Settant’anni fa un grande scrittore francese, Albert Camus, pubblicava “La Peste”…. Ha ragione anche il professor Aldo Masullo che i nostri genitori e i nostri nonni erano più seri. E’ una serietà che dobbiamo recuperare. Noi come cittadini, e anche chi ci governa, maggioranza o opposizione che sia
di Valter Vecellio
L’ottimismo è un qualcosa che si “deve” coltivare. Non è facile: tutto congiura e invita al pessimismo. Si può mutuare la nota di Antonio Gramsci nel primo dei suoi Quaderni del carcere: “Ogni collasso porta con sé disordine intellettuale e morale. Bisogna creare gente sobria, paziente, che non disperi dinanzi ai peggiori orrori, e non si esalti a ogni sciocchezza. Pessimismo dell’intelligenza, ottimismo della volontà”.
Vediamo: il “collasso”. Fatto: c’è da tempo, tutto fa pensare che si “collasserà” ancora a lungo. Ora il “disordine intellettuale e morale”. Fatto anche questo. Lo si vede (e lo si patisce) questo duplice “disordine”. Punto terzo: “gente sobria e paziente…”. Forse per quel che riguarda la sobrietà, si è carenti; di pazienza però se ne ha in abbondanza: si sopporta di tutto… L’invito a “non esaltarsi a ogni sciocchezza”: no, qui si è parecchio indietro. Di esaltati, di esaltazioni, di sciocchezze ce ne sono quantità industriali, ovunque. Cosa resta? Il pessimismo dell’intelligenza, l’ottimismo della volontà. Naturalmente occorre la materia prima: intelligenza (sembra ce ne sia poca, di disponibile), e volontà (se possibile ce n’è ancora meno).
No, si scherza, anche se c’è poco da scherzare.
Un filosofo avellinese di nascita, napoletano d’adozione, il professor Aldo Masullo, tempo fa è stato “ospite” di un programma di approfondimento politico. L’intervistatore osserva che viviamo tempi duri e cupi, ma che non è la prima volta; e anzi, finita la guerra, i nostri genitori e nonni hanno vissuto situazioni ben più gravose e pesanti. Il professor Masullo ascolta; riflette per qualche secondo, poi con un sorriso sornione, sillaba: “Lei ha ragione: dopo la guerra era molto peggio di oggi. La differenza con oggi è che allora si era più seri”.
Affermazione, semplice e al tempo stesso profonda; cinque parole appena, che dicono tutto: “Allora si era più seri”.
Ha ragione, il professor Masullo. I nostri genitori e i nostri nonni erano più seri. E’ una serietà – che è cosa ben diversa dalla seriosità – che dobbiamo recuperare. Noi come cittadini, e anche chi ci governa, maggioranza o opposizione che sia, perché anche l’opposizione può governare, se sa fare bene il suo mestiere di opposizione.
Settant’anni fa un grande scrittore francese, Albert Camus, pubblicava La Peste. Il romanzo è ambientato in Algeria, a Orano: “Un giorno d’aprile 194…”.
Quel giorno il dottor Bernard Rieux accompagna la moglie malata alla stazione. Si imbatte sul cadavere di un topo, e non vi presta molta attenzione; poi un altro, e un altro ancora…decine, centinaia, migliaia di topi, ovunque. E il fenomeno di questi topi morti non stupisce nessuno. Nessuno coglie l’avvisaglia, il prodromo della catastrofe che presto si abbatterà su Orano…
Cominciano a morire anche gli esseri umani. Michel, il portiere del condomino dove vive Rieux; e tanti altri, uomini, donne, giovani, anziani. E’ la peste, ma nessuno ci vuole credere. Le autorità minimizzano, per non diffondere il panico… L’epidemia esplode in tutta la sua furia devastatrice. Su Orano si cinge un cordone sanitario, nessuno può uscire o entrare. Le reazioni sono le più diverse: c’è chi si dispera, chi la prende con filosofia, chi si gioca il tutto per tutto, chi specula sulla carenza di generi di prima necessità; chi esorta a pentirsi, perché vede la peste come una punizione divina per le colpe degli uomini. Con l’arrivo dell’estate, la situazione peggiora, ogni giorno centinaia le vittime, le autorità non sanno più che fare. Tutto sembra perduto. Si arriva al Natale. Il dottor Rieux scopre un siero, pare funzioni. La peste regredisce, ricompaiono alcuni topi vivi, il numero delle vittime diminuisce. Alla fine l’epidemia giunge al suo epilogo. I sopravvissuti fanno una gran festa. Rieux è cauto: mette in guardia le autorità: occorre predisporre piani di prevenzione, i bacilli della peste possono restare inerti per anni, e quando meno ce lo si aspetta, colpire ancora…
La peste, come metafora di un male che non è peculiarità di un paese, di un luogo. La peste come un “qualcosa” di totalitario, che si muove nell’aria e penetra nelle coscienze. Lo si può misurare, questo “qualcosa” nelle piccole, apparentemente insignificanti cose, basta prestare una briciola di attenzione a quello che accade intorno a noi. Produce una melassa uniforme che incombe su tutti, e tutto avvolge: una minaccia totalitaria da intendere non come qualcosa che attiene ai regimi autoritari e violenti già conosciuti. E’ piuttosto un “qualcosa” tra George Orwell e Franz Kafka: un livellamento delle idee, la loro cancellazione. Una favorita pigrizia mentale che lascia spazi vuoti destinati a essere occupati da questo “qualcosa” caratterizzato da assenza di memoria, conoscenza, “sapere”.
Questa “pigrizia”, questa indifferenza è il “qualcosa” di totalitario che ci opprime, ottunde, minaccia. Il “vuoto” che consente spazio di “cittadinanza” alle corbellerie e alle scempiaggini di grilli bercianti e ai loro velenosi elisir. Auguri, e buona fortuna.
La Voce di New York 4 gennaio