di Salvo Barbagallo
Mentre passa “quasi naturalmente” inosservato e dimenticato l’anniversario (6 agosto 1945) della bomba atomica USA sganciata su Hiroshima, che provocò oltre centomila morti, oggi l’Italia si trastulla sull’uso delle basi italiane da concedere alle forze aeree statunitensi che devono operare in Libia per colpire gli insediamenti dell’Isis nella Sirte.
Trastullarsi? Secondo il dizionario italiano Sabatini Coletti, significa perdere tempo, protrarre inutili passatempi senza svolgere il proprio dovere… Questa definizione è da applicare al Governo italiano e, in particolare, al ministro della Difesa Roberta Pinotti? Non sta a noi dare risposta all’interrogativo: dovrebbero rispondere, infatti, tutti gli Italiani e tutti i Siciliani.
A noi non compete entrare nel merito delle decisioni che la cosiddetta Coalizione internazionale prende in riferimento alla lotta allo “Stato” islamico jihadista e in merito alla lotta al terrorismo: strategia e politica vanno di pari passo e le responsabilità (volente o nolente) sono di coloro che “decidono”.
Noi, come abbiamo scritto da anni, cerchiamo di mettere in evidenze ambiguità e discrepanze nelle dichiarazioni che i vari governanti fanno piovere sui cittadini “comuni” utilizzando i mass media. E i cittadini “comuni” (che ancora e nonostante tutto conservano la capacità del raziocinio) le domande se le pongono anche se, alla fine, non possono esternarle nel modo dovuto.
Per noi la questione che resta sul tappeto (e ci riferiamo soltanto alla Sicilia) non riguarda esclusivamente l’uso delle installazioni militari che portano ancora il Tricolore, nella lotta all’Isis, ma la permanenza stabile di forze militari straniere (quelle statunitensi, se pur “alleate”) sul territorio “nazionale” che hanno operato e che operano in maniera autonoma con i loro mezzi. Basti citare i casi di Sigonella, Augusta e Niscemi.
A Sigonella la Naval Air Station – base della Sesta Flotta USA nel Mediterraneo – agisce da decenni, e da diversi anni ha in dotazione i droni Global Hakws e da recente i droni Predator che si alzano in volo (dalla pista “Italiana”) per missioni ignote. Nel porto di Augusta attraccano periodicamente (e dai depositi si riforniscono di munizionamento) sottomarini nucleari. A Niscemi (evitata la bagarre giudiziaria…) opera il MUOS, impianto di trasmissione satellitare della US Navy, la cui realizzazione è costata decine e decine di miliardi dollari. Che si parla a fare, quindi, di “concessione d’uso” ad hoc per la Libia, quando l’uso di queste installazione è già stato concesso da tempo? La Pinotti non se l’abbia a male: tutto ciò sembra una clamorosa presa in giro degli Italiani e dei Siciliani!
E per avere le idee più chiare si dovrebbe leggere Difesa Online che due giorni addietro (5 lagosto) ha pubblicato, a firma di Giampiero Venturi, un’analisi approfondita della situazione, dal titolo
Libia senza pace: dietro ai raid USA c’è il falso problema dell’ISIS
di Giampiero Venturi
L’inizio dei bombardamenti americani a Sirte contro le forze del Califfato contribuisce a fornire una lettura semplificata e polarizzata della guerra civile. Da una parte il terrorismo, dall’altra chi lo combatte.
Lo scenario effettivo configurato ad oggi è sostanzialmente diverso e ci descrive un Paese preda del caos e della violenza.
Partiamo dalle ultime notizie dal campo: secondo i dati forniti da Africom, dal 1° agosto grazie ai raid USA sarebbero stati distrutti due carri armati, 5 veicoli blindati e una serie imprecisata di postazioni difensive dello Stato Islamico. Nel quadro libico l’aggiornamento lascia il tempo che trova.
Di rilievo politico è invece la conferma italiana di prestare le basi alle operazioni USA: si ripete in sostanza lo scenario di Unified Protector del 2011, con obiettivo finale diverso ma dagli sviluppi se possibile ancora più confusi.
I raid americani rientrano nel piano generale di ridimensionamento dello Stato Islamico, dall’inizio del 2016 (anno elettorale) avviato in modo inequivocabile sia in Siria che in Iraq. Sulle possibili prospettive successive alla neutralizzazione del Califfato, rimangono però fittissime nubi. Ciò che viene drammaticamente eluso dai media internazionali è che il vero nodo da sciogliere in Libia non è la presenza, tra l’altro marginale, dell’ISIS ma l’effettiva riconciliazione nazionale, ad oggi sostanzialmente impossibile.
A questo proposito ha un certo valore politico l’uccisione con un’autobomba a Bengasi di 28 soldati del generale Haftar, uomo forte del governo di Tobruk. L’attentato è stato rivendicato dal Consiglio della Shura della città, in altre parole dal cartello islamista che contende alle milizie di Haftar il controllo della seconda città della Cirenaica.
L’esercito del generale Haftar è armato dall’Egitto e seppur a volte in contrasto con gli stessi politici di Tobruk di cui è ufficialmente il braccio armato, rappresenta oggi in Libia l’unica forza apertamente schierata contro tutti i gruppi fondamentalisti islamici, senza distinzioni: sia Alba Libica che raggruppa gli islamisti ora integrati nel governo riconosciuto dall’ONU di Al Sarraj, sia l’ISIS. A questi si aggiungono i terroristi di Ansar al-Sharia, considerati tra i gruppi integralisti più radicali.
Come più volte rilevato su questa rubrica, le alleanze che caratterizzano la guerra civile libica non si basano su assunti ideologici, né politici, ma su convenienze militari del momento. Insieme alle forze del governo Al Serraj combattono le milizie di Misurata, gelose della propria origine antigheddafiana, ma sul cui livello di penetrazione del fondamentalismo islamico c’è poca chiarezza. Le stesse forze di Ansar al-Sharia presenti a Bengasi e in guerra contro Tobruk, non nascondono di combattere al fianco di Tripoli.
Allo stato attuale le milizie del Califfato, arroccate intorno ai palazzi del Ougadougou centre a Sirte, terra natale dell’ex raìs libico, sono sotto attacco delle forze di Tripoli riconosciute in sede internazionale come esercito regolare, delle milizie misuratine e, almeno fino a ieri, del generale Haftar, ex CIA ma caduto in disgrazia a Washington. A tutto questo si aggiungono i raid americani degli ultimi giorni e le minacce di intervento a terra.
Un’eventuale e probabile sconfitta del Califfato sul suolo libico sarebbe in realtà la soluzione a un falso problema. Al di là dell’obiettivo raggiunto da dare in pasto ai media, rimarrebbe in ogni caso il problema dell’islamizzazione delle istituzioni di Tripoli, del ruolo di Tobruk e dell’assoluta frammentazione del territorio nazionale. Soprattutto il saccheggio delle risorse energetiche e il controllo dei fenomeni di migrazione di massa da parte di cartelli criminali, rimarrebbe inalterato.
Al largo delle coste libiche, nel Canale di Sicilia, incrocia intanto la nave da guerra anfibia USS Wasp e nella base di Sigonella aumenta il via vai di marines USA.
In attesa di evoluzioni del quadro politico e militare ricordiamo ancora una volta la profetica minaccia di Gheddafi, datata 2011: “Dopo di me, il caos”.
DIFESA ONLINE 5 AGOSTO 2016