di Valter Vecellio
Difficile gestire le inchieste che seguono terremoti o alluvioni
Ti aggiri per le macerie di Amatrice e degli altri borghi sconvolti dal terremoto, visioni il materiale filmato, leggi i servizi realizzati dagli altri colleghi, le cronache sui giornali. Poi l’inevitabile girandola di parole, promesse, larvate accuse, il vescovo di Rieti che punta il suo dito, le vittime da imputare all’opera (o alla mancata opera) dell’uomo, e non tanto alla “natura”; l’altra eminenza che chiede conto a Dio dov’è, cosa fa, perché assiste ai tanti drammi che si consumano e lascia che sia…
Per bizzarria di associazione, tornano in mente i versi di una lirica appresa a scuola, quando ancora la scuola ti faceva imparare a memoria le poesie. È quella di Giuseppe Ungaretti, San Martino sul Carso. Sullo sfondo c’è la prima guerra mondiale, i suoi orrori a lungo nascosti sotto la coltre dei vittoriosi bollettini alla Armando Diaz; è quello l’evento che turba Ungaretti, che l’ha vissuto in prima persona. Ma sono versi che ben descrivono il senso di vuoto e di sgomento, di pietas per il tanto dolore e smarrimento che si colgono in uno sguardo, un gesto, la richiesta di una carezza, quale che sia la tragedia che incombe:
“Di queste case
non è rimasto
che qualche
brandello di muro
dei tanti
che mi corrispondevano
non è rimasto
neppure tanto
ma nel cuore
nessuna croce manca
è il mio cuore
il paese più straziato”.
Indagini a tutto campo, fanno sapere in procura. Giuseppe Saieva, che guida il pool di magistrati che deve accertare colpe, responsabilità, omissioni, speculazioni e come e perché è accaduto quello che accadere non doveva, promette che a ogni crollo corrisponderà un fascicolo: è da immaginare che saranno oltre cento, i procedimenti su cui si intende lavorare. Non sarà facile riuscire a coniugare meticolosità, prudenza, rapidità di intervento e soprattutto evitare, come nel passato, indiscriminate cacce all’untore. Tutti colpevoli, nessun colpevole, dice un vecchio detto, quanto mai adatto per inchieste complesse come queste. È giusto chiedere che giustizia sia fatta; umana, umanissima, la richiesta di accertare le responsabilità per l’accaduto e i colpevoli. Bisogna però mantenere il giusto passo. È accaduto spesso che inchieste per analoghi disastri siano partite con un’enfasi favorita anche dai mezzi di comunicazione, ma abbiano alimentato aspettative che poi non sono state corrisposte. Vuoi per i tempi lunghi della giustizia che si sono tradotti in amare prescrizioni; vuoi perché al dunque si sono effettivamente accertate le responsabilità, e molti degli iniziali indagati successivamente sono stati assolti perché risultati innocenti, estranei ai fatti.
Facciamo il caso del terremoto dell’Aquila. La procura ha istruito circa duecento fascicoli d’inchiesta sui crolli. Sette anni dopo, i dibattimenti aperti sono diciannove, meno di dieci le condanne. Conferma di come sia difficile gestire le inchieste che seguono terremoti o alluvioni, di come sia delicato il rapporto tra l’esigenza di giustizia e le ragioni del diritto. Qui subentra o, meglio, dovrebbe subentrare, un “dovere di razionalità”, di lucidità e di responsabilità prudente che per tante ragioni in passato è venuto meno. Fermiamoci qui, per il momento.
LA VOCE DI NEW YORK 1 Settembre