di Valter Vecellio
Locarno. Il bello (e il buono) dei festival del cinema, quando non si tratta di mere parate di stelle a uso blockbuster, è che capita di poter vedere (e apprezzare) anche opere di valore artistico, capaci di affrontare questioni spinose, difficili, che pongono domande non eludibili, e sollecitano risposte non banali, scontate. Come, ad esempio, il festival di Locarno, giunto alla rispettabile sessantanovesima edizione.
Si prenda il caso di “Le ciel attendra”; tratta una questione particolarmente attuale: il fenomeno ISIS e del radicalismo islamico, dal punto di vista di due madri francesi che cercano a tutti i costi contrastare i patologici impeti fondamentalisti delle loro figlie, Mélanie e Sonia, che attraverso i social sono state “arruolate” e vogliono partire per la Siria e da lì combattere per la jihad.
Mélanie ha sedici anni. E’ una ragazza come tante: va bene a scuola, studiare le piace; non è una musona, ha molte amiche, sa farsi voler bene, suona il violoncello con successo, è animata da lodevoli intenzioni e afflati: vuole fare la sua parte, per raddrizzare le storture che la circondano; del resto se a sedici anni non si ha un po’ l’ambizione di cambiare il mondo, cosa si è giovani a fare? A sedici anni si hanno anche i primi innamoramenti; nel caso di Mélanie si tratta di un ragazzo, che conosciuto via internet. In realtà, come vedremo, è un adescamento bello e buono; ed ecco che la realtà di Mélanie cambia, si trasforma,: la ragazza si fa attirare nella magmatica rete dell’estremismo fanatico islamista.
Il percorso di Sonia è diverso: lei si fa sedurre dalla promessa che con il suo “sacrificio” lei e la sua famiglia si guadagneranno un sicuro posto in Paradiso; e in virtù di questa promessa accetta di entrare in un perverso gioco di morte. In nome di una idea di religione, ripudia tutte le altre idee; la scelta è radicale ed estrema, di “idea” ce n’è una sola, e non c’è spazio per altre. In una parola, la certezza unica spazza via ogni possibilità di dubbio. Non c’è più spazio e possibilità per confronti, ripensamenti.
Mélanie e Sonia, ma potrebbero essere Anais, Manon, Leila, se siamo in Francia; o loro equivalenti, in altri paesi, Germania, Regno Unito, Spagna, Italia… “Le ciel attendra” è la storia di due ragazze che sono quelle, come si diceva un tempo, della porta accanto; potrebbero essere tranquillamente le figlie amiche delle nostre figlie; le nostre figlie stesse, o nipoti; o comunque quelle ragazze che accade di incontrare in un cinema o in un pub, per strada. Anche questo è un volto della “banalità del male”.
“Le ciel attendra” non mostra attentati, bombe, kamikaze che si fanno esplodere, stragi. E’ una “storia semplice”, e il pregio consiste proprio in questa “semplicità”: nel mostrarci una realtà di cui forse non si è del tutto consapevoli e che si fatica a mettere a fuoco. Un film che mostra come viene visto il fenomeno ISIS da un universo giovanile, e “racconta” come può avvenire, sotto i nostri occhi, e senza che ce ne si renda conto, il progressivo processo che porta molti giovani a diventare docili strumenti di distruzione e di morte. Un film coraggioso, che fa riflettere, senz’altro l’opera più matura di Mention-Shaar, aiutata dalle intense interpretazioni di un cast pressoché tutto femminile: Clotilde Courau, Sandrine Bonnaire, Noémie Merlant, Naomi Amarger, Zinédine Soualem.
“Pescatore di corpi” di Michele Pennetta può giustamente essere inserito nel filone delle pellicole “civili” che hanno caratterizzato la cinematografia italiana degli anni Settanta. Pennetta, nato a Varese, classe 1984, master in regia cinematografica conseguito all’Ecole cantonale d’art de Losanne, già in passato si è fatto notare con “I cani abbaiano”, del 2010: film selezionato al festival del “Cinèma du Rèel” di Parigi, e al “Torino Film Festival”; il successivo “’A iucata”, del 2013 è presentato a Locarno nella selezione “Pardi di domani”, vincitore del Pardino d’oro. Quest’anno è la volta di “Pescatori di corpi”, il suo primo lungometraggio. Si comincia con l’ “Alba Angela”, un peschereccio che galleggia nel mezzo del canale di Sicilia… Il capitano impartisce l’ordine all’equipaggio di spegnere luci e motore. La polizia non tarderà a passare, a causa dell’ennesimo sbarco di immigrati clandestini. L’equipaggio, ligio agli ordini ricevuti, ritira le reti, e attende in silenzio, avvolto nell’oscurità della notte. Contemporaneamente nel porto di Catania Ahmed cerca un modo per lasciare la barca abbandonata che è diventata da cinque anni la sua casa. Lontano, ma non troppo, ecco un cargo, che scarica il suo carico di “clandestini”… Sta facendo giorno, e l’ “All’alba Angela” attracca nel porto, Ahmed potrebbe toccarne, volendo, gli ormeggi. Il peschereccio illegale, il suo equipaggio che non si fa troppe domande, il clandestino che ogni giorno si guadagna la vita con le unghie e coi denti, sullo sfondo una Catania che ignora, non vede, lascia indifferente che queste realtà convivano”.
Il film precedente, “’A iucata”, racconta il mondo delle corse clandestine dei cavalli, una realtà diffusa e conosciuta; perfino tollerata, e con grandi interessi in ballo. Ogni tanto qualche retata, qualche sequestro, più che altro perché qualcosa bisogna pur fare, se si vuol dire che qualcosa si fa. Con “Pescatori di corpi” Pennetta è al secondo episodio di quella che vuole essere una trilogia che ha per tema la clandestinità. E’ un film sull’indifferenza, in questo caso dei pescatori clandestini nei confronti dei migranti. Pennetta racconta il fenomeno migratorio da un punto di vista “altro”, diverso da quelli cui ci ha abituato la televisione. E’ anche un film duro, radicale nel contenuto, che inquieta, e questo senza fare ricorso a quelle immagini crude, di morte e disperazione come mille volte siamo ormai abituati a vedere in notiziari e inchieste televisive. “Per scelta non mostro mai immagini fin troppo abusate di corpi che galleggiano e neppure degli sbarchi dei migranti”, dice Pennetta. Ma certe inquadrature dai toni soffusi e dagli accenti sommessi sono il segno di una cinematografia ben assimilata, che sa far tesoro di magistrali esperienze con pazienza sedimentate.
Un film molto “semplice”, didascalico, perfino. Quelle giornate scandite dalle telefonate di Ahmed ai familiari rimasti intrappolati in Siria; i volti inespressivi e induriti di quell’equipaggio, che tra pesci e crostacei trova impigliati nelle sue reti gli indumenti di chi non ce l’ha fatta, e attende la chiamata della guardia costiera o della finanza per prendere parte ad eventuali salvataggi, ecco non hanno bisogno di alcuna “didascalia”: sono immagini forti per come sono, e “descrivono” la quotidiana tragedia che si consuma in quel braccio di mare tra Sicilia e coste africane. Un mondo popolato da profughi disperati, naufraghi le cui vite sono sospese tra un passato fatto di fame, dolore, oppressione; e un futuro incerto e comunque difficile. E sotto quel mare, travolti da quelle onde, i corpi di centinaia, migliaia di persone.
Trilogia si diceva. Pennetta ci sta già lavorando. Si intitolerà “L’oro del diavolo”, le riprese inizieranno nella primavera del 2017. Tratta dello stoccaggio dei rifiuti tossici nelle miniere di zolfo dismesse in provincia di Caltanissetta e Enna. Protagonista sarà la miniera con alcuni personaggi di contorno: un minatore clandestino, due ragazzi che cercano cave per stoccare i rifiuti, un pastore che vive vicino alla miniera.
C’è da augurarsi che questi film trovino una distribuzione altrettanto coraggiosa, che la loro proiezione non sia limitata a piccole sale specializzate.