L’architetto Aldo Loris Rossi ha una soluzione anti terremoto radicale: rottamare quella che definisce “la spazzatura edilizia italiana post-bellica, senza qualità e efficienza antisismica”. Poi serve rileggere Thornton Wilder e Ignazio Silone
Di Valter Vecellio
Architetto, docente di Progettazione Architettonica alla Facoltà di Architettura dell’Università di Napoli, allievo di Frank Lloyd Wright, uno dei maestri del Movimento Moderno Architettura. Questa la “carta d’identità” di Aldo Loris Rossi, che da anni è convinto sostenitore di una proposta radicale apparentemente utopica, sicuramente “rivoluzionaria”: rottamare senza “se” e senza “ma” quella che definisce “la spazzatura edilizia italiana post-bellica, senza qualità, interesse storico ed efficienza antisismica”. Un qualcosa di ciclopico che riguarda almeno 40mila vani costruiti tra il 1945 e il 1975. Una follia. Un paese che non ha il becco d’un quattrino, che fra un po’ tasserà anche l’aria che si respira… “Con la mia proposta”, replica sicuro, “lo Stato riuscirebbe a risparmiare: bisogna ricostruire tutto secondo criteri come quelli usati in Giappone, invece che cercare di rimediare dopo ogni disastro e terremoto”. Al mio sguardo stupito, snocciola cifre: “Per limitarci ai soli ultimi importanti terremoti: Belice, Friuli, Irpinia, Umbria, Abruzzo, Emilia. I costi per la ricostruzione di un chilometro quadrato di area colpita oscillano tra 60 e 200 milioni di euro; il costo medio della ricostruzione di un singolo comune varia tra i 270 e i 1400 milioni di euro; il costo medio per abitante residente nell’area colpita oscilla tra 270mila e i 783mila euro. I costi dei terremoti e dei disastri ambientali tra il 1968 e il 2003 oscillano sui 146 miliardi di euro. L’Italia è un paese estremamente vulnerabile: il 44 per cento del territorio è in condizione di elevato rischio sismico; significa il 36 per cento dei comuni italiani, oltre 21 milioni di persone. E questo senza considerare i costi in termini di vite umane e il patrimonio culturale che viene distrutto”.
Loris Rossi è una miniera di dati. Quanti per esempio ricordano che l’Italia è stata colpita da almeno 30 terremoti distruttivi, di magnitudo intorno a 7, che hanno prodotto moltitudini di morti e rovine infinite? Che poco più di tre secoli fa (era il 1693), un terremoto ha distrutto Catania, Siracusa, Ragusa, Modica e tutta la Val di Noto? Che due secoli dopo (era il 1908), un terremoto ha distrutto Messina e le Calabrie, uccidendo 100mila cittadini? Che oggi, in Sicilia, lo splendore del barocco nasconde situazioni di estrema vulnerabilità? Quanti sanno dei terrificanti clustering che hanno colpito più volte la Calabria – 2 e addirittura 3 terremoti distruttivi in soli due mesi, prima nel ‘600 e poi a fine ‘700, mentre fra i due terremoti catastrofici del 1905 e del 1908 passarono solo 3 anni?
Tutto questo ci riporta ad Aldo Loris Rossi, alla sua rivoluzionaria “utopia”: “Anche se si può sembrare dei don Chisciotte che muovono guerra ai mulini a vento, vale la pena di insistere e agitare la questione”.
Mentre la televisione mostra le immagini delle devastazioni del terremoto un’automatica associazione di idee porta a Thornton Wilder, lo scrittore il cui nome è legato a The Bridge of San Luis Rey, Our Town, The Skin of Our Teeth, per i quali, meritatamente, viene insignito di tre premi Pulitzer.
The Bridge of San Luis Rey, in particolare. Racconta di un gruppo di persone che nel 1714 si trovano sullo stesso ponte nel momento in cui crolla, e li uccide. Il ponte è la più importante via di collegamento per gli abitanti di Lima e Cuzco, in Perù; crolla improvvisamente, causa la morte di cinque persone. Fra’ Ginepro, un frate che si accinge ad attraversarlo, assiste all’accaduto, sconvolto dalla tragedia, si pone domande di carattere religioso e morale: chi sono quei cinque, perché si trovano proprio lì? Cerca di risalire alle cause del crollo del ponte, la curiosità lo porta a ricostruire le vite dei cinque deceduti: hanno qualcosa in comune? Nasce un problema morale su cui si pronuncia anche la Chiesa e che chiama in causa la Provvidenza: si tratta di una tragedia o di una punizione divina, che fa incrociare i destini dei cinque nel medesimo luogo alla medesima ora? Insomma: i quesiti, posti sull’eterna condizione umana e sulla morte, sulla misteriosa complicità di caso e destino.
Da Wilder a Ignazio Silone, la sua Uscita di sicurezza. Nel 1915 un violento terremoto devasta l’Abruzzo, in trenta secondi uccide trentamila persone. Quel che più sorprende scrive Silone è con quanta naturalezza i paesani accettassero la catastrofe: “In una contrada come la nostra, in cui tante ingiustizie rimanevano impunite, la frequenza dei terremoti appariva un fatto talmente plausibile da non richiedere ulteriori spiegazioni. C’era anzi da stupirsi che i terremoti non capitassero più spesso. Nel terremoto morivano infatti ricchi e poveri, istruiti e analfabeti, autorità e sudditi. Nel terremoto la natura realizzava quello che la legge a parole prometteva e nei fatti non manteneva: l’uguaglianza. Uguaglianza effimera. Passata la paura, la disgrazia collettiva si trasformava in occasione di più larghe ingiustizie…”.
La storia ha un divertente, amaro, seguito: “Cominciai allora a riflettere seriamente sull’opportunità di promuovere, con qualche ragazzo, una nuova “rivoluzione” che si concludesse in un bell’incendio degli uffici; ma il conoscente che mi aveva fornito la documentazione sulle malefatte degli ingegneri mi dissuase dal farlo, per non distruggere la prova stessa dei reati. Egli aveva più anni e più esperienza di me; e mi suggerì di formulare la denuncia su qualche giornale. Ma quale giornale? «Ve n’è uno» il mio conoscente mi spiego «che può avere interesse a ospitare una simile denuncia, è il giornale dei socialisti.» Fu così che io scrissi tre articoli (i primi articoli della mia vita) per esporre e documentare minuziosamente i loschi affari degli ingegneri statali nella mia contrada, e li spedii all’«Avanti!». I primi due articoli furono subito stampati e suscitarono grande scalpore presso il pubblico dei lettori, ma nessuno presso le autorità. Il terzo articolo non apparve, come seppi più tardi, per l’intervento presso la redazione di un autorevole avvocato socialista. In tal guisa appresi che il sistema d’inganno e di frode che ci opprimeva era assai più vasto di quello che appariva, e aveva invisibili ramificazioni anche tra i notabili del socialismo. La parziale denuncia, avvenuta di sorpresa, conteneva però materia per vari processi, a almeno per un’inchiesta ministeriale; invece non accadde nulla. Da parte degli ingegneri, da me denunziati come ladri e accusati di fatti esplicitamente indicati, non vi fu neppure il tentativo di una rettifica o di una generica smentita. Dopo una breve attesa, ognuno tornò a pensare ai fatti propri. Lo studente che aveva osato lanciare la sfida fu considerato, dai più benevoli, ragazzo impulsivo e strambo…”.
Bene, si è anche troppo divagato. Non tanto però, a ben vedere: le emergenze che non sappiamo (vogliamo?) prevenire; la casualità e l’aleatorietà a cui tutti siamo “appesi”; la “filosofia” che subentra dopo i primi momenti della tragedia, ottimamente riassunta nel vecchio detto: “Il morto giace, chi è vivo si dà pace…”.
La Voce di New York 25 agosto 2016