Chi trae vantaggio sulla pelle dei migranti/profughi

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Accade a volte (a volte anche spesso) che certi aspetti di situazioni che abbiamo sotto gli occhi ci “sfuggano” e che invece giornali stranieri con i loro reportage mettono in luce in maniera esemplare. Quasi che questi giornalisti fossero perfettamente inseriti nel territorio e per loro fosse più facile scoprire risvolti che i “locali” non riescono a vedere. E’ il caso di una lunga e approfondita indagine condotta sul quotidiano americano Huffington Post da Malia Politzer e Emily Kassie dal titolo “Così la crisi dei rifugiati sta cambiando l’economia mondiale. I volti e le storie di chi ne ha tratto vantaggio”, e con un eloquente sommario: La più grande crisi dei rifugiati che la storia ricordi ha travolto continenti, scosso elezioni e fomentato l’ascesa del nativismo. Ha anche reso ricche tante persone. Queste sono le storie degli amministratori delegati, delle menti criminali, dei passacarte e degli avvoltoi che hanno capito come trarre vantaggio dall’instabilità globale, nota anche come sofferenza umana.

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Il reportage è apparso per la prima volta su Huffington Post America, è stato tradotto da Milena Sanfilippo e Stefano Pitrelli e pubblicato su Huffington Post Italia il 30 dicembre scorso. Sono quattro le tappe del reportage: Nigeria, Italia, Turchia, Germania. Ogni tappa mostra i luoghi e i personaggi che hanno sfruttato la grave situazione dei fuggitivi/profughi: ne scaturisce un quadro non solo desolante, ma soprattutto raccapricciante di fronte al quale si può dire che nessun alibi è consentito a quanti ancora oggi affermano “non sapevo, non conoscevo…”. Ed è per dare ulteriore divulgazione a quanto scritto da Malia Politzer e Emily Kassie che riportiamo la “tappa italiana” del reportage delle due giornaliste, invitando i nostri lettori a collegarsi con il sito di Huffington Post per leggere anche gli altri “capitoli” di queste storie orrende.

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Così la crisi dei rifugiati sta cambiando l’economia mondiale. I volti e le storie di chi ne ha tratto vantaggio in Italia

i Malia Politzer e Emily Kassie

A causa di una recente accusa di spaccio, al calar del sole Samora Santi non è libero d’uscire dal suo appartamento. Così ce ne restiamo seduti lì a parlare respirando aria stantia sui gradini in pietra, tutti rotti, di una buia tromba di scale. Lui vive a Ballarò, storico quartiere di Palermo, la capitale siciliana. Di giorno il mercato all’aperto — pieno di banchetti che vendono formaggi italiani, pesce appena pescato e frutta artisticamente allestita — è talmente piacevole da rappresentare una classica trappola per turisti. Di notte però Ballarò perde il suo fascino. E diventa una città della mafia. Ci sono bordelli a pochi isolati l’uno dall’altro, e fra le piazze colme di spazzatura riecheggiano i fischi incorporei di spacciatori che annunciano di aver roba da vendere.

Santi, ghanese di quasi trent’anni dalla liscia pelle scura e dalle ciglia lunghe, sarebbe anche un bell’uomo se non fosse per il fatto che gli manca una parte del naso: qualcuno gliel’ha strappata a morsi durante una rissa al centro d’accoglienza dov’era andato a stare appena arrivato in Italia, nel 2008. “Nel mio villaggio non c’era lavoro”, racconta. “Avevo due sorelle e tre fratellini, e non c’erano soldi per tutti, così ho deciso di partire”. Non c’è voluto molto perché si rendesse conto che quanto a occupazione, la situazione in Sicilia non era molto meglio di quella da cui fuggiva.

Era riuscito a farsi assumere da un fioraio, ma poi aveva perso il posto quand’era stato costretto ad andare a Roma per un incontro con le autorità per l’immigrazione sul suo caso. Aveva provato a fare il parcheggiatore, e aveva cercato lavoro nell’edilizia, ma la competizione con la gente del posto era troppo intensa. (Fra i siciliani la disoccupazione giovanile s’aggira attorno al 42 per cento). “Se non hai un amico o non hai documenti, per noi africani è molto difficile trovare un lavoro”, spiega con una voce lieve che a volte si riduce a un sussurro. “Il fatto è che devi conoscere qualcuno”.

Disperato e in povertà, Santi alla fine ha ceduto. Ha cominciato a spacciare droga che acquistava da una gang nigeriana. “Non volevo”, dice. “Ma se non hai niente e nessuno, fai ciò che devi per sopravvivere”. Ora che ha la fedina penale sporca, trovare un lavoro per lui è ancor più arduo, e l’idea di riuscire a guadagnarsi da vivere legalmente pare sempre meno concreta. Gli tocca affidarsi agli amici per farsi dare i soldi per il cibo e l’affitto.

In Sicilia la sua vicenda è piuttosto comune. Quest’anno sulle sponde Italiane è approdata la cifra record di 175 mila persone, principalmente provenienti da paesi sconvolti dalla guerra quali Nigeria, Eritrea e Somalia. Questi migranti restano in attesa nei centri d’accoglienza per rifugiati per i 6-18 mesi circa necessari alla valutazione delle loro richieste d’asilo. Coloro a cui poi viene concesso vengono trasferiti in altre città del paese. Coloro a cui non viene concesso di solito finiscono per restare comunque, in assenza di accordi bilaterali fra l’Italia e molti dei loro paesi d’origine. Ciò significa che si è verificato un incremento della popolazione in arrivo dall’esterno proprio in un periodo di disoccupazione diffusa. È quasi insostenibile. Lo spaccio è aumentato. Così come la prostituzione. E a trarre beneficio da tutta questa instabilità, forse più di qualunque altro gruppo nel paese, è la mafia siciliana, altrimenti nota come Cosa Nostra.

I nuovi amici della mafia

All’apice del suo potere, fra gli anni ’50 e ’90, la mafia siciliana qui ha allungato le mani a ogni livello dell’economia e dell’amministrazione. Le imprese locali dovevano versare un terzo dei propri profitti per il pizzo (in originale nel testo, ndt), soldi in cambio di protezione, solo per avere il diritto d’alzare la serranda. Di poliziotti sul loro libro paga e di politici corrotti ce n’erano dappertutto. Si trattava di un monopolio diffuso, vibrante e violento.

La mafia però, azzoppata com’è dall’arresto di figure chiave e dalla crisi dell’omertà, il famigerato codice del silenzio, non è più onnipotente come un tempo. Così Cosa Nostra s’è vista costretta a diversificare. Aldilà dei soliti canali di reddito (pizzo, edilizia) s’è andata a insinuare in ambiti come quelli delle rinnovabili, assicurandosi ricchi progetti finanziati dall’Unione europea e dal governo italiano. Ma negli ultimi vent’anni per gli affari della mafia non c’è stato niente di meglio delle centinaia di migliaia di stranieri sbarcati in Sicilia con troppo poco da fare.

“Hai idea di quanto ci guadagniamo coi migranti?”, dice un capo in un’intercettazione. “La droga è molto meno redditizia”.

Prima di tutto ci sono i soldi che la mafia raccoglie dai centri di accoglienza. In questo momento i pm italiani stanno indagando su tre diverse operazioni, inclusa una al CARA di Mineo, il campo più grande d’Europa. Mineo ogni anno si spartisce circa cento milioni di euro in contratti di servizio, e con tutti i soldi che gli girano intorno, non sorprende il fatto che Carmelo Zuccaro, procuratore capo di Catania, la seconda più grande città siciliana, sospetti che la mafia sia riuscita a intimidire altri appaltatori affinché non partecipassero alla gara. È inoltre convinto che le aziende di pulizia e catering affiliate alla mafia che hanno vinto gli appalti stiano fornendo servizi di qualità inferiore a quelli che sarebbero stati offerti da quelle legittime, ampliando i propri margini di guadagno.

Una recente visita a Mineo, quartiere residenziale recintato in aperta campagna, ci ha rivelato come la mafia sia impegnata in altre operazioni. La legge italiana vuole che ai richiedenti asilo venga riconosciuta una somma di 2,50 euro al giorno. Ma i migranti del campo sostengono di non riceverla mai.

“Ecco che cosa ci danno”, dice un allampanato uomo del Gambia di nome Sirrif, sventolando un pacchetto di sigarette. “Io le sigarette non le fumo nemmeno. Che ne faccio?”.

Anche molti altri migranti intervistati in separata sede fuori dal cancello di Mineo sostengono di aver ricevuto sigarette invece dei soldi. Un lavoratore di una organizzazione non governativa del posto — che non ci fornisce il suo nome temendo rappresaglie — spiega come funziona la cosa. “Le sigarette vengono da un’azienda di proprietà del cognato di un boss”, dice. “Se i rifugiati vogliono i loro soldi devono vendere le sigarette”.

Ma questo genere di operazioni sono robetta per la Mafia — che fa cose simili da più di un secolo. A gonfiare di miliardi i profitti legati ai migranti, dicono i pm, è l’accento sul traffico di esseri umani. Cosa che richiede un livello di collaborazione coi gruppi criminali africani di cui in Sicilia non s’era mai sentito parlare fino ad ora.

Una recente indagine della polizia ha scoperto che da circa cinque anni la mafia sta complottando coi trafficanti nordafricani per trasportare decine di migliaia di rifugiati dall’Egitto alla Sicilia. Nel corso di una telefonata intercettata, un boss mafioso ha spiegato a un trafficante egiziano coinvolto nell’organizzazione degli attraversamenti via mare quale sia il modo migliore per evitare problemi da parte delle autorità. “Se ti trovano”, fa il siciliano, “gettali tutti a mare”.

Quando i rifugiati raggiungono l’Europa, la mafia offre alloggio, cibo e trasporto verso il nord del continente, si legge in un rapporto della polizia, “in cambio di grosse somme di denaro”. Il ruolo della mafia nel traffico di esseri umani in realtà è analogo a quello dei passeur di Agadez — anche nel modo in cui i siciliani minacciano di rapire e torturare i migranti che non riescano a pagare per intero il proprio viaggio.

Nonostante tutta la sua influenza, però, Cosa Nostra non ha grande presenza fisica lungo le strade di Ballarò. Al contrario, la zona è colma di gruppi criminali africani in guerra fra loro per questioni di territorio e di potere. E a vincere sembra essere quello che si chiama Black Axe.

I membri del gruppo non vanno in giro armati di pistola perché Cosa Nostra non glielo permette. Impugnano invece dei machete e (sì) delle asce, e secondo Gaspare Spedale, pm a capo delle indagini sulle attività del gruppo in Sicilia, sono piuttosto inclini a farne uso. Dai suoi uffici ben protetti in città Spedale spiega come la recente uccisione di un ragazzo nigeriano da parte di Black Axe “facesse parte di un disegno. Adoperano la violenza per le ragioni più stupide, per mostrare a tutti di poter fare ciò che vogliono come vogliono, e mostrare a tutti che comandano loro”. Il mese scorso, annunciando l’arresto di circa venti membri di Black Axe, i pm siciliani hanno compiuto un gesto rivoluzionario, proclamando ufficialmente il gruppo nigeriano mafia a pieno titolo. “Per la prima volta a Palermo abbiamo un’altra mafia oltre a quella tradizionale”, osserva il pm Calogero Ferrara. “Per noi è molto strano”.

La Black Axe è stata fondata verso la fine degli anni ’70 come confraternita studentesca all’Università di Benin, in Nigeria. Il gruppo è stato presto dichiarato fuorilegge in tutto il paese perché troppo violento e simile a una setta. I suoi membri avrebbero costretto le studentesse a pagare in cambio di protezione, altrimenti avrebbero rischiato di esser stuprate. Una delle loro cerimonie d’iniziazione includeva bere sangue umano.

Anche se la presenza del gruppo in Sicilia risale a circa vent’anni fa, fino a poco tempo fa il suo potere era tenuto sotto controllo da Cosa Nostra. Ai membri della Black Axe veniva permesso di spacciare droga esclusivamente ad altri immigrati africani. Se uno di loro fosse stato colto a venderne a un italiano, sarebbe stato incaprettato e strangolato (secondo lo stile tipico di Cosa Nostra).

Le autorità hanno osservato che la mafia ha cominciato a perdere il controllo nel 2013, lo stesso anno in cui grandi quantità di richiedenti asilo e di migranti cominciarono ad arrivare in Italia. Il tempismo non poteva essere migliore per la mafia siciliana. Avevano appena subito un’ennesima ondata di arresti, e avevano bisogno di gente per svolgere quel genere di lavori sporchi quotidiani ad alto rischio di galera. Così per spacciare droga, anche a clienti italiani, cominciarono a fare affidamento sulla Black Axe e altri gruppi africani.

I pm sono convinti che la mafia siciliana cogli africani abbia adottato una strategia a “W”. Prima i siciliani costringono gruppi come la Black Axe ad acquistare la droga solo da loro. Poi riscuotono l’affitto del territorio. In questo modo gli italiani possono dedicarsi al traffico su vasta scala, pur continuando a trarre profitto dalla vendita su strada — in assenza di rischi concreti per loro.

“Cosa Nostra considera i nigeriani sacrificabili”, ci dice un poliziotto infiltrato. “Non gli importa se vengono arrestati. Le loro vite non valgono niente”.

Spedale, così come molti altri pm, tiene a sottolineare come lo sviluppo delle organizzazioni criminali africane non dipenda dai nuovi migranti e richiedenti-asilo quanto, principalmente, dal fatto che i tentativi d’integrazione degli africani nella società da parte del governo siano risultati così goffi e inefficaci che i migranti finiscono spesso per non avere alternative. O come il sindaco di Palermo Leoluca Orlando ha dichiarato al Telegraph l’anno scorso: “[Analogamente al modo in cui] il probizionismo in America ha prodotto Al Capone, [l’assenza di] permessi per i migranti produce una nuova forma di criminalità organizzata”.

Nel 2013 il governo ha intrapreso un programma che è andato a ricollocare sedicimila rifugiati in cinquecento comuni e paesi la cui popolazione giovanile era stata prevalentemente calamitata dalle grandi città. Questi comuni, che sognavano una rinascita economica, hanno offerto ai rifugiati alloggi, lezioni d’italiano e corsi di formazione. Ma nonostante ciò non son riusciti ad attrarre l’attenzione dei nuovi arrivati. Gran parte dei rifugiati è partita alla volta delle grandi città appena ha potuto.

Alex Omoregbe vive ancora con la moglie e tre figli a Sutera, un pittoresco villaggio in cima a una collina nella Sicilia sud-occidentale. “È un bel posto, ma è adatto agli anziani, non a gente come noi”, sostiene. “Qui non c’è niente da fare, si può solo andare a scuola, tornare a casa e dormire”: non vede l’ora di portare la propria famiglia via da questo comune, in cerca di un lavoro più appagante. E se l’esperienza di Samora Santi o di molti altri rifugiati c’insegna qualcosa, anche la Black Axe non vede l’ora che arrivi quel giorno.

‘Son talmente desensibilizzate’

Storicamente la mafia siciliana s’è sempre tenuta alla larga dalla prostituzione, considerandosi un’organizzazione cattolica, e trattandosi di una pratica che ne viola i principi. Ma ciò non significa che la mafia ne rifiuti una fetta. Per decenni ha tollerato la schiavitù sessuale di decine di migliaia di donne da parte della Black Axe, illustra Spedale, fin tanto che la setta nigeriana rimaneva “rispettosa” e gli pagava il privilegio di lavorare sul territorio di Cosa Nostra.

Con la crisi dei rifugiati gli affari son solo migliorati. Secondo Simona Moscarelli, esperta di lotta la traffico di esseri umani dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, negli ultimi tre anni il numero di lavoratrici nigeriane del sesso fatte arrivare in Italia dai trafficanti attraverso il mare è aumentato di più del 300 per cento.

Ci sono tanti modi in cui le donne possono finire imprigionate nella rete della Black Axe. I pm spiegano come alcune di queste vengano ordinate dalle madame come da menu, direttamente dalla Nigeria fino in Italia. Altre vengono reclutate nei campi per rifugiati. Lì, racconta Charlotte Baarda, dottoranda all’Università di Oxford che sta lavorando a una tesi sulle reti dei trafficanti di nigeriane, le madame sostanzialmente gli dicono: “O resti bloccata in questo centro per richiedenti asilo, o cominci a lavorare per me, e io ti aiuterò ad ottenere un permesso di residenza o a sposare un italiano”.

Poi ci sono quelle che arrivano in Sicilia da Agadez e dalla Libia, convinte che i giorni della loro schiavitù siano finiti, solo per scoprire che stanno semplicemente entrando in una nuova fase del loro asservimento. La Moscarelli dice che nel corso del loro viaggio verso l’Europa a molte donne viene passato un foglio di carta col numero di telefono di qualcuno che — viene loro detto — le aiuterà a sistemarsi in una nuova casa. Ma quella telefonata in realtà non fa che allertare i trafficanti del loro arrivo, e ben presto quelle donne torneranno in strada.

“Quando poi attraversano il mare e arrivano in Italia ormai son talmente desensibilizzate che è come se fossero spezzate”, nota Suor Valeria Gandini, un’anziana suora cattolica che alla lotta a questo traffico ha dedicato gran parte della sua vita.

Ogni settimana la Gandini trascorre parecchie notti girando per Ballarò alla ricerca di queste vittime, in compagnia di esponenti delle Ong locali e di altri membri della sua chiesa. “Non andiamo lì con l’intenzione di liberarle perché non puoi liberarle, è impossibile”, spiega la Gandini. “Andiamo a parlarci e a stringere con loro un’amicizia. È un momento in cui possono essere spontanee, in cui possono trovare degli amici”.

Altre donne africane lavoratrici del sesso lo diventano di loro spontanea volontà; la vedono come l’unica chance in un’economia che per le donne è ancor più difficile che per gli uomini. Ciò di cui non si rendono conto, prosegue la Gandini, è “quanto grandi siano i loro debiti, finché poi non è troppo tardi”. Padre Enzo Volpe, prete cattolico di Ballarò che accompagna la Gandini nei suoi giri, ritiene che per comprarsi la libertà alle donne tocchi pagare ai propri carcerieri una somma che va dai trenta ai cinquantamila euro. Un rapporto compilato dal Servizio immigrazione finlandese sostiene che possano finire a pagare fino a 80 mila euro. Ad ogni modo la matematica di questo commercio è incredibilmente violenta. I pm con cui abbiamo parlato dicono che una prostituta può guadagnare fino a 40 euro ad atto, mentre alcune donne sostengono di guadagnare dai 5 ai 10.

“Molte non hanno soldi per il cibo o per l’affitto”, dice Gandini. “E non denunciano i trafficanti né cercano di andarsene perché hanno troppa paura”. Spesso, dice Enzo, i patti juju che hanno stretto in patria continuano ad esercitare un’influenza — sono convinte che loro o i familiari moriranno, se se ne vanno.

Le famiglie dal canto loro non hanno alcuna idea delle sofferenze che [queste donne] si trovano a vivere. “Sono convinte che per le figlie guadagnare dei soldi in Italia sarà facile”, spiega Osas Yvonne, ex prostituta cofondatrice di un gruppo anti-traffico di Palermo, l’associazione “Donne di Benin City”. “[I familiari] sono convinti che i bianchi abbiano tanto denaro, che si possa semplicemente chieder loro da dove lo prendano e andartelo a prendere. Magari c’è un albero, e tu puoi raccogliere i soldi dal ramo. Non sempre sanno che toccherà loro diventare prostitute. Non sanno che prima di poterti nutrire dovrai soffrire”.

Il risvolto più triste è che molte di queste donne vivono all’interno di abitazioni dove vengono tenute sotto stretta sorveglianza dalle madame, a loro volta ex prostitute. Le madame hanno ripagato i propri debiti. Alcune hanno perfino vissuto nei rifugi finanziati dal governo, o seguito lezioni d’italiano sovvenzionate che dovevano servire a trovare un lavoro. Ma dopo un po’ non hanno trovato modo migliore per fare soldi che restare nel business in qualità di aguzzine. “Le donne non hanno gli stessi diritti qui. Non sono neanche cittadini di seconda classe, quanto piuttosto schiave”, conclude la Gandini. “Per loro non riusciamo a intravedere alcuna via d’uscita”.

Una tregua instabile

Ogni volta che un nuovo gruppo criminale si radica nel territorio dominato da un’altra e più antica rete criminale sussiste il rischio di una guerra per il territorio. Finora i siciliani sono stati attenti a tenere sotto controllo i nuovi arrivati. “Se un boss nigeriano provasse a ribellarsi alla mafia siciliana finirebbe ucciso come un capretto in campagna” sostiene Leonardo Agueci, procuratore aggiunto di Palermo. “Ne ritroveremmo la testa nella spazzatura”.

Ma ciò non vuol dire che in futuro la dinamica non possa mutare. Tanto per cominciare i numeri potrebbero diventare fin troppo sproporzionati perché lo status quo possa reggere. Come ha spiegato Maurizio Scalia, procuratore aggiunto a Palermo: “Una volta che arresti un membro di un’organizzazione di trafficanti di esseri umani, un altro ne prende subito il posto”. E poi c’é un aspetto culturale. “La capacità della mafia italiana d’esercitare la propria influenza e d’esser forte dipende dalla valuta sociale nel loro ambiente”, chiarisce Tueday Reitano, vicedirettore della Global Initiative Against Transnational Organized Crime. “Minacciano le imprese e le famiglie del posto, e dopo sussiste questo ricordo della minaccia violenta che poi è ciò che conferisce loro potere. Ma quando hai una vasta popolazione di migranti — non esiste ricordo di grande violenza. Con cosa li minacci? La violenza l’hanno già subita in patria, non hanno imprese, e spesso le loro famiglie non sono con loro”.

Tuttavia non c’è ancora motivo di supporre che stia per scoppiare una guerra fra le organizzazioni criminali siciliane e nigeriane. Entrambe le fazioni ne traggono fin troppo beneficio. La Black Axe in particolare nei prossimi anni finirà con tutta probabilità per espandersi, non solo in Italia. Il suo rapporto con la mafia siciliana ne ha “potenziato l’immagine a livello internazionale”, argomenta la dottoressa Anna Sergi, vicedirettrice del Centro criminologico dell’Università di Essex. “Godendo di grandi appoggi in Nigeria e in Italia, se adesso volesse cercare nuovi mercati, o se volesse buttarsi nel ramo della contraffazione, documenti d’identità o qualsiasi altra cosa che richieda attività transnazionali, si troverebbe in ottima posizione per farlo”. La Baarda è altresì convinta che la reputazione della Black Axe sia diventata talmente diffusa che i migranti africani di altri paesi — come la Gran Bretagna e l’Olanda — stanno proclamando la propria fedeltà al gruppo, pure se i legami con essa sono inconsistenti o perfino inesistenti.

L’ascesa della Black Axe — e in generale delle gang nigeriane — si potrebbe interpretare come una dura lezione sulle conseguenze indesiderate. Se Muammar Gheddafi non fosse stato ucciso, gettando la Libia nel caos, e se i paesi mediorientali non avessero chiuso i confini ai richiedenti asilo e ai migranti provenienti dall’Africa, la rotta Libia-Italia dei migranti probabilmente non avrebbe mai finito per esercitare una tale proficua attrazione sul crimine organizzato. E se la crisi economica non avesse investito l’Italia tanto duramente, e i migranti e i rifugiati avessero trovato migliori opportunità lavorative in Europa, non sarebbero risultati altrettanto vulnerabili al reclutamento allo spaccio o alla prostituzione. E se la mafia siciliana non fosse stata tanto indebolita dalle retate della polizia, magari non sarebbe stata altrettanto incline a fare affari con le gang nigeriane. Adesso i pm non devono vedersela solo con la mafia siciliana. C’è tutta una nuova rete criminale che scorrazza per il continente, ammanicata e pronta a espandersi.

Questo articolo è apparso per la prima volta su Huffington Post America ed è stato tradotto da Milena Sanfilippo e Stefano Pitrelli

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