di Salvo Barbagallo
Appena 24 ore addietro (21 gennaio) un tentativo di attacco all’ambasciata italiana a Tripoli riaperta la settimana scorsa: due kamikaze hanno tentato di farsi esplodere proprio nei pressi della nostra sede, ma il tentativo è andato a vuoto e a lasciare la pelle sono stati gli stessi presunti attentatori. Il sito online “Libya Observer” ha sostenuto che i kamikaze volevano colpire proprio l’ambasciata italiana ma sono stati costretti dal personale della sicurezza dell’ambasciata a spostare l’auto imbottita di esplosivo che avevano intenzione di parcheggiare davanti l’ingresso dell’edificio. Gli attentatori hanno fermato la vettura in mezzo alla strada di fronte al ministero della Pianificazione libico, a circa 400 metri di distanza dall’ambasciata, e si sono fatti esplodere. La Farnesina ha confermato la notizia dell’esplosione nei pressi della sede italiana, sottolineando che “il dispositivo di sicurezza locale messo a protezione della cancelleria diplomatica ha funzionato perfettamente”.
Il mancato attentato contro l’ambasciata a Tripoli potrebbe essere interpretato come un primo avvertimento all’Italia. Va ricordato che la sede diplomatica italiana era stata riaperta meno di due settimane addietro, la prima di un Paese occidentale, e l’ambasciatore Giuseppe Perrone aveva presentato le credenziali al governo di unità nazionale libico. Una decisione presa dal Governo Gentiloni per sottolineare il carattere strategico delle relazioni italo-libiche; una decisione che, però, aveva provocato le proteste del governo di Tobruk opposto al governo di Serraj imposto dall’Onu a Tripoli. Tobruk aveva classificato la decisione di Gentiloni come una nuova occupazione del suolo libico da parte dell’Italia.
Intanto ieri (22 gennaio) al Cairo si è tenuta la decima riunione ministeriale dei sei Paesi confinanti con la Libia, che hanno concordato una dichiarazione in cui mettono in guardia da qualsiasi soluzione “militare” della crisi libica. Egitto, Tunisia, Algeria, Sudan, Niger e Ciad si sono appellati alle controparti libiche affinché proseguano nella via del “dialogo politico” in stallo da oltre un anno e creino un governo di vera unità nazionale che stavolta tenga meglio conto delle istanze del governo di Tobruk.
Il mancato attentato all’ambasciata italiana a Tripoli riporta alla memoria il rifiuto (due settimane addietro) del comando militare di Tobruk dell’offerta del governo italiano di medicinali e di altri aiuti umanitari che il ministro degli Esteri Angelino Alfano aveva annunciato di voler inviare a Tobruk. L’esercito del generale Khalifa Haftar, che non riconosce il governo di Fajez Serraj a Tripoli, in quella circostanza ha dichiarato che “rifiutiamo qualsiasi aiuto dall’Italia prima che le sue le navi da guerra e le truppe italiane abbiano lasciato Tripoli e Misurata”. Alfano aveva proposto gli aiuti umanitari dopo che media e leader politici in Cirenaica avevano iniziato ad accusare l’Italia di avere una nuova “politica coloniale” a Tripoli, di volersi “ingerire negli affari interni della Libia”, e di essersi schierata con il governo di Tripoli, che il generale Haftar osteggia. Il fallito (presunto) attentato contro l’ambasciata italiana viene da molti interpretato, appunto, come un primo avvertimento all’Italia, in una città, Tripoli, dove peraltro nei giorni scorsi si era registrato anche un tentativo di golpe degli islamisti fedeli a Khalifa Ghwell, l’ex premier del dissolto governo di salvezza nazionale.
Resta ora l’interrogativo se il rischio attentati contro l’Italia per la politica che sta adottando in Libia possa fermarsi solo in quel Paese o estendersi anche altrove.