Per potere capire, o meglio, per potere interpretare la realtà siciliana d’oggi è utile, se non indispensabile, volgere uno sguardo al passato quando si analizzavano le possibili prospettive del futuro, indicando le soluzioni praticabili. La “memoria” di un giornale a riguardo è uno strumento eccezionale, non solo perché fa rivivere ciò che è stato, ma soprattutto perché pone a confronto momenti che appartengono a diversi livelli temporali. Quel che è scritto rimane, difficilmente è cancellabile: resta una testimonianza della quale bisogna tenere conto. Ecco perché oggi poniamo in primo piano un articolo pubblicato da La Voce dell’Isola dieci anni addietro, “trascurando” o “tralasciando” di parlare del terrorismo jihadista, delle nuove misure di sicurezza adottate dal Governo nazionale, della guerra in Libia a due passi da casa nostra dove già operano militari italiani, dei continui sbarchi di migranti/profughi nei porti siciliani, e di quant’altro la cronaca quotidiana ci regala. Riteniamo interessante, dunque, riproporre questo articolo che parla sicuramente di una situazione politica non rispondente ai canoni attuali, ma che mostra chiaramente che se pur sono cambiati i “soggetti” protagonisti e responsabili della vita della collettività, le ragioni di fondo del mancato sviluppo della Sicilia sono rimaste inalterate. Come dire: nonostante che il tempo è trascorso inesorabilmente, mutano solo nomi ed etichette, tutto rimane come prima, anche se si conosce bene ciò che si può e si dovrebbe fare.
Il “vittimismo” oggi non è utile al Sud
Per decenni la Sicilia ha potuto fruire di proprie risorse e di aiuti provenienti dal governo nazionale, nell’ambito dei programmi di eliminazione del divario Nord-Sud. Ora ci accorgiamo che le nostre risorse sono diminuite e che i finanziamenti a pioggia per il Mezzogiorno, avendo portato insieme al benessere anche corruzione e criminalità, in qualche misura hanno costituito un ostacolo allo sviluppo economico e sociale. La nostra regione si trova in difficoltà che le classi dirigenti, ancora viziate dallo stato assistenziale e dal rivendicazionismo, non riescono a decifrare. Si moltiplicano le proteste e i proclami, si invoca a vuoto il patriottismo siciliano, quando sarebbe necessaria, se non una autocritica, almeno un’opera di ricognizione, partendo dall’esame delle difficoltà, passando alle ragioni del loro essere e venendo poi alle proposte.
Quali sono le nostre risorse?
L’agricoltura siciliana, stretta nella tenaglia dei vincoli comunitari e della concorrenza dei Paesi del Mediterraneo, è in profondissima crisi. Il commercio, l’industria, il credito e la finanza sopravvivono in condizione di subordinazione nei confronti delle grandi imprese del Nord.
Il turismo, che pure sarebbe una seria risorsa, è lasciato prevalentemente all’improvvisazione, senza guida e senza controlli.
Poiché dunque non abbiamo una nostra base economica autonoma, la risposta è che le risorse vengono per noi prevalentemente da decisioni prese fuori della Sicilia.
Avendo ancora un notevole patrimonio umano di cultura, ingegnosità e di carattere, è possibile per noi cavarcela da soli?
La società siciliana non fornisce più guide autorevoli, almeno dalla scomparsa di Leonardo Sciascia; in queste condizioni nessuna ripresa è possibile. Senza basi economiche autonome e senza leader autorevoli, una società è destinata alla stagnazione. Lo stallo politico della Sicilia, governata a Palermo da una maggioranza di centrodestra con a Roma un governo di centrosinistra, è la dimostrazione della debolezza, economica, politica e culturale della nostra Isola. La confusione è tale, che la contestazione ai poteri dominanti, rappresentati dal governo Cuffaro, non viene espressa dalle minoranze, bensì dal movimento autonomista dell’on. Lombardo, che è parte integrante del medesimo governo.
Il richiamo al patriottismo siciliano tocca una corda sensibile per tutti noi; quando nel secondo dopoguerra fu invocato contro i poteri internazionali e nazionali centrali ebbe una sua autentica dignità. Quanto è autentico quello di oggi? Il rivendicazionismo urlato di questi giorni può essere una alternativa alla stagnazione? Il “vittimismo meridionalista”, che non si è mai dimostrato utile per il Sud, non può essere una risorsa per la Sicilia: oggi, anzi, è il suo problema più urgente da risolvere.
Il fenomeno del trasformismo meridionale è vecchio. Giovanni Giolitti ne fece uno strumento di stabilità dei suoi governi, con quell’accordo denominato “compromesso”, perché consentiva al Nord di promuovere un lungimirante progetto di modernizzazione e industrializzazione, al prezzo della stagnazione del Sud, voluta dai parlamentari meridionali, provenienti tutti dal ceto agrario e da quello professionale al suo servizio, che in cambio del loro sostegno ai governi Giolitti ottennero di non essere molestati. Così i rappresentanti del Meridione e della Sicilia diventarono progressisti a Roma, rimanendo conservatori in Sicilia. Da quel momento la loro sopravvivenza politica ed economica dipese dal governo nazionale e dai “poteri forti” del Settentrione.
Per la difesa della rendita agraria, destinata ad essere presto annullata dal processo di industrializzazione e di liberalizzazione dei mercati, i notabili meridionali si collocarono in posizione di retroguardia, disponibili troppo spesso alla pratica degenerata del voto di scambio, che venne denominata ”ascarismo”.
I notabili siciliani si adoperavano per la tutela dei privilegi del loro ceto, alzando il vessillo della sicilianità, sempre utile per creare suggestioni.
Scriveva Gastone Manacorda (“Potere e Società in Sicilia nella crisi dello Stato liberale”. G. Barone, S. Lupo, R. Palidda e M. Saja, ed. Pellicanolibri, 1977) che “nella storia dell’ideologia sicilianista è costante l’elemento difensivo, conservatore, che raccoglie una larga massa di consensi, mediante la sollecitazione del sentimento della “nazione siciliana”. Ma proprio per questo suo carattere di falsa coscienza, il sicilianismo come mito è esposto reiteratamente ad essere utilizzato dalle varie forze, che, all’interno del blocco, mettono in moto processi obiettivi incompatibili nel lungo periodo con il monopolio del potere della grande proprietà terriera”. “Il sicilianismo, proprio per la sua natura di piccolo nazionalismo isolano, è sempre disponibile ad assumere contenuti nuovi, o meglio, ad adattarsi alle situazioni che via via emergono pur di servire ai fini che costituiscono la sua stessa ragion d’essere: di identificare < i siciliani > con le classi dominanti nell’isola”.
Il professore Manacorda scriveva quando in Sicilia l’ultima generazione della borghesia terriera condivideva il potere con i protagonisti dell’industrializzazione legata al petrolchimico pubblico. Oggi quella borghesia, travolta dalla liberalizzazione dei mercati e dalla politica della Cee, non esiste più e il sicilianismo, adottato come mezzo di mera seduzione elettorale, è stato ereditato da un nuovo ceto dominante, costituito dal sodalizio di imprenditori di opere e di servizi pubblici, medici, ingegneri, dirigenti di enti pubblici e da politici di professione, tutti interessati esclusivamente a trarre alimento dalla spesa pubblica. La gestione delle risorse pubbliche in funzione politica è il mezzo attraverso il quale le classi politiche della Sicilia si garantiscono il consenso e, nella condizione di deficit di altre basi economiche, il controllo della spesa pubblica garantisce la perpetuazione di quel sodalizio, anche per generazioni, senza possibilità di ricambio.
Non è casuale che, come ai tempi di Giolitti, ancora oggi in Sicilia l’orientamento politico è sempre conservatore, anche quando il Paese è retto da una maggioranza progressista. Il sicilianismo nella pratica politica continua ad essere adoperato per operazioni trasformistiche, a compimento delle quali il consenso elettorale viene impiegato per l’acquisto di posizione di potere di terza o quarta fila, prive di autorevolezza, perché viziate all’origine dallo scambio, e nella sostanza subordinate a logiche di potere del tutto indifferenti ai problemi della Sicilia, finanche apertamente ostili, come quelle della Lega Nord.
Dopo la scomparsa di Sciascia, la Sicilia sembra senza guida, abbiamo detto. Lo scrittore e politico di Racalmuto incarnava, come Crispi, Nitti, Amari, Pirandello, Sturzo la parte raziocinante dello spirito dei siciliani. La sua passione per l’Isola era temperata dalla consapevolezza di una peculiare natura, di quella atavica “corda pazza” dei suoi conterranei, nei confronti dei quali manteneva un pudico distacco, molto “borghese”. In una regione dove è mancata la rivoluzione borghese e le gli appartenenti alle classi medie sono passate dal servizio della rendita agraria direttamente a quello della rendita politica della spesa pubblica, i “borghesi” alla Sciascia dovrebbero essere come mosche bianche. Ma non è così.
Il livello di istruzione negli ultimi decenni si è elevato notevolmente, sono nate nuove professioni e nuove attività che vogliono svilupparsi senza soggezione e rifiutano di partecipare al parassitismo della rendita politica.
C’è una nuova borghesia intellettuale e imprenditoriale che preferisce operare nei club service o nelle logge, ed a cui, come a Sciascia, il pudore impedisce di uscire allo scoperto. A questa cittadinanza dobbiamo chiedere di prendere la guida della Sicilia. La rivoluzione borghese finalmente deve avvenire anche qui.
I ceti intellettuali e produttivi che si sono tradizionalmente organizzati in Sicilia nella massoneria e nei club service non hanno sino ad ora svolto il ruolo che da loro ci si attendeva. Al contrario hanno funzionato da strumenti di controllo sociale a favore dei ceti dominanti, in posizione subordinata. A dispetto dell’alto livello culturale e spirituale delle persone che vi hanno operato e che vi operano, hanno svolto un ruolo di conservazione e di egoismo, quando le finalità delle loro associazioni propugnavano il progresso e la solidarietà. Il più delle volte ciò è dipeso da quella forma di tolleranza che in Sicilia facilmente diventa fatalismo. Solo così si può spiegare la mancanza di un ruolo di punta di questa parte della cittadinanza nella difesa dello Statuto della Regione Siciliana, nella lotta contro la mafia e contro le altre manifestazioni di inciviltà ed arretratezza che impediscono lo sviluppo della Sicilia.
Ora, nello stallo in cui ci troviamo, il ceto intellettuale e produttivo della Sicilia non può rimanere inerte, né tollerare che una minoranza occupi le istituzioni e metta le mani sulle risorse umane ed economiche della Sicilia per farne merce politica di scambio, mettendo in cattiva luce anche l’intero popolo siciliano.
Gli appartenenti al ceto medio ed alla borghesia, che in tempi di diffusa miseria, prima del tumultuoso sviluppo degli ultimi decenni, erano una minoranza di privilegiati, oggi sono la grande maggioranza dei siciliani. Lo sviluppo economico e la diffusione dell’istruzione hanno eliminato la odiosa suddivisione in classi. Possiamo dire che oggi tendenzialmente siamo tutti borghesi e tutti apparteniamo al ceto medio: una grande forza e non una cerniera mediatrice al servizio dei potenti.
Una nuova classe dirigente esiste, ma ancora solo potenzialmente, perché non ha ancora strumenti e spazi per operare. Gli strumenti potranno essere elaborati nelle sedi associative e nelle comunità già esistenti, ma soltanto dopo una costituente regionale, dove dovranno essere definitivamente archiviate giaculatorie e rivendicazioni del frusto vittimismo meridionale e invece stabiliti i principi in forza dei quali una regione d’Europa intende presentarsi nella platea mediterranea ed in quella internazionale come soggetto propositivo.
La Sicilia, con la sua tradizione di umanità e tolleranza, il suo spirito di accoglienza, le sue università, le sue risorse umane, tecnologiche e produttive, i suoi numerosi e comodi scali marittimi ed aerei, la sua posizione strategica nel circuito di sviluppo delle aree mediterranea, mediorientale ed orientale, ha ruoli da svolgere e non assistenze da rivendicare.
Nella missione che abbiamo da assolvere non saremo noi a dover chiedere agli altri, ma gli altri a poter chiedere a noi.
LA VOCE DELL’ISOLA
9 dicembre 2006
complimenti per avere riproposto l’attualissima riflessione sulla Sicilia, e per sposare quelle posizioni (rare) critiche sulla reale condizioni dell’Isola e dei siciliani.