Il lavoro è un’idea: la disoccupazione non esiste

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Riflessioni sul lavoro e sull’economia

di Giuseppe Stefano Proiti

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Questa è un’epoca in cui grida forte il lamento del malcontento, e parole come quelle pronunciate l’uno maggio al Salone dei Corazzieri da ministri e dal presidente della Repubblica, non suonano come musica: sembrano note senza un andazzo … restano chiuse dentro il Palazzo.

Nella foto «Quarto Stato», dipinto a olio su tela (293×545 cm) del pittore Giuseppe Pellizza da Volpedo, realizzato nel 1901 e conservato al Museo del Novecento di Milano

E’ un grande problema culturale il tema del lavoro, ma il nostro ministro Giuliano Poletti lo ha sempre affrontato con sconfinata incultura. Basti pensare che dopo aver stornato ben 500.000 euro di finanziamenti pubblici alla testata giornalistica in cui scriveva il figlio, si abbandonava poi a queste indecenti esternazioni: <<Giovani cervelli in fuga vanno all’estero? Alcuni meglio non averli tra i piedi>>, oppure, <<Mandare il curriculum? Meglio giocare a calcetto>>. Ma anche la cialtronata – che ormai Poletti rimescola in diversi “brodi” da anni – della Legge per il contrasto alla povertà, fondata sul “reddito di inclusione” con sussidi economici, denota una certa carenza di lungimiranza, e vale a qualificare l’Italia come “il Paese dei bonus”, niente di più. Dagli 80 euro in busta paga dell’ex governo Renzi, allo sconto sulle assunzioni, al “bonus Stradivari”, a quello per insegnanti, militari e diciottenni, ed infine al “reddito di cittadinanza”, saldo punto programmatico del Movimento 5 Stelle.
Si tratta dell’ennesimo atto demagogico posto in essere dall’impasse di questo governo, privo di fantasia e di reali proposte, che non stimola il cittadino alla ricerca dell’opportunità, ma lo rassegna alla passività. E’ uno Stato che vive alla giornata, che va avanti dando “contentini”, che si basano sul minimalismo del rimedio economico, piuttosto che sul concetto di sviluppo economico. E’ il caso di citare uno dei più autorevoli e nobili padri della nostra Repubblica, Luigi Einaudi: <<Chiunque tenti rimedi economici per problemi economici, si avvia verso una strada che porta a un precipizio>>.
Non corrispondono al vero neanche le affermazioni dello stesso Poletti, il quale durante la cerimonia tradizionale del 1°maggio ha dato per scontato che nel passaggio dalla società contadina alla società industriale e globale della tecnologia, si siano prodotti dei miglioramenti significativi nel mondo del lavoro, senza la considerazione dei contestuali effetti involutivi nel pensiero e nell’agire umano che tale passaggio ha apportato.
Alle istituzioni, bisognerebbe ricordare che a volte influire sul pensiero moderno significa anche riscoprire ciò che si è lasciato morire. Perché non ritornare alle campagne? Esse si sono svuotate, ed è un vero peccato che l’agricoltura, l’allevamento, l’artigianato italiani – soprattutto delle regioni del sud – non facciano più “economia” in Italia, quando una volta i nostri prodotti agricoli, artigianali, e del pascolo, erano un mercato fiorente fino in Europa. Ma è ancor più triste pensare che si è ormai persa proprio la “mentalità contadina”, quella maniera sana e genuina di vivere il rapporto con la natura che solo pochissimi personaggi “simbolo” dell’Italia ancora attuano e preservano. Valgano per tutti gli esempi di vita di Gianni Morandi, di Adriano Celentano.
Siamo di fronte a un’incultura politica, che cederà il passo al progresso solo quando cambierà la concezione del lavoro stesso. Ciascuno deve seriamente attivarsi nella ricerca del lavoro e deve inventarne di nuovo, qualora non si riconosca appieno in quelli già esistenti. Ciascuno dovrebbe interrogare la propria coscienza e pescare “la migliore offerta”, perché ognuno di noi, in fondo sa, quali sono le sue migliori potenzialità, ed è quest’idea che dovrebbe, con ogni forza, assecondare. Ci sono migliaia e migliaia di “disadattati”, che fanno lavori che odiano, ma li fanno perché li devono fare, o per necessità, o perché sono stati messi lì per volontà degli “avi”, o per raccomandazione; e questo genera inefficienza. Poi ci sono i “disoccupati”, che stagnano giornate intere nei bar … “tanto poi arriva la disoccupazione … e per quel poco mi sta bene …”. Si dovrebbe eliminare ogni sussidio di disoccupazione, per iniziare a cambiare. La disoccupazione non esiste, è la mentalità del lavoro che in Italia manca, pur essendo il principio più importante scritto nell’articolo 1 della nostra Costituzione. Si dovrebbe iniziare ad affermare il principio che solo il lavoro nobilita l’uomo, solo col lavoro si produce denaro, e che lo Stato non “assiste” nessuno che sia nelle possibilità fisiche ed intellettive di poter svolgere un lavoro.
In tutto questo, la cultura, come base di propulsione e centro gravitazionale, può svolgere un’azione d’incitamento fondamentale. E’ giunto il momento di innalzare la cultura a principio fondante su cui si erge l’intero corpo sociale. La cultura è un pungolo alla legalità, uno stimolo alla creatività, e quest’ultima – direbbe qualcuno più tecnicamente – è “il surplus dello sviluppo”. Non vi può essere crescita senza che vi sia dietro un’idea strutturale di sviluppo, una cultura dello sviluppo. La cultura, nei rispettivi campi, è l’infrastruttura immateriale per ogni risposta economica che si voglia dare. Tale risposta non può fondarsi sul principio della mera assistenza, bensì sul concetto puro di lavoro, che sia anche più libero e più elastico. Lo Stato, ad esempio, non dovrebbe porre restrizioni al cittadino volenteroso che intenda rinunciare al riposo di un giorno festivo per lavorare. Cosa significano frasi come quelle proferite dal vicepresidente della Camera Luigi Di Maio? – <<I negozi aperti la domenica sfasciano le famiglie e rendono più poveri>>. Queste parole denotano una maniera di accostarsi alla tematica in maniera obsoleta, che vede lo Stato piuttosto che un “regolatore”, come il protagonista assoluto della distribuzione della ricchezza, senza che sia un ente capace in realtà di crearne a sufficienza per tutti.
Pensando così, si vive nell’utopia e in un sistema di perfezione avulso dalla realtà. Lo Stato dovrebbe invece fornire un ventaglio diversissimo di stimoli produttivi, di effettive condizioni da poter sviluppare e perfezionare anche e soprattutto nel mondo privato.
Le indicazioni illuminanti di Luigi Einaudi – uno dei più grandi maestri del liberalismo italiano – dovrebbero fornirci una chiara e giusta via da percorrere.
E’ particolarmente significativa a tal uopo la lettura che da il prof. Maurizio Ferrera del pensiero einaudiano contenuto in “Lezioni di politica sociale”, focalizzando l’attenzione su tre punti essenziali: 1) l’importanza dell’economia di mercato e delle libertà economiche come condizioni necessarie per una società libera; 2) l’esigenza di conciliare la logica di mercato con i principi della giustizia distributiva ed in particolare con l’uguaglianza di opportunità; 3) il ruolo cruciale delle politiche sociali dello Stato per realizzare tale conciliazione.

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1) E’ d’obbligo innanzitutto chiarire analiticamente “che cosa è un mercato”, ovvero un luogo dove s’incontrano molti venditori e compratori di merci o “servigi”. E a cosa servono i mercati? Sono essenzialmente un mezzo per guidare la produzione in modo da soddisfare in qualità e in quantità la domanda dei consumatori. In un vero mercato vi devono essere molti compratori e venditori, e questi devono essere sempre liberi di decidere sulle negoziazioni. Queste due condizioni differenziano la parola “mercato” dal “collettivismo”, in particolare quello che nega la libera iniziativa e la proprietà privata. Ma invitano anche a una critica serrata ad ogni forma di monopolio: se il “luogo” è abitato da monopolisti, lo scambio si distorce, la libertà di scelta diminuisce. In un regime di concorrenza il prezzo tende al costo, a remunerare il merito, la creatività, la capacità d’intraprendere e rischiare da parte dei vari partecipanti alla produzione. Ai monopolisti poco importa quanto vendono, ma di guadagnare un massimo profitto netto, alle spalle dei consumatori. Una delle principali funzioni dell’intervento pubblico dunque è quella di tutelare la concorrenza e di combattere tutti i fenomeni di chiusura corporativa, anche nelle organizzazioni sociali come quelle sindacali.

2) Il mercato, insomma, opera sempre all’interno di un quadro di leggi, di principi normativi, e con ciò la necessità di conciliare la libertà economica con l’eguaglianza di opportunità. Per fare questo occorrono buone leggi e un “buon governo”, inteso come amministrazione onesta che sappia ispirare fiducia nell’avvenire, dare sicurezza nel presente, combattere i monopoli e assicurare la libertà nei commerci. Devono infatti sforzarsi di orientare il mercato in modo che produzione e distribuzione della ricchezza rispettino certi limiti che si considerino giusti, in una società nella quale tutti abbiano la possibilità di sviluppare in modo migliore le loro attitudini, e nella quale non esistano diseguaglianze reddituali eccessive. Si tratta di un’affermazione importante, che nasce da una forte passione morale e che collega il pensiero di Einaudi al liberalismo “proto-perfezionista” di Stuart Mill, e non solo all’utilitarismo di Bentham e Adam Smith. In questo discorso conta moltissimo il “retroterra familiare”: nella società vi sono forti differenze in termini di “partenze”, di opportunità e potere di acquisto che non sono in linea con gli ideali di una società liberale. Per rispondere a tale sfida Einaudi rifugge dagli estremi di un’eguaglianza assoluta (il modello del “formicaio”) e della diseguaglianza assoluta (il modello della schiavitù) e si schiera a favore di una soluzione intermedia, volta  a ravvicinare, entro i limiti del possibile, i punti di partenza degli uomini. L’eguaglianza dei punti di partenza è vista da Einaudi come un principio capace di conciliare  le opposte esigenze della proporzionalità rispetto ai meriti (anche nota, da Aristotele in poi, come equità commutativa) con la proporzionalità rispetto ai bisogni (equità distributiva).
Per realizzare questo tipo di eguaglianza, occorre una doppia strategia che Einaudi caratterizza usando due metafore: “l’abbassamento delle punte” e “l’innalzamento dal basso”. Le “punte” si riducono essenzialmente  con le imposte che non devono essere eccesive sì da disincentivare la libera iniziativa e il desiderio d’impresa, ma devono bastare a finanziare servizi utili per l’intera collettività. Einaudi insiste in particolare sulle imposte di successione, con proposte che conservano ancora oggi tratti di radicalità redistributiva: gli eredi di un imprenditore “o possiedono le qualità per … far crescere la produttività dell’impresa e quindi il reddito di tutti i partecipanti al prodotto totale … o non le possiedono e l’inesorabile opera dell’imposta ereditaria li priverà insieme del patrimonio e del governo dell’impresa”.
“L’innalzamento dal basso” sta ancora più a cuore ad Einaudi e ne rappresenta il lato più esplicitamente “milliano”, in specie quando si parla di minori. “Che colpa ha un bambino di essere nato da genitori miserabili?”, e ancora: “quale merito ha un altro bambino se, nato frammezzo agli agi, ha avuto larghe possibilità di coltivar la mente, di frequentare scuole e ottenere titoli che gli hanno aperto la via ad una fruttuosa carriera, del resto facilitata dalle molte relazioni di parentela, di amicizia e di affari dei genitori?”. L’autore non basa la sua critica alla disuguaglianza dei punti di partenza solo su intuizioni morali, ma anche su precise considerazioni economiche: se tutti potessero avere uguali opportunità e la selezione ai ruoli di comando avvenisse fra l’ “universale degli uomini” invece che fra una cerchia di privilegiati, la produzione di ricchezza ne trarrebbe enorme vantaggio.

3) Ma come procedere, nel concreto, all’innalzamento dal basso di tutti gli individui? E’ proprio in relazione a questa domanda che entrano in gioco le politiche sociali. Per innalzare dal basso le opportunità e realizzare l’eguaglianza dei punti di partenza, lo strumento più efficace è quello di un sistema universale di garanzie di base, ispirato al concetto della pax pubblica e al principio dell’ ”ordine di giustizia”. Non v’è ragione per trattare diversamente diverse categorie di uomini e soprattutto di lavoratori: i benefici della sicurezza sociale devono andare a vantaggio di tutti.
E’ un peccato che il pensiero einaudiano non abbia avuto un impatto concreto sulle scelte di politica sociale dei primi anni Cinquanta, che posero invece le basi di quel welfare particolaristico e corporativo del quale non siamo riusciti a liberarci.
Fra le tante considerazioni specifiche che l’autore ha sviluppato in tema di politiche sociali, particolarmente rilevanti ed attuali appaiono quelle sulle prestazioni e i servizi per le famiglie. Per Einaudi la famiglia è la vera unità sociale, la molla che spinge gli uomini ad essere “costruttori”, a pensare al futuro, piuttosto che a vivere come individui egoisti e miopi (la valorizzazione einaudiana del familismo, la sua “nostalgia” per la solidarietà familiare del mondo agricolo d’antan danno al suo pensiero una marcata venatura tradizionalista). Per il suo ruolo fondamentale la famiglia deve essere sorretta dallo Stato: non solo e non tanto tramite assegni integrativi al salario dell’operaio, ma tramite servizi: asili, abitazioni, borse di studio, capaci di “elevare” tutta la famiglia ed in particolare i minori. Sui giovani, Einaudi scrive infine parole lucidissime: <<Se un minimo di punto di partenza consentisse ai giovani di poter continuare a studiare, a fare ricerche, ad inventare, a trovare la propria vita senza dover da troppo giovani lavorare nelle fabbriche, verrebbero fuori studiosi e inventori che oggi non ne hanno la possibilità>>. Anche su questo fronte (anzi, pensando ai giorni nostri) l’evoluzione del modello sociale italiano non ha purtroppo seguito i binari tracciati da Einaudi, consolidando un modello di società poco aperta, dominata da monopoli e corporazioni e dunque ben poco liberale.

E’ al tradizionalismo e alla grandezza di uomini come Einaudi che, forse, dovremmo tutti tornare.

 

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