si è identificato.
11.. Nei primi anni del nuovo secolo (XXI°), a causa delle politiche liberiste e delle minori entrate dovute alle frequenti riduzioni dei prezzi internazionali degli idrocarburi, tale, precario equilibrio si è alterato a svantaggio dei ceti meno abbienti, degli inoccupati (specie giovani diplomati e laureati ) che costituiscono la massa di manovra dei movimenti estremisti e la parte più corposa dei nuovi flussi migratori verso l’Europa.
Le minori entrate, la fuga dei capitali all’estero, gli sperperi provocati da fenomeni di corruzione su vasta scala, l’incremento vertiginoso delle spese militari e del debito pubblico, l’indebitamento con l’estero, hanno fatto precipitare la situazione e richiesto l’intervento delle istituzioni finanziarie internazionali (principalmente del Fmi) che con le loro politiche di aggiustamento hanno accelerato la crisi degli Stati – nazione portandoli verso livelli d’ingiustizia sociale insopportabili.
Su tale, diffuso malessere si sono innestate le cosiddette “primavere arabe” in Tunisia, Egitto, Yemen e le stesse “rivoluzioni” in Libia, in Siria, ecc. che trattandosi di movimenti in gran parte in sintonia con la setta dei “Fratelli mussulmani” o, peggio, sospettati d’essere ispirati e finanziati da alcune potenze occidentali non hanno incontrato una vasta accoglienza fra le masse popolari più disagiate.
I risultati di tali azioni sono sotto gli occhi di tutti: in meno di quattro anni i nuovi equilibri politici sono stati ribaltati in Egitto con un colpo di stato e in Tunisia con le elezioni, mentre per sovvertire il potere nella Libia del colonnello Gheddafi e nella Siria di Bashar Assad so è dovuto ricorrere all’intervento dei gruppi qaedisti residui e delle “armate” dell’Isis che vorrebbero imporre con la violenza il califfato.
12… Nell’era della globalizzazione dell’economia, i gruppi islamisti vorrebbero appropriarsi del petrolio e trasformarlo in un’arma formidabile non per distruggere l’Occidente (obiettivo quanto-meno improbabile, poiché nessun venditore si sognerebbe di distruggere il suo miglior cliente), quanto per condizionarlo nel meccanismo basilare del suo sviluppo e garantire allo Stato islamico che verrà un ruolo politico ed economico decente nei nuovi assetti del potere che si andranno a determinare nell’ambito del “nuovo ordine internazionale”.
Non c’è dubbio che il primo, grosso ostacolo al dispiegamento della strategia islamista era costituito dai regimi al potere corrotti e succubi alla politica neo-coloniale dell’Occidente che gli islamisti vogliono abbattere senza eccezione alcuna. “Laici” o “integristi” che dir si voglia, poiché gli Stati cui ci riferiamo non sono né laici e nemmeno integristi, ma semplicemente delle monarchie assolutiste e/o delle repubbliche dittatoriali ereditarie.
Per gli islamisti radicali, infatti, non c’era grande differenza fra il “diavolo” (perché relativamente laico) Saddam Hussein e la dinastia wahabbita (fondamentalista e oscurantista) dell’Arabia saudita o fra il “socialista” Gheddafi e il filooccidentale Moubarak.
A loro dire, sono tutti espressione e detentori di un potere abietto che sottrae all’Islam la sua arma principale di emancipazione e di diffusione: il petrolio.
Perciò, quando Bush- figlio, facendosi malissimo i conti, tolse di mezzo Saddam fece una cosa gradita agli islamisti che non alzarono un dito per fermare le armate anglo-americane in Iraq, anzi molti si aggregarono, parteciparono all’invasione.
In Arabia saudita, dove il potere petrolifero è saldamente nelle mani dei Saud, i più fedeli alleati degli Usa, ci hanno pensato i martiri di Al Qaeda a scuotere il regime a colpi d’attentati suicidi, in attesa della sollevazione generale che, com’è successo nell’Iran dello Scià, sperano travolgerà la dinastia più ricca e potente del Medio Oriente.
In questa guerra anomala contro “il terrorismo”, combattuta fra ex alleati e per interessi inconfessabili, alcuni governi europei fanno a gara per potervi intervenire, anche con mansioni subalterne, per andarsi a sedere al tavolo dei vincitori e spartirsi i dividendi prodotti dallo sforzo bellico.
Anche questo è un segno dei tempi (bui) che stiamo vivendo: ieri ci si attivava per partecipare ai dividendi della pace, oggi ci si accapiglia per accaparrarsi qualche modesto e sanguinoso dividendo della guerra.
13… L’altro elemento della strategia dei gruppi islamisti, da considerare con inquietudine, è il ricorso, ormai sistematico, agli attentati stragisti come metodo privilegiato di lotta contro i nemici interni della Dar-al- Islam (Arabia Saudita, Algeria, Egitto, Yemen, Libano, ecc) ed esterni della Dar al-Harb (Usa, Israele, Kenia, Francia, ecc.).
Tradizionalmente, i vari gruppi hanno usato il terrorismo, anche suicida, soprattutto in azioni di tipo resistenziale (come nei Territori palestinesi e nel Libano del sud occupati dagli israeliani), seces-sioniste (Kashmir, Filippine, ecc) o per il rovesciamento dei poteri cosiddetti “empi” (Egitto, Algeria, Siria). Quasi mai l’attacco terroristico è stato portato fuori dei territori dell’Islam.
C’è qualcosa che non quadra rispetto alle più accreditate teorie integraliste. Sembrerebbe, infatti, che si sia entrati nella seconda fase del “Jihad” preconizzata da Sayyid Qutb, massimo teorico dell’islamismo contemporaneo, il quale di una “seconda fase” della guerra per l’instaurazione della Umma mondiale alla cui direzione candida “un nucleo scelto di credenti plasmato nella fede in un sol uomo”. (5)
Poiché nel “jihad”, combattimento sulla via di Dio, (6) vi sono due fasi. Nella prima “sarà rivolto all’interno dei territori dell’Islam contro tutti quei regimi che hanno deviato dalla giusta via. Mentre nella seconda fase, che avrà inizio “dopo che la charia (legge islamica) sarà ripristinata nei territori dell’Islam (Dar-al- Islam), il Jihad sarà rivolto contro i territori degli infedeli (Dar al-Harb), letteralmente “territori della guerra”, poiché la guerra santa potrà avere termine solo con la Umma mondiale ossia quando il mondo intero sarà convertito all’Islam.” (7)
Non è molto chiaro tutto quel che sta accadendo dentro la galassia islamista. Tuttavia, prima Bin Laden oggi Al Baghdadi (Is), nei loro minacciosi proclami, hanno teso ad accreditarsi, agli occhi delle masse dei credenti, come i più autentici interpreti del pensiero di Qutb, atteggiandosi a leader indiscussi, quasi predestinati, della rivoluzione islamista mondiale.
14 …In questa guerra atroce, oltre a copiosi mezzi finanziari e a complicità politiche e logistiche, il terrorismo islamista dispone di un’arma davvero impareggiabile: le coorti dei martiri della fede che alimentano questo assurdo rito sacrificale, imprevedibile quanto micidiale, contro il quale è difficile approntare rimedi preventivi e strategie efficaci.
I neo-martiri, infatti, si caratterizzano per un autismo impenetrabile, per una volontà fredda e determinata che solo il fanatismo estremo può sorreggere.
Come notiamo in altra parte, gli Usa e la Nato hanno contrapposto a questa”arma” umana una soluzione tecnologica ben più efficace e micidiale ossia il drone che consente al tecnico della guerra, comodamente seduto in ufficio, di orientare il vettore senza pilota su obiettivi ben selezionati anche se non ben mirati visto sovente scaricano le sue bombe su scuole, piazze e civili abitazioni.
La risposta alla piaga del martire kamikaze non può essere di tipo militare e/o lo scontro di civiltà, come in Occidente taluni sconsiderati propongono di scatenare. In entrambi i casi non si andrebbe a incidere sulle cause determinanti questo complesso e devastante fenomeno.
Il problema è lo sviluppo socio-economico e democratico del mondo arabo che – tramite il petrolio – vorrebbe affrancarsi dalla duplice dipendenza derivante dalle politiche delle grandi multinazionali e dalle dittature nazionali.
Le forze democratiche europee, ma anche quelle degli Usa, dovrebbero avviare un dialogo con tutte le componenti progressiste e pacifiste, laiche e religiose, che costituiscono la stragrande maggio-ranza del mondo arabo, per meglio individuare e rimuovere le cause generatrici dell’attuale males-sere arabo e per costruire insieme una prospettiva di co-sviluppo e di sicurezza reciprocamente garantita.
15 …In primo luogo, e subito, bisognerebbe rimuovere il più grave ostacolo che si frappone fra Occidente e Medio Oriente: il conflitto israelo – palestinese.
Un accordo di pace, equo e duraturo, fra israeliani e palestinesi, che assicuri a questi ultimi la creazione di uno Stato sovrano e a tutti i paesi della regione confini sicuri, avrebbe contro il terrorismo un effetto pari a migliaia di missili, poiché farebbe venir meno il suo principale elemento di agitazione fra le masse arabe.
Per contribuire a questo sforzo, bisogna far chiaramente capire agli Usa, schierati a fianco d’Israele a prescindere delle azioni e delle posizioni sbagliate che assume, che l’Europa non è disposta a seguirli nel suo azzardoso unilateralismo imperiale e notificare ai governanti d’Israele un no deciso alla loro politica repressiva ed espansionistica in Palestina.
L’Europa dovrebbe operare una svolta credibile in favore della pace e della dignità del popolo palestinese se non vorrà essere costretta, domani, a negoziare con i capi islamisti i nuovi termini del rapporto di scambio fra Occidente e Oriente.
16… Non c’è dubbio che il fenomeno del “fondamentalismo” islamico costituisce il fatto più dirompente di questo inizio del secolo e con il quale si dovranno fare i conti per lungo tempo.
Ma si tratta di vero fondamentalismo o di Islam politico?
Su questo punto la confusione è grande, già a partire dalla stessa definizione del fenomeno che non può essere- a mio parere- chiamato “fondamentalismo”, poiché – come diremo- non si tratta di vero fondamentalismo inteso nell’accezione comune, persino etimologica, che si attribuisce a tale termine..
Anche definirlo non è facile. Si può tentare ricorrendo ad alcuni confronti con altre tendenze simili maturate nell’ambito di altre religioni monoteiste.
In base alle conoscenze generali e alla luce delle ricerche effettuate, il termine “fondamentalismo” non dovrebbe essere applicato al fenomeno presente nel mondo arabo che molti chiamano, impropriamente, “rivoluzione islamista”.
Il “fondamentalismo”, nel senso religioso, è un termine che correttamente può essere applicato, ad esempio, a quei movimenti cristiani che, all’inizio del ‘900, crearono negli Stati Uniti d’America alla nascita di sette e gruppi protestanti che predicavano il rifiuto della modernità e il ritorno ai fondamenti della dottrina cui ispirare l’organizzazione della vita delle comunità.
Invece, gli attuali movimenti religiosi islamisti accettano una serie d’innovazioni verificatesi, nel corso degli anni, sia nella religione che nella vita pratica.
All’incirca, per le stesse ragioni non si può parlare d’integralismo islamico perché questo concetto definisce e presuppone un certo tipo di pratiche rituali e comportamenti religiosi tradizionalisti, presenti e/o rivendicati in certi settori del mondo cristiano. Come, per esempio, nell’esperienza di monsignor Lefebre in Francia.
L’altro termine usato per identificare il fenomeno è quello più generico e politico di “radicalismo islamico”. Forse, tale definizione più si avvicina alla realtà di questi movimenti che- è bene ricordare – non sono omogenei e nascono in contesti territoriali diversi e distanti fra loro.
17 …Osservando la realtà e le istanze rivendicative di tali movimenti, operanti in quasi tutti i Paesi di tradizione islamica, si coglie, infatti, in loro una forte spinta di carattere politico.
Si tratta, in genere, di movimenti elitari e/o con caratteristiche di massa che usano il sentimento religioso, molto radicato e diffuso nei paesi arabi, per obiettivi di carattere politico; per rovesciare i vari regimi “empi”, sia si tratti di petro – monarchie, sia di “repubbliche” ereditarie.
Regimi assolutisti o scarsamente democratici che organizzano i loro interessi sociali e politici attorno al potere petrolifero, a sua volta subordinato agli interessi dei mercati internazionali.
Oggi, tali sistemi sono entrati in crisi perché si è rotto l’equilibrio basato sul compromesso stabilito fra rendita petrolifera e stato-sociale, molto assistenziale, che ha garantito il consenso popolare.
Insomma, sembra essere venuto meno il rapporto fra le elites al governo, detentori delle ricchezze nazionali, e la massa dei ceti meno abbienti, dei più poveri, perfino dei laureati e dei disoccupati, sempre più emarginati rispetto alle fonti della produzione della ricchezza e dei consumi. In mancanza della tradizionale assistenza sociale pubblica, alla gran parte di loro non resta che passare alla militanza jihadista o emigrare.
Qui, sta una delle chiavi interpretative per capire anche i massicci fenomeni migratori verso l’Italia e verso l’Europa.
In società autoritarie come quelle arabe, l’assenza di partiti, di organizzazioni laiche, progressiste e/o di sinistra in grado di accogliere e convogliare il dissenso, ha favorito la diffusione dei gruppi islamisti, in gran parte, finanziati dalle petro-monarchie del Golfo.
In particolare dall’Arabia saudita che, così facendo, spera di allontanare da se il “pericolo” e di dirottarlo verso gli Stati “laici”, non confessionali quali: Algeria, Iraq, Libia, Siria, ecc. che sono anch’essi depositari d’immense riserve d’idrocarburi e realtà geo-politiche strategiche. Caratte-ristiche che li rendono molto appetibili alle multinazionali occidentali.
18… Da tale crisi e dall’assenza di un’alternativa laica del progresso nasce e si diffonde l’islamismo radicale nel mondo arabo.
Come detto, il fenomeno s’ispira ad antiche tradizioni dell’Islam puro e duro, ma ha trovato vigore sulla spinta di avvenimenti storici piuttosto recenti.
Gli attuali movimenti islamisti hanno acquisito caratteristiche di forza dirompente, alternativa ai sistemi politici dominanti, da quando è divenuto ancor più strategico il ruolo del petrolio arabo in rapporto al processo di globalizzazione dell’economia e dei mercati.
Dove porterà la prospettiva confusamente indicata dal radicalismo islamico?
A prima vista, sembra mirare alla drammatizzazione della realtà per ottenere, in futuro, un controllo politico e ideologico totalitaristico.
E’ tempo che in quest’ altezzoso Occidente si inizi a studiare, ad approfondire ciò che veramente vogliono, l’ideologia, la cultura e la pratica di questi movimenti.
Non ci si può accontentare dei pochi analisti, dei media che informano, con dovizia di orrendi particolari, di ogni loro azione violenta, ma non spiegano qual è il loro retroterra ideologico, culturale di tali gruppi, a quali fonti teoriche attingono.
Ad esempio, nessuno dice che dietro Al Qaeda c’è l’ideologia di un “certo” Sayyid Qutb, eminente teologo egiziano, membro influente della potente setta dei “fratelli musulmani”, autore di una nuova teoria dell’islamismo radicale. Per queste sue idee fu perseguitato da Nasser e alla fine giustiziato.
Ha lasciato, comunque, una vasta produzione di scritti ideologici, da noi in gran parte sconosciuti, su cui si formano le falangi dei movimenti integralisti.
Il gruppo di studenti che, nel 1981, attentò alla vita di Sadat era imbevuto di queste teorie. Lo stesso Osama Bin Laden ebbe come docente, nella facoltà d’ingegneria dell’università di Gedda, un fratello di Sayyed Qutb.
Insomma, è importante capire che questi gruppi non si caratterizzano soltanto per il fattore militare o terroristico, ma anche per una loro ideologia e per una diversa visione del mondo.
19… Sul finire del secolo scorso, si cominciò a prendere coscienza che il petrolio era ancora una risorsa strategica ma in via di esaurimento.
Nonostante questa presa d’atto, i consumi invece che ridursi s’incrementano facendo impennare i prezzi petroliferi su scala planetaria.
Stranamente, nonostante l’incertezza del futuro degli idrocarburi e le guerre per accaparrarseli, non si da corso a una politica seria, di ricerca e sviluppo, delle tecnologie di risparmio energetico e di produzioni alternative alle energie fossili, altamente inquinanti, costose e sempre più scarse.
Tutto ciò accade mentre aumentano i consumi e i prezzi e nel pieno di una nuova corsa per l’accaparramento delle risorse energetiche che vede da un lato le multinazionali dei paesi dell’area Ocse e dall’altro lato i nuovi colossi dell’economia mondiale come i Brics (Cina, India, Russia, Brasile, Sud-Africa) e altri paesi in via di sviluppo.
Ovviamente, l’importanza strategica di tali risorse non è sfuggita ai movimenti islamisti radicali, in particolare ad “Al Qaeda”, che hanno fatto del “petrolio islamico” merce intoccabile, al di sopra di ogni conflitto. Il petrolio è la bandiera della loro lotta per il rovesciamento dei regimi interni e per emancipare i paesi produttori da una posizione subalterna.
Una prova? Gli islamisti radicali si sono macchiati delle più orrende stragi, hanno messo bombe ovunque, ma mai hanno fatto saltare un oleodotto, un gasdotto. Il petrolio è “sacro” anche per loro!
In realtà, si vorrebbero mettere in discussione le tradizionali ragioni di scambio e il meccanismo di rifornimento del mercato petrolifero mondiale, basato sulla sicurezza degli approvvigionamenti a basso prezzo, oltre che su un rapporto di dipendenza politica e militare. Per gli islamisti radicali il petrolio non è soltanto un’arma, ma il fattore principale (forse unico) che, in una certa misura, potrà far partecipare il mondo arabo al tavolo del nuovo ordine mondiale.
Sulla base di tale impostazione e rivendicazione, il conflitto con gli Stati Uniti d’America e con diversi paesi occidentali è divenuto, sempre più diverrà, inevitabile.
20… A questo proposito, è davvero illuminante la vicenda umana e politica di Osama Bin Laden.
Nato in una delle famiglie più ricche dell’Arabia Saudita, il giovane ingegnere parte, come tanti altri militanti islamisti, per andare a combattere la “guerra santa” per liberare l’Afganistan occupato dalle truppe sovietiche. Qui, con il supporto logistico di settori dei servizi statunitensi e con l’aiuto finanziario dell’Arabia Saudita, crea “Al Qaeda” ossia la prima organizzazione di militanti islamisti a carattere sopranazionale.
Ironia della sorte, anche lui inciamperà nel suo avventuroso cammino e ben presto si trasformerà da “eroe della guerra santa” antisovietica a nemico numero uno degli Stati Uniti e dei loro alleati sauditi.
Il resto è noto. Si fa per dire. Poiché la figura e l’opera di questo “emiro del terrore”, come la sua oscura soppressione, restano avvolte nel mistero più fitto.
Tuttavia, a parte la sorte toccata a Bin Laden, interessa rilevare, analizzare la funzione prevalentemente politica di tale movimento. Dietro i discorsi dell’Islam duro e puro, si celano, infatti, obiettivi politici e di potere. E cambiato solo il segno politico di riferimento che, ieri, era “antisovietico” oggi “antiamericano”.
In realtà, pur conservando un certo grado di ambiguità, sembra che tali gruppi vorrebbero colmare il vuoto creatosi nel mondo di tradizione islamica a seguito della scomparsa dei movimenti panarabisti progressisti (da loro stessi combattuti) e del crollo del ruolo internazionale dell’Urss che, in qualche misura, controbilanciava l’influenza occidentale.
L’islamismo radicale si propone come nuovo soggetto politico mirante a creare un’alternativa islamista, addirittura un nuovo califfato, sulla falsa riga dell’interpretazione qutubista del testo coranico.
21… Di fronte a tale impasse, l’Occidente, con in testa le amministrazioni repubblicane Usa, hanno pensato, erroneamente, di aggirare l’ostacolo esportando in questi paesi la democrazia … con i cannoni. Come agire di fronte alla diffusione di tali fenomeni?
Un interrogativo pesante, insoluto cui l’occidente ha pensato di rispondere con la guerra, comunque camuffata, invece che con il dialogo, con la cooperazione pacifica.
Ormai da 30 anni, gli Usa e diversi loro alleati occidentali e orientali, con la scusa di portare in questi paesi la democrazia, di combattere il terrorismo, flagellano i paesi arabi con occupazioni militari, rivolte etero dirette, accompagnate da massicce forniture di sistemi d’arma, con la “guerra preventiva” ossia un mix di farneticanti castronerie politiche per giustificare una nuova strategia di rapina; una clamorosa assurdità in contrasto col buon senso e con lo Statuto delle Nazioni Unite.
Con ciò non si vuol negare l’esistenza in quei Paesi di un serio problema di democrazia. Tutt’altro.
Il movimento progressista e di sinistra internazionale lo denuncia da qualche tempo, prima che i Bush andassero al potere. I governanti Usa non se ne siano mai accorti.
Specie, quando la denuncia ha riguardato i paesi del Golfo, loro alleati e grandi produttori di petrolio, governati dalle peggiori dittature, dove non sono assicurati i più elementari diritti umani e civili, fra cui una Costituzione e il diritto di voto.
Come detto, il problema della democrazia nel mondo arabo esiste e andrebbe affrontato però con un approccio diverso dall’ opzione militare e sempre sulla base della Carta dell’Onu che sul punto è molto chiara. Ovviamente, accantonando la pretesa di esportare, d’imporre i nostri modelli.
La democrazia non è una medicina da assumere su ricetta del dottor Usa, ma un processo lungo e complesso che ciascun paese deve sviluppare al suo interno, autonomamente, con forme, forze e idee proprie.
22… Dall’esterno si possono solo indicare i punti essenziali di riferimento, i grandi principi, i valori universali della democrazia sanciti dalla Carta dei diritti umani delle Nazioni Unite che, purtroppo, la gran parte dei Paesi di tradizione islamica (e non solo) non applicano.
E’ a dir poco controproducente pensare d’imporre la democrazia, le libertà con i bombardamenti, con le armate straniere. I destinatari del “beneficio” potrebbero non capire, prenderla male. Inoltre, a forza d’ ingerenze e di occupazioni militari si rischia davvero una guerra globale.
La battaglia per la democrazia nel mondo arabo e altrove (oggi si possono inserire anche diversi paesi occidentali) dovrà essere di carattere culturale e politico e avere come riferimento la citata carta dei diritti che vanno riconosciuti a tutti, laicamente, di là del credo religioso e politico, del sesso, del colore della pelle, della condizione sociale ed economica.
Insomma, ognuno scelga le forme più appropriate di una società democratica, ma tutti i cittadini devono essere messi in condizione di poter fruire dei diritti fondamentali di libertà e di azione.
Contro quei governi o regimi che non applicano, calpestano, anche in parte, questa Carta possono essere decise sanzioni, fino all’espulsione del paese dall’Onu e dagli altri organismi internazionali collegati.
Ma gli estremisti islamici vogliono la democrazia laica e pluralista?
Dagli scritti di riferimento e dalle pratiche concrete (Taleban e Al Qaeda in Afghanistan, IS in Siria e Iraq) parrebbe proprio di no. Essi, infatti, assumono l’Islam come sistema totalizzante che si fa carico anche dei problemi di gestione dello Stato e di organizzazione della partecipazione popolare. Perciò, propongono di eliminare perfino quelle rare parvenze di democrazia (definita ingerenza occidentale) per instaurare la “umma” musulmana, il califfato che sono la negazione di ogni forma di laicità e di pluralismo politico, culturale, ideale.
23… Perciò, più che bombardare, bisogna sforzarsi d’individuare, aggregare e mobilitare all’interno delle società arabe tutte quelle forze disponibili al cambiamento in senso democratico e laico.
D’altra parte, fino agli anni ‘80, in quelle società c’era una presenza laica progressista, di sinistra che si articolava in partiti politici, sindacati e movimenti culturali progressisti e anche di sinistra. Fra i tanti, il Baath (siriano e iracheno) che – nei primi decenni della sua vita- ebbe il grande merito storico di avviare impegnativi processi di modernizzazione economica e della società, di emancipazione della donna e, in generale, di sviluppo di un sistema politico tendenzialmente laico.
Purtroppo, l’Europa progressista non offrì a queste forze e movimenti una sponda di riferimento, di collaborazione.
Da qui, anche, lo scoraggiamento e il rifugio entro uno schema di tipo dittatoriale (in Siria, in Iraq, in Libia, nello stesso Egitto) che hanno, oggettivamente, favorito la nascita e lo sviluppo dei gruppi integralisti.
Molti intellettuali, dirigenti politici e sindacali progressisti hanno abbandonato i loro Paesi per trasferirsi all’estero, soprattutto in Europa.
Forze importanti, qualificate che bisognerebbe aiutare a ri-prendere il loro ruolo nei rispettivi paesi.
Non per farne “fantocci ammaestrati” dell’Occidente, ma autentici dirigenti dei loro popoli.
Se ci fosse una vera sinistra europea dovrebbe aiutare queste forze a tornare, a dar loro, e ai tanti giovani cresciuti nella diaspora, la possibilità d’impegno nei paesi arabi. Per non lasciarli morire di nostalgia a Parigi.
24 …Alla base del conflitto fra Occidente e Oriente islamico c’è, dunque, un’incomprensione di carattere storico e culturale che non può essere risolta con l’opzione militare, con lo scontro di civiltà – come taluno propone- ma solo sulla base dello scambio economico e culturale e della conoscenza reciproca.
Oggi, specie ai livelli più alti del potere e del sapere, Occidente e Oriente islamico si percepiscono come nemici,
In Occidente si vede il mondo arabo come un’entità monolitica, indistinta, caratterizzata soltanto dall’elemento religioso.
Non si riesce a vedere oltre il dato religioso, oltre l’Islam, per altro considerato in un’accezione negativa, senza riuscire, cioè, a scomporre questo mondo in culture, nazioni, Stati, popoli, individui.
D’altra parte, in Oriente, specie gli islamisti radicali, prevale una visione deformata dell’Europa e degli Usa, visti come luoghi da cui si originano i mali attuali del mondo e i fenomeni del neo-colonialismo e dello sfruttamento degli uomini e delle risorse del terzo e quarto mondo.
Senza distinguere fra forze dominanti, di governo e masse popolari occidentali anch’esse vittime delle politiche neo-coloniali.
In realtà, Occidente e Oriente islamico si conoscono poco e male. Oggi ancor meno di ieri.
Perdurando questo deficit di conoscenza reciproca, due agguerrite minoranze estremiste potrebbero imporre il loro disastroso punto di vista a due sterminate maggioranze: ossia lo scontro di civiltà.