Gli ultimi frutti dell’estate

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di Valter Vecellio

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Lo si poteva e si doveva sospettare che Salvatore Vullo tenesse chiuso nel cassetto un romanzo come questo suo Gli ultimi frutti dell’estate. Lo si poteva e doveva sospettare perché Vullo coltiva, con passione e intensità, il gusto per la parola ben scritta, la sua “pulizia”,il parlare da cui si possa ricavare il giusto senso (non per un caso tra i suoi punti di riferimento, da sempre, Leonardo Sciascia, che senza dubbio almeno una volta l’anno ri/legge, e ri/medita). Accanto a questo suo “diletto”, una passione civile di impegno, venato da un po’ di malinconia: inevitabile e comune a quanti hanno consapevolezza di come sono andate le cose, di come ancora vanno. Un disincanto, una capacità di “lettura” che tuttavia non scade nel cinismo; anzi fortifica il tentativo, l’aspirazione a una “resistenza”: che si traduce in una sorta di civico dovere: non smarrire la memoria, aver cura delle proprie radici.

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Vullo non è nuovo a questo tipo di “imprese”: siciliano di Marianopoli, a vent’anni si trasferisce a Torino; lavora all’assessorato agricoltura della regione Piemonte, come esperto di politiche e valorizzazione dell’agricoltura e sue produzioni. I titoli delle sue pubblicazioni danno un’idea dello spettro dei suoi interessi. Si va da Viva le spighe, a Dalla parte degli inquisiti; da La cucina di Sicania a Di terra e di cibo, fra le pagine di Leonardo Sciascia.

Quelli che seguono, sono poco più che appunti, riflessioni, “flash” appuntati alla rinfusa sul taccuino nel corso della presentazione de Gli ultimi frutti dell’estate (Edizioni Nerosubianco, pagg. 68, 10 euro) a cui Vullo mi ha invitato, un pomeriggio a Torino.

Si può cominciare dal titolo: gli “ultimi frutti” sono le nespole. Nespole che l’“io” narrante scorge con compiaciuta meraviglia su un cesto in un angolo della stanza del saggio professore quando lo va a trovare in Sicilia. Un saggio che anche lui ha condiviso passioni e ideali; ne ha viste e sapute tante: può e sa dare consigli, e con generosità condivide il suo prezioso “sapere”. Le nespole, “frutta quasi scomparsa, rara e preziosa”, con “forte valore simbolico”; che “…erano gli ultimi frutti della stagione, dell’annata; e dopo il lungo inverno e primavera la stagione dei frutti cominciava con le nespole, quelle dette del Giappone. Le nespole, dunque, aprivano e chiudevano la stagione dei frutti…”.

Nespole come metafora; si richiamano e collegano alle pasoliniane lucciole che poi si ritrovano anche all’inizio dello sciasciano L’Affaire Moro. Ma nespole intese anche come frutto da non dimenticare: quel tipo di frutti che un altro poeta e scrittore – di diversa esperienza, formazione e anche luogo di vita, ma di un evidente comune sentire – ha cercato di salvaguardare: quel Tonino Guerra che in terra di Romagna convince (per fortuna riuscendoci) alcune locali amministrazioni a creare “gli orti dei frutti dimenticati”; e così salvare quel particolare tipo di mela. di susina, di albicocca, di pesca di cui ormai ci sogniamo gusto e sapore. E’ questo attaccamento alla radice, questo culto di una memoria che costituisce l’ancora di salvezza per non finire completamente travolti dallo tsunami della micidiale omologazione.

Nei tre capitoli che fondamentalmente compongono il libro, troviamo quello che effettivamente conta nella vita: l’ostinato, caparbio, voler mantenere una coerenza, una fedeltà leale, che va al di là dell’appartenenza ad un partito: perché ci sono valori (e principi) che nessuna inchiesta giudiziaria, per quanto fondata può mettere in discussione (e figuriamoci se lo possono fare quelle che poi si rivelano essere strumentali, frutto di calcolo e speculazione politica, e quante ce ne sono state). Ma c’è anche il rapporto, recuperato, ricucito (anche rimpianto per la parola non detta, la carezza non data), col genitore, le “radici”, appunto. Infine la ricerca (e insieme la cura) di una memoria: pagine struggenti quelle del dialogo e della visita con il vecchio professore, con cui tanto si è condiviso e si continua a condividere: come, quasi, un passarsi l’un l’altro il testimone, un dire: “Ora vai tu, tocca a te proseguire; fai in modo che quella fiammella non si spenga: di giorno è nulla, ma quando cala il buio, per quanto piccola, diventa preziosa, un punto di riferimento che si scorge da lontano, e dunque va alimentata e tenuta accesa”.

Si vada per esempio a pagina 19; ci si imbatte in una batteria di domande cruciali: “…Come studiano, oggi, i ragazzi? Si studia ancora qualcosa a memoria? E le poesie? Quali ricordi potranno avere? Che rievocazioni potranno fare? Quali associazioni di idee?…”.

Mi pare sia in Matelda. Racconto di un amore, e comunque di certo è Manlio Cancogni, che chiarisce l’importanza dell’apprendimento mnemonico di una poesia, si tratti dei complicati canti danteschi o delle “semplici” filastrocche alla Aldo Palazzeschi: il modo per allenare la mente, per tenerla desta, e poco importa se di un verso, una terzina, in un primo momento non si coglie bellezza e significato. Conta che “riposi” in un angolo della mente: pronti, quei versi, a ridestarsi venti, trent’anni dopo. E’ quello il “patrimonio”, la vera ricchezza, che nessuno può sottrarre. Sono in tanti a ricordare che nei momenti più disperati, nel fondo di un lager o di un gulag, di una segreta di regime sud americano o arabo, quello che tiene in vita e dà un senso al resistere alla disperazione, è il ripetere e rammemorare versi e canti, poesie.

E’ Sciascia a ricordare che il vero impegno anti-mafia dovrebbe consistere in un corteo in meno, e nella lettura di un libro in più. E’ Gesualdo Bufalino a dire che contro la mafia, il crimine organizzato, contano senz’altro carabinieri, polizia, magistrati; ma fondamentali sono i maestri di scuola. Siamo al punto: al di là delle corbellerie sulla “buona scuola”, quello che non si fa, non si sa fare, non si vuole, è piuttosto “la scuola buona”. Amaro prender atto che ogni nuovo governo e nuovo ministro approntano una “riforma”; e che si vuole trovare qualcosa di veramente valido, si deve andare indietro nel tempo, e dire che pur se fascista, Giovanni Gentile lui sì, una ri/forma l’aveva saputa concepire e offrire al paese.

Ma eccoci al secondo capitolo. Il capitolo della nostalgia, del “capire” (rubo da Francesco Guccini) “quel che conta e che vale, che sa dov’è il sugo del sale”. L’“Io” narrante, nel secondo capitolo, diventa un “Noi” narrante: perché quel conflitto, quell’accusare senza darsi pena di voler capire, quella inconsulta e stupida indiscriminata condanna di quel che era stato, e quel senso di onnipotente, arrogante, impotenza tipico di chi non sa che vuole, ma crede di sapere quello che aborre, ecco: quel momento si chiami ’68 oppure ’77, o quel che si vuole, l’abbiamo vissuto un po’ tutti. E certo: “tutto e subito”, “Il tutto è ancora poco”, “Pane e rose”. Salvo che sul banco degli accusati si ponevano “quelli che sgobbavano, che si sacrificavano per far vivere decorosamente la propria famiglia, i propri figli; prospettare per essi una vita migliore di quella che avevano vissuto loro, segnata dalla fame dalla miseria, dalla guerra” (pa.34).

Il terzo capitolo, infine. Quello che si può concludere con “comunque ne valeva la pena”. E’ vero, quasi sempre il potere della politica cede posizioni alla politica del potere; ma aveva e ha comunque ragione Antonio Gramsci, quando nel primo dei  Quaderni dal carcere annota: “Ogni collasso porta con sé disordine intellettuale e morale. Bisogna creare gente sobria, paziente, che non disperi dinanzi ai peggiori orrori e non si esalti a ogni sciocchezza. Pessimismo dell’intelligenza, ottimismo della volontà”.

Questo è il libro di Vullo: pagine di quella pragmatica intelligenza che si arricchisce di quell’ottimismo capace di realisticamente sognare. Non ha torto, il professore, nel congedo, e si deve fare tesoro di quello che dice: “Oggi abbiamo tutto, e non ci accorgiamo più di niente; oggi abbiamo tutto, tutto l’anno…”. Abbiamo tutto, tutto l’anno. Per fortuna però c’è chi, come Vullo, “coltiva” quelle nespole. Fino a quando   quella frutta “quasi scomparsa, rara e preziosa” continuerà a maturare sulla paglia anche di pochissimi cesti, beh: è un possibile contro il probabile, una partita, una scommessa che non dobbiamo rinunciare a giocare.

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