Nell’indifferenza e ignorata la “Festa” dell’Autonomia Siciliana

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Due giorni addietro (15 maggio) il presidente della Regione Rosario Crocetta e alcuni (pochi) intimi hanno “celebrato” il 71° anniversario della concessione alla Sicilia dell’Autonomia Speciale da parte dello Stato Italia.

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Era il 15 maggio del 1946 quando Re Umberto II firmava lo Statuto della Regione siciliana e a settantun anni la tradizionale cerimonia, alla presenza dei rappresentati le istituzioni politiche e militari, si è tenuta al Politeama di Palermo. Per l’occasione ripetitiva, il presidente Crocetta ha consegnato numerosi riconoscimenti a cittadini siciliani che si sono particolarmente distinti nella vita dell’Isola. È stato fatto notare come questo sia stato “Un compleanno tra i peggiori, questo dell’Autonomia siciliana: disoccupazione alle stelle, economia bloccata, sanità che funziona per isole felici, formazione che non funziona affatto, disabili costretti a ricorrere al mondo dello spettacolo per vedere soddisfatte, almeno in parte, le proprie esigenze”. Crocetta pare che abbia sottolineato di “non fare retorica” ma di “pensare ai fatti”, ma forse non è il caso di pensare a “retorica” e “fatti” quando (forse è meglio così) l’Anniversario è passato nell’indifferenza generale dei Siciliani, “involontariamente” (ma significativamente) ignorato. Probabilmente una nota positiva solo per gli studenti che hanno avuto un giorno di vacanza in più senza chiedersi il perché, e senza capire cosa vuol significare il termine “Autonomia” e come è stato e viene applicato.

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Abbiamo (ri)preso a “caso” qualche articolo pubblicato nel corso del tempo su La Voce dell’Isola, per fornire “a caso” un “quadro” generale dei “risvolti” sulla Sicilia “Autonoma” riferiti alle situazioni attuali.


L’eredità della Liberazione in Sicilia

25 aprile 2016

di Salvo Barbagallo

Oggi in Italia si festeggia l’anniversario della Liberazione dal nazifascismo: un ricordo di una giornata importante per il Paese, quello di una svolta decisiva da un passato controverso. Come ci tramandano cronache e libri di storia, oggi 25 Aprile “È un giorno fondamentale per la storia d’Italia ed assume un particolare significato politico e militare, in quanto simbolo della vittoriosa lotta di resistenza militare e politica attuata dalle forze partigiane durante la seconda guerra mondiale a partire dall’8 settembre 1943 contro il governo fascista della Repubblica Sociale Italiana e l’occupazione nazista”. Purtroppo, ma ovviamente, nessuno (o forse pochi) vogliono riportare alla memoria ciò che accadeva in Sicilia in quel lontano periodo: mentre a Milano i partigiani travolgevano le ultime forze nazifasciste, in Sicilia i militari italiani invece combattevano e cercavano di incarcerare quanti si battevano per l’indipendenza dell’Isola. Una pagina scomoda dell’Italia da ricordare proprio il 25 Aprile: noi lo facciamo per ricordare cosa ha lasciato, a distanza di 71 anni, quel 25 Aprile del 1945.

I moti popolari per l’Indipendenza della Sicilia si risolsero con la forzata concessione (quale compromesso) dello Statuto Speciale Autonomistico, parte propedeutica e integrante della Costituzione Italiana: uno Statuto che chi ha governato l’Isola non ha mai voluto applicare, con tutto ciò che inevitabilmente ne è derivato sul piano economico, sociale e di sviluppo mancato del territorio. Ma non è solo questa l’eredità del 25 Aprile 1945.

Gli scellerati Trattati bilaterali Italia/USA (che hanno violato le norme del Trattato Internazionale di Pace sottoscritto a Parigi nel 1947) hanno trasformato la Sicilia in una roccaforte bellica statunitense, nella pratica concreta in una “zona occupata militarmente”: questo è il retaggio più pesante di quella svolta liberatrice del Paese. Una questione delicata che va avanti dagli Anni Cinquanta, in progressione sempre più allarmante: da Sigonella ad Augusta, da Porto Palo a Niscemi (e in altri spezzoni di terra isolana) sono fiorite basi militari statunitensi autonome non solo autorizzate dal Governo nazionale, ma con il beneplacito del Governo regionale.

Così in residenza stabile a Sigonella ci stanno i micidiali droni Predator e Global Hakws, a Niscemi il temibile impianto satellitare MUOS, ad Augusta i sottomarini nucleari e, quà e là, depositi di armi. Il “caso MUOS” è emblematico: passato attraverso contestazioni giudiziarie è ormai (ufficialmente?) in funzione: si è parlato esclusivamente di danno ambientale, ma ben poco (molto poco) si conosce delle sue effettive prestazioni. Si parla delle tempeste di onde elettromagnetiche che sprigiona l’impianto e degli effetti negativi che può provocare sulla popolazione. Non si parla del reale uso bellico del MUOS. In verità non si parla proprio di tutti gli apparati bellici “made in USA” in servizio operativo in Sicilia. Questioni che non tratta neanche il Capo dello Stato, il Siciliano Sergio Mattarella che, quantomeno, dovrebbe essere a conoscenza di ciò che accade quotidianamente nella sua Terra natia.

È paradossale discutere di questi argomenti nel giorno della Festa della Liberazione? La Sicilia ha contribuito in maniera notevole alla lotta al nazifascismo, ma questo aspetto raramente viene considerato e valutato nella sua giusta dimensione. Alla fine, inevitabile chiedersi: da Cosa è stata Liberata la Sicilia? E quale Eredità ha lasciato alla Sicilia la Liberazione del Paese Italia?


Sicilia: la Primavera assassinata

28 aprile 2015

Di Salvo Barbagallo

In Sicilia non è mai stato adoperato il termine “Primavera” per indicare uno sconvolgimento popolare. “Primavera” è una parola inventata nei giorni nostri a indicare quanto accaduto pochi anni addietro in alcuni Paesi del Mediterraneo, come la Tunisia, l’Egitto, la Libia. Si è visto il risultato finale. Quel che si è verificato nel 1944 e nel 1945 nell’isola non è riportato nei libri di scuola, è stato seguito malamente dai giornali di allora, tenuto conto che dopo l’8 settembre del 1943 l’Italia era ancora in guerra, il territorio nazionale in parte occupato dai tedeschi e da ciò che rimaneva del regime fascista, e la lotta fratricida mieteva vittime da una e dall’altra parte. La Sicilia era un mondo a sé stante, ma non era un’isola felice. Era, però, un’isola che “sperava” di cambiare il proprio destino, un’isola che sperava di conquistare una sua indipendenza, una sua autodeterminazione politica che non facesse riferimento a ciò che era stato il passato fascista e, comunque, che rimanesse lontana dalla guerra ancora in atto il cui risultato finale non poteva essere dato per scontato.

Dopo l’occupazione, dall’agosto 1943, il governo alleato angloamericano – l’AMGOT – non aveva portato benessere alla Sicilia e quando l’amministrazione dell’isola il 14 febbraio del 1944 passò al primo Governo italiano la situazione peggiorò. E’ tempo di sommosse: la gente ha fame, il mercato nero domina ogni cosa, la chiamata alle armi delle giovani leve non compreso e non accettato. All’indomani della manifestazione di protesta al richiamo alle armi di Catania nel corso della quale nn militare lancia una bomba a mano e perde la vita un giovane sarto, il 15 dicembre del 1944 a Giarratana, un paese del Siracusano, la popolazione attacca la caserma dei carabinieri, disarma i militari impadronendosi delle loro armi e brucia – così come avvenuto nel capoluogo etneo – il Municipio e il Palazzo del dazio. La popolazione è esasperata, reagisce alle imposizioni del Governo nazionale che non riconosce: i primi quindici giorni del nuovo anno, il 1945, sono tumultuosi: la lotta è aperta, la gente dice “Basta!” a quello che ritiene un nuovo regime di oppressione. E’ rivolta da un capo all’altro dell’isola. II primo giorno dell’anno Piana degli Albanesi – patria di Nicola Parbato che ha lasciato dai tempi dei Fasci siciliani in retaggio nei suoi compaesani uno spirito comunista molto radicato – si autoproclama Repubblica Popolare. Piana degli Albanesi, sede di una comunità etnica di lontane origini balcaniche, insorge a seguito del furto perpetrato da un carabiniere di guardia ai granai del popolo. A capo della rivolta è Giacomo Perrotta, conduttore rurale, antimilitarista convinto: forma il “Circolo d’Unione” e, con l’approvazione di tutta la comunità, decide l’autogoverno per la sua terra. Nessuno spargimento di sangue, nessuna ripartizione partitica del potere (nel consiglio direttivo c’è addirittura un vescovo, monsignor Giuseppe Perniciaro) macchia i cinquanta giorni d’indipendenza. Tra la notte del 19 e 20 febbraio un corpo di spedizione, forte di duemila uomini, composto di carabinieri, alpini e fanteria, pone fine all’impossibile sogno, e tutti i protagonisti dell’avventura finiscono in carcere.

Il 4 gennaio insorge Ragusa: la folla qui è esasperata per i continui arresti di giovani renitenti alla leva. I carabinieri sono costretti a barricarsi nella caserma. L’indomani rivolta a Vittoria: il popolo cattura la guarnigione della Guardia di Finanza, impossessandosi delle armi in dotazione; un commando di armati occupa le carceri liberando settantacinque detenuti. Lo stesso giorno si ribella Scicli, e quindi Avola, dove è fatto saltare un ponte sulla linea ferroviaria per Siracusa, mentre gli uffici governativi e le caserme sono messi a soqquadro.

Il 7 gennaio è la volta di Comiso, dove i separatisti agiscono di comune accordo con i comunisti. A Comiso si costituisce un Comitato del Popolo che, insediatosi in Municipio, emette un proclama nel quale si dichiara decaduta l’autorità dello Stato italiano, e crea solennemente la Repubblica di Comiso. Ingenti forze militari annientano le velleità della neorepubblica, velleità che sono pagate a caro prezzo: diciannove morti e sessantatre feriti fra i rivoltosi. Fra le truppe regolari si contano quindici perdite: carabinieri, soldati, due ufficiali e un sottufficiale.

L’11 gennaio a Naro, in provincia di Agrigento, vengono bruciate la caserma dei carabinieri e l’Ufficio delle Imposte. Nel pomeriggio dello stesso giorno a Palazzolo fanno la stessa fine i locali della Pretura, del Municipio e dell’Ufficio Annonario. Anche qui per sedare la sommossa intervengono i militari, ma non basta un battaglione che ingaggia battaglia: per sedare la rivolta, è necessario l’intervento dell’artiglieria e dei mezzi blindati. Secondo il ministero dell’Interno “i movimenti sediziosi sono stati predisposti e capeggiati da esponenti separatisti”.

Le sommosse non colsero alla sprovvista solo il governo nazionale e i suoi rappresentanti in Sicilia, ma anche i dirigenti del Movimento indipendentista che non volevano di certo la rivoluzione quale mezzo di pressione per ottenere certi risultati politici: un conto era minacciare le sommosse, un altro conto era metterle in atto. In quel momento storico il Movimento per l’Indipendenza Siciliana contava oltre mezzo milioni di iscritti mentre i partiti tradizionali poche migliaia.

Va ricordato che in carica era dal 12 dicembre 1944 al 21 giugno 1945 era il Governo Bonomi III con la Democrazia Cristiana (DC), il Partito Comunista Italiano (PCI), il Partito Liberale Italiano (PLI), il Partito Democratico del Lavoro (PDL). Nel governo figurava come vice presidente del Consiglio Palmiro Togliatti (PCI), ministro degli Esteri Alcide De Gasperi (DC), sottosegretario Eugenio Reale (PCI), all’Interno lo stesso Bonomi (PDL), alle Finanze Antonio Pesenti (PCI), all’Agricoltura Fausto Gullo (PCI) fra i sottosegretari Giuseppe Montalbano (Marina) e Bernardo Mattarella (Istruzione). Nel precedente Governo Badoglio in carica dal 22 aprile 1944 all’8 giugno 1944, per un mese e sedici giorni, vice presidente del Consiglio dei ministri era sempre Palmiro Togliatti, mentre ministro dell’Interno era Salvatore Aldisio (DC). Aldisio (nato a Gela il 29 dicembre 1890) fu segretario del Partito Popolare Italiano di Caltanissetta, subito dopo la prima guerra mondiale, e nelle elezioni politiche del 1921 fu eletto nelle liste del Partito Popolare Italiano nella circoscrizione Caltanissetta-Girgenti-Trapani. Dopo lo sbarco alleato in Sicilia, assunse la guida della nascente Democrazia Cristiana siciliana, e in seguito fece parte della direzione nazionale del partito. Nel marzo 1944 fu nominato prefetto di Caltanissetta, e nell’aprile seguente fu scelto come ministro dell’Interno nel secondo Governo Badoglio. Nell’agosto del 1944, con il nuovo ruolo decisivo per la Sicilia di Alto Commissario, s’impegnò per l’affermazione dell’autonomia regionale in contrapposizione con il Movimento Indipendentista.


Edward Luttwak rilancia il separatismo siciliano

18 agosto 2015

di Salvo Barbagallo

Da tempo ha casa a Bagheria e fa la spola con gli Stati Uniti d’America, ma in Sicilia (da tempo) è passato e passa (quasi) inosservato. Se non fosse stato per una (pseudo) polemica insorta con Pietrangelo Buttafuoco (lo confessiamo) non avremmo avuto modo di leggere un bel servizio di Enrico Deaglio sul “Venerdì” di Repubblica che parla del personaggio che “vive” in Sicilia e, soprattutto, perché “è e resta” in Sicilia: parliamo di Edward Luttwak, un nome che (purtroppo) ai più non dice nulla.

Chi è Edward Nicolae Luttwak? Basterebbe prendere le prime righe di Wikipedia per incominciare a darsi una risposta: Edward Nicolae Luttwak (Arad, 4 novembre 1942) è un economista, politologo e saggista romeno naturalizzato statunitense, conosciuto per le sue pubblicazioni sulla strategia militare e politica estera, esperto di politica internazionale e consulente strategico del Governo americano. E noi non vorremmo andare oltre a parlare di questo personaggio che si dice “lavori” per la CIS, se non fosse per l’intervista di Deaglio nel corso della quale Luttwak afferma di “essere l’unico ad avere la ricetta per la Sicilia”, spiegando anche come uscire dal degrado dove si trova immersa l’Isola e i suoi abitanti.

Cosa dice di “interessante” il politologo “made in Usa”? Ascoltate, ascoltate, o leggete (che è meglio) in cosa consiste la “ricetta” per i Siciliani: “E’ semplice. Rialzando con orgoglio il loro vessillo indipendentista sanguinante, i siciliani si riuniscono in assemblea e dichiarano la loro separazione da Roma. Non vogliono più un soldo da chi li ha asserviti e distrutti. Il loro capo – che vedrei bene indossare un elmetto – prima di tutto dichiara che in ogni caso non vorrà essere rieletto, poi procede al licenziamento di tutti i dipendenti pubblici della Regione. Sarà riassunto solo chi ha intenzione di lavorare. Viene dato spazio all’iniziativa privata, al commercio, al turismo, alla cultura. Viene incoraggiato il co-investimento. Vengono ristrutturati i porti eliminando la burocrazia, viene alacremente costruito un hub portuale internazionale nella piana di Enna. L’isola non sarà più governata dalla mafia, dalla politica, dal Calogero Sedera, ma dai siciliani veri, compresi i suoi nobili, come ai tempi di Federico II. E di nuovo stupirà il mondo”.

Bisognerebbe analizzare parola per parola, quanto dichiarato da Luttwak per “cercare” di comprendere veramente cosa possa significare questo discorso, quale “messaggio” sia stato inviato, e a chi questo “messaggio” è indirizzato. Per noi le affermazioni di Luttwak sono un “messaggio” e, quindi, non dovremmo “perdonare” a Enrico Deaglio il suo commento: “La dichiarazione di indipendenza siciliana del professore Luttwak ha un tratto surreale…”. Per noi ciò che ha detto Luttwak è estremamente inquietante, tenuto conto che quanto normalmente esprime ha senso e valenza. Non è semplice “spiegare” a chi non conosce “le cose siciliane”, cioè la Sicilia nel suo passato, nel suo presente e…nel suo futuro. Diamo qualche indicazione, con cautela: non si sa mai…

Passato. Il contenuto del discorso di Luttwak non è un inedito: basta andare a rileggersi “La Sicilia ai Siciliani”, scritto in clandestinità e in chiave antifascista nel 1943, dal professore Antonio Canepa, (assassinato nel territorio di Randazzo nel giugno del 1945) per trovare le stesse indicazioni date oggi dal politologo “made in Usa”. La “ricetta” indipendentista è stata sempre a portata di mano!

Presente. Il presente si trascina dal 1950: l’occupazione di spezzoni del territorio isolano da parte di forti contingenti militari statunitensi altamente specializzati.

Futuro. La definitiva installazione del MUOS, sistema elettronico di controllo mondiale delle comunicazioni.

Luttwak (e Deaglio?) è sicuramente consapevole che, comunque, c’è una memoria storica che può far venire a galla episodi posti attualmente in archivi profondi, così come è sicuramente a conoscenza che numerosi sono i gruppi indipendentisti che operano in Sicilia, anche se ora appaiono scollegati e in contrasto fra loro: il “sentimento” indipendentista è reale e, nelle condizioni attuali, può tornare utile “pilotarlo”. Può essere, in ogni modo, una “carta di riserva” per qualsiasi eventualità. Anche questa possibile “eventualità” non sarebbe un “inedito”: basterebbe ricordare quanto si verificò in Sicilia alla fine degli anni Settanta: movimenti “separatisti” (forse anche armati) in contrapposizione, alcuni foraggiati dagli Stati Uniti d’America, altri dall’allora leader libico Gheddafi. L’obbiettivo identico: l’indipendenza della Sicilia! Poi, tutto rientrò nella cosiddetta normalità. Ogni evento, infatti, è rapportato alla condizione socio-politico-militare del momento che si vive. E la “condizione” che vive oggi quest’area della Terra, l’area del Mediterraneo, non può certo definirsi ottimale.

Per conto di chi parla Edward Nicolae Luttwak, e perché la sua presenza in Sicilia è diventata stabile (o quasi)? Sappiamo bene che in questo scacchiere mediterraneo la Sicilia occupa un posto primario: la presenza militare USA ne è una facile dimostrazione. L’autorevolezza di Luttwak in merito alle questioni internazionali è ampiamente riconosciuta e nulla accade a caso: alimentare in questo delicato momento politico italiano la voglia d’indipendenza innata nei Siciliani ha, dunque, uno scopo?


Sicilia, un’isola che serve

19 agosto 2015

di Salvo Barbagallo

La Sicilia è un’isola che serve. A tanti.

La Sicilia è stata, è, e resterà costantemente al centro di interessi internazionali, pochi Siciliani lo sanno, la maggior parte dei Siciliani ignora cosa accade a casa loro, vinti dall’indifferenza e dall’apatia per mancanza di strumenti validi per contrapporsi alle malefatte di una classe di governanti che non cura il benessere della collettività. C’è una voglia generalizzata di essere “indipendenti” che non riesce a emergere, anche se una serie di micro organismi associativi opera (maldestramente) per rinverdire un sentimento atavico che cova sotto le ceneri delle speranze bruciate. Non si tratta soltanto del represso desiderio di riscatto, ma della necessità di reagire che stenta ad affiorare per la mancanza di una “guida” credibile che sappia indirizzare verso una concreta progettualità di vero “cambiamento” che smascheri il continuo “mutamento” trasformista.

E’ un momento “interessante” quello che sta vivendo attualmente la Sicilia: potrebbe verificarsi nei Siciliani un imprevisto “risveglio” d’orgoglio che potrebbe trasformarsi in reale “pericolo” per coloro che vogliono mantenere l’Isola nelle condizioni in cui si trova da decenni. Un “risveglio” spontaneo sarebbe difficile da controllare, e la storia (dimenticata) ne ha dato prova, quando nel 1944 (Italia ancora in guerra, Sicilia occupata dagli angloamericani) esplose con oltre cinquecentomila iscritti la forza del Movimento per l’Indipendenza della Sicilia. Per annullare quella spinta spontanea furono necessarie repressioni, intrighi, omicidi e una (pseudo) concessione forzata di Autonomia. Certo, i tempi sono diversi, ma il timore (o il terrore) di un possibile risveglio in chi segue per professione (analisti politici e militari) le vicende siciliane, il timore (o il terrore) c’è. A fronte di questo timore (o terrore) quanti (analisti politici e militari) stanno studiando l’attuale situazione siciliana? E quanti preventivamente stanno programmando un piano per contrastare (o favorire) una eventualità del genere? Sono interrogativi che in pochi (?) si pongono, mentre per molti (?) i “wargames” sono pane quotidiano professionale. Ecco perché, a nostro avviso, l’intervista che Edward Nicolae Luttwak ha rilasciato a Enrico Deaglio ( su “Venerdì” di Repubblica) risulta inquietante.

Troppi elementi espressi da Luttwak nel contesto del colloquio con il giornalista fanno presupporre che l’esperto di politica internazionale e consulente strategico del Governo americano (e presunto uomo della CIA) abbia espressamente lanciato un sasso nello stagno: per smuovere le acque torbide, o con altra finalità? Siamo stati sempre convinti che nulla accade a caso, convinti anche che un personaggio come Luttwak non parli per semplice narcisismo, o tanto meno per fornire qualche elemento sul quale qualcuno possa soffermarsi a riflettere, o (ancora più superficialmente) per dare qualche indicazione di natura autobiografica. Su quest’ultimo aspetto (autobiografico), fra le righe dell’intervista a Deaglio, apprendiamo che il padre di Luttwak giunse a Bagheria nel 1943 a seguito (con quale ruolo?) delle truppe del generale Patton, per ritornarvi nel 1947 e intraprendervi attività commerciale. Bagheria – luogo dell’infanzia – è la cittadina dove attualmente Edward Luttwak risiede facendo la spola con gli Stati Uniti d’America. Queste “origini” del politologo già dovrebbero mostrare qualcosa. Cosa?

Sono alcuni flash nell’intervista che meritano attenzione. Luttwak afferma: “…io li ho vissuti i tempi dell’indipendentismo e del bandito Giuliano. Mio padre ci portava la domenica a prendere l’aria fresca a Montelepre…”. Edward Luttwak è nato ad Arad il 4 novembre del 1942: cosa ha vissuto dell’indipendentismo siciliano o di Giuliano? Ricordi? Forse il padre era addentro alle segrete cose?

Elementi biografici a parte, è la risposta che Luttwak dà alla domanda di Deaglio riferita agli USA – “E adesso la Sicilia è ancora la portaerei del Mediterraneo?” – che non convince e che potrebbe far mettere in discussione la sua buona fede: “No. Finito. Gli Stati Uniti si sono disimpegnati dal Mediterraneo e dal Medio Oriente, gli interessi americani oggi sono in Asia. Si, certo, resta la base di Sigonella. Che poi non è così importante…”. Ma Luttwak chi vuol prendere per i fondelli?

Una buccia di banana, o un maldestro tentativo di disinformazione quest’ultima affermazione? No, forse qualcosa d’altro… Edward Luttwak non scivola su bucce di banane e se vuol fare disinformazione lo farebbe senza che qualcuno se ne potesse accorgere.

Analizziamo questa frase in alcune sue parti. “…Gli Stati Uniti si sono disimpegnati dal Mediterraneo e dal Medio Oriente…”: affermazione eclatantemente bugiarda e volutamente falsa. Perché? Di certo non per farsi dire che è ignorante: Luttwak ignorante non è! Allora?

“… Si, certo, resta la base di Sigonella. Che poi non è così importante…”. Stessa osservazione di prima: quanto afferma Luttwak è eclatantemente bugiardo e volutamente falso. Perché? L’importanza della Naval Air Station USA di Sigonella è nota in tutto il mondo: oltre a essere il più grande deposito di materiale bellico statunitense in questa parte del globo, e punta avanzata del sistema difensivo USA nel sud, ha in attività al suo interno i micidiali Global Hawk (i droni senza pilota fortemente armati), ha in allestimento a pochi passi, a Niscemi, il temibile MUOS (il più moderno sistema elettronico mondiale di controllo delle comunicazioni e altro), resta sempre la base di approvvigionamento della Sesta Flotta di stanza nel Mediterraneo dal dopoguerra ad oggi.

Ma Luttwak sa bene che la presenza USA non è circoscritta a Sigonella e Niscemi: c’è la base navale di Augusta dove i lavori segreti per allargare i depositi di armi (anche nucleari?) non finiscono mai, ci sono tante altre installazioni USA sparpagliate nei posti più impensati della Sicilia. Perché, dunque, Edward Luttwak sminuisce (apparentemente) presenza e interessi USA in Sicilia e, poi, suggerisce una possibile secessione dell’isola?

La Sicilia è un’isola che serve, che è indispensabile agli americani. Se Edward Nicolae Luttwak suggerisce qualcosa (a chi?) sicuramente non lo fa per proprio tornaconto. E’ un discorso che porta lontano, riflessioni che meritano ulteriori approfondimenti. Come lo stesso luogo dove risiede, Bagheria… Continueremo a trattare questo argomento.


Sicilia colonia? No, territorio occupato militarmente

16 gennaio 2016

di Salvo Barbagallo

Giulio Ambrosetti, giornalista palermitano di vecchia data, già redattore del quotidiano L’Ora, ripropone sul quotidiano online La Voce di New York nell’edizione di alcuni giorni addietro (13 gennaio) la tematica della “Sicilia colonia”. Una tematica che La Voce dell’Isola affronta da anni e che (probabilmente) continuerà a trattare, pur consapevoli coloro che scrivono in merito dell’antico proverbio “non c’è più sordo di chi non vuole sentire”. Riteniamo circostanza “normale” che governanti e politici non vogliano “ascoltare” argomentazioni “scomode”, la cosa grave è che, purtroppo, sullo stesso livello si pone la stragrande maggioranza degli stessi Siciliani. Disinteresse e indifferenza sovrastano qualsiasi iniziativa tendente a risvegliare una coscienza collettiva. Gli sparuti e contrapposti gruppi di “Sicilianisti” o “Indipendentisti” esistenti hanno dimostrato di non essere in grado di condurre un’azione omogenea efficace per eliminare proprio quella cappa di disinteresse e indifferenza che copre, quasi “complice” di governanti e politici, tutte le malefatte che si continuano a perpetrare a danno di questa Isola.

Giulio Ambrosetti afferma nel suo reportage: La Sicilia vive oggi una stagione paradossale: considerata importantissima dagli USA (Muos di Niscemi e base aerea e nucleare di Sigonella), dalla Russia di Putin e dalla Cina, conta quasi zero in Italia, dove viene calpestata dai governi nazionali. E’ un caso se Luttwak, oggi, parli di una Sicilia che deve puntare sull’Indipendenza? Dimenticando che, negli anni ’40 del secolo passato, furono proprio gli USA a decretare la fine del Separatismo per appoggiare la DC (e il PSDI). Puntando sul controllo sostanziale dell’Isola mediante Gladio (e sulla mafia che di Gladio, fino al 1992, è stata una quasi-estensione…).

Ambrosetti fa riferimento a Edward Luttwak, e noi rimandiamo a quanto scritto su queste stesse nostre pagine nel settembre dello scorso anno.

 “Da tempo ha casa a Bagheria e fa la spola con gli Stati Uniti d’America, ma in Sicilia (da tempo) è passato e passa (quasi) inosservato. Se non fosse stato per una (pseudo) polemica insorta con Pietrangelo Buttafuoco (lo confessiamo) non avremmo avuto modo di leggere un bel servizio di Enrico Deaglio sul “Venerdì” di Repubblica che parla del personaggio che “vive” in Sicilia e, soprattutto, perché “è, e resta” in Sicilia: parliamo di Edward Luttwak, un nome che (purtroppo) ai più non dice nulla. Chi è Edward Nicolae Luttwak? Basterebbe prendere le prime righe di Wikipedia per incominciare a darsi una risposta: Edward Nicolae Luttwak (Arad, 4 novembre 1942) è un economista, politologo e saggista romeno naturalizzato statunitense, conosciuto per le sue pubblicazioni sulla strategia militare e politica estera, esperto di politica internazionale e consulente strategico del Governo americano”. E noi non vorremmo andare oltre a parlare di questo personaggio che si dice “lavori” per la CIS, se non fosse per l’intervista di Deaglio nel corso della quale Luttwak afferma di “essere l’unico ad avere la ricetta per la Sicilia”, spiegando anche come uscire dal degrado dove si trova immersa l’Isola e i suoi abitanti. Cosa dice di “interessante” il politologo “made in Usa”? Ascoltate, ascoltate, o leggete (che è meglio) in cosa consiste la “ricetta” per i Siciliani: “E’ semplice. Rialzando con orgoglio il loro vessillo indipendentista sanguinante, i siciliani si riuniscono in assemblea e dichiarano la loro separazione da Roma. Non vogliono più un soldo da chi li ha asserviti e distrutti. Il loro capo – che vedrei bene indossare un elmetto – prima di tutto dichiara che in ogni caso non vorrà essere rieletto, poi procede al licenziamento di tutti i dipendenti pubblici della Regione. Sarà riassunto solo chi ha intenzione di lavorare. Viene dato spazio all’iniziativa privata, al commercio, al turismo, alla cultura. Viene incoraggiato il co-investimento. Vengono ristrutturati i porti eliminando la burocrazia, viene alacremente costruito un hub portuale internazionale nella piana di Enna. L’isola non sarà più governata dalla mafia, dalla politica, dal Calogero Sedera, ma dai siciliani veri, compresi i suoi nobili, come ai tempi di Federico II. E di nuovo stupirà il mondo”…

Abbiamo analizzato a fondo la “provocazione” di Edward Luttwak, interpretandola anche come un ambiguo messaggio rivolto a chissà chi. Luttwak è al “servizio” degli Stati Uniti d’America, e gli USA non hanno alcun interesse a “dare” l’indipendenza alla Sicilia, tenuto conto che la Sicilia hanno già occupato militarmente e in forma stabile, basti considerare i miliardi di dollari spesi (meglio dire: investiti) per le installazioni tipo Sigonella, MUOS o Augusta, eccetera. Quindi, a nostro avviso, Sicilia “non” colonia, ma più semplicemente territorio “occupato”. Per tutti gli usi (o abusi?) necessari.

Corrette le osservazioni e l’analisi retrospettiva di Giulio Ambrosetti: sono degne di nota, e riteniamo di fare cosa utile ai nostri lettori riportando per intero il suo reportage.


La Sicilia: strategica a livello internazionale, ma ‘ultima delle colonie’ in Italia

Giulio Ambrosetti

La Sicilia vive oggi una stagione paradossale: considerata importantissima dagli USA (Muos di Niscemi e base aerea e nucleare di Sigonella), dalla Russia di Putin e dalla Cina, conta quasi zero in Italia, dove viene calpestata dai governi nazionali. E’ un caso se Luttwak, oggi, parli di una Sicilia che deve puntare sull’Indipendenza? Dimenticando che, negli anni ’40 del secolo passato, furono proprio gli USA a decretare la fine del Separatismo per appoggiare la DC (e il PSDI). Puntando sul controllo sostanziale dell’Isola mediante Gladio (e sulla mafia che di Gladio, fino al 1992, è stata una quasi-estensione…).

Quanto conta oggi la Sicilia nello scacchiere internazionale? Tanto, tantissimo. Il Muos di Niscemi, i droni e le armi nucleari di Sigonella lo stanno a dimostrare. E non mancano anche gli interessi dei russi e dei cinesi. Quanto conta, invece, la Sicilia nello scenario nazionale? Nulla. Da qui una terza domanda: come può un’Isola che è al centro del Mediterraneo, luogo strategico sotto il profilo militare, non contare niente in Italia? A cos’è funzionale una Regione che dovrebbe essere autonoma – quasi come uno Stato degli Stati Uniti d’America, a giudicare da quanto c’è scritto nel proprio Statuto – e che invece è il fanalino di coda del Belpaese, umiliata e bistrattata dai governi nazionali di turno ?

La Sicilia, con l’avvento della Repubblica italiana, non ha mai contato tanto. L’Italia repubblicana ha sempre mal visto l’Autonomia siciliana, conquistata dai siciliani nel 1946, quasi due anni prima dell’entrata in vigore della Costituzione del 1948. Da allora ad oggi l’Italia ha sempre provato a togliere alla Sicilia l’Autonomia, che è il frutto delle lotte del Movimento Separatista, in auge nel’Isola negli anni subito successivi alla Seconda guerra mondiale. In buona parte lo Stato italiano è riuscito a smantellare l’Autonomia siciliana, non abrogando lo Statuto, ma limitandosi a non applicarlo in molte sue parti, con la connivenza delle ‘presunte’ classi dirigenti siciliane. Oggi siamo alla resa dei conti, se è vero che il governo Renzi e il PD vogliono smantellare del tutto lo Statuto siciliano, dopo che la Corte Costituzionale – unico organo dello Stato che il Partito Democratico di Renzi non controlla – ha dato ragione alla Regione siciliana su alcune controversie finanziarie. Così lo Stato, per evitare, tra qualche anno, di dare alla Regione un bel gruzzolo di miliardi di Euro, vuole smantellare l’Autonomia siciliana.

Oggi proveremo a ripercorrere, per grandi linee, i rapporti tra Sicilia e Stato italiano, che, oggi più di ieri, rimangono due soggetti con interessi contrapposti. Per raccontare e cercare di capire quello che sta succedendo oggi dobbiamo partire da lontano: dagli accordi di Yalta. E’ nel corso di un vertice internazionale tenuto in questa città che, nel febbraio del 1945, Franklin Delano Roosevelt, Winston Churchill e Iosif Stalin decidono che cosa sarebbe stato il mondo dopo la seconda guerra mondiale. E’ interessante, a tal proposito, un libro-intervista a Gianni De Michelis, Ministro degli esteri nella Prima Repubblica – L’ombra lunga di Yalta – dato alle stampe negli anni ’90 del secolo passato. De Michelis, che è stato un esponente di spicco del PSI di Bettino Craxi, racconta che a Yalta i potenti della terra decidono che l’Italia – che, non dimentichiamolo, aveva perso la guerra – non avrebbe fatto la fine della Germania. Non sarebbe stata divisa a metà tra russi da una parte e Occidente dall’altra parte. Sarebbe rimasto un Paese unito nel quale, però, americani e russi avrebbero esercitato una forte influenza: gli americani con i Dollari per sostenere una forza politica occidentale che poi sarebbe stata la DC (ma anche il PSDI, nato da una costola del PSI con i soldi degli americani); i russi con i Rubli, attraverso quello che sarebbe diventato uno dei più forti Partiti comunisti d’Occidente.

Apparentemente la tesi di De Michelis sembra un po’ strana, perché gli americani, in questa mancata spartizione in due dell’Italia, partivano avvantaggiati. In realtà, le cose non stavano così, per due motivi. Primo motivo: con i Rubli, come già accennato, i russi avrebbero creato in Italia uno tra i più forti Partiti comunisti d’Europa. Secondo motivo: Stalin era un grande statista e già nel 1945 sapeva cos’aveva in testa Tito: sapeva, cioè, che il leader comunista della Jugoslavia avrebbe detto addio all’Unione Sovietica (cosa che si è puntualmente verificata). E sapeva anche che se l’Italia fosse stata divisa in due come la Germania – metà all’Occidente e l’altra metà all’Unione Sovietica – la parte comunista del Belpaese avrebbe seguito Tito tra i Paesi non allineati con l’ ‘Impero’ comunista Sovietico.

La Repubblica italiana del 1948, insomma, nasce con una Costituzione bellissima, ma si sostanzia, di fatto, in un Stato a sovranità limitata: un Paese che, fino alla caduta del Muro di Berlino, funzionerà con i Dollari degli americani ai partiti occidentali – DC in testa, ma non solo DC – e con i Rubli al PCI. Si trattava di finanziamento illecito della politica di cui tutti erano a conoscenza e che soltanto l’ipocrisia e la proverbiale disinformazione italiana ha volutamente ignorato. Lo stesso Craxi parlerà dei finanziamenti al Partito Comunista Italiano dopo l’esplosione di Tangentopoli, quando intuirà che la magistratura, vuoi perché imbeccata in una certa maniera, vuoi perché tradizionalmente vicina al PCI, puntava allo smantellamento della DC e del PSI. Prima di Tangentopoli al leader del PSI non sarebbe mai saltato in testa di smascherare un sistema di finanziamento illecito dei partiti nel quale i socialisti erano coinvolti assieme ad altre formazioni politiche.

Resta da capire che parte ha svolto la Sicilia da Yalta in poi, che è quello che ci interessa raccontare in questo articolo. L’argomento è importante, perché ci consente di provare a capire il perché, oggi, l’Isola, pur essendo strategica, non conta nulla in Italia. Il ruolo degli americani, in Sicilia, è stato centrale: e lo è tutt’ora, anche se con obiettivi diversi rispetto alla già citata Prima Repubblica. ‘Leggere’ i fatti di mafia – e soprattutto i grandi delitti di mafia – al di fuori dell’influenza che gli Stati Uniti, la Nato e, soprattutto, Gladio hanno esercitato in Sicilia, significa finire fuori strada. Tutti i passaggi importanti nella vita della mafia siciliana, dallo sbarco nell’Isola nell’estate del 1943 fino al 1992, sono stati se non mediati, di certo influenzati dagli americani e, in particolare, dalla già citata struttura nota come Gladio. Lo stesso giudice Giovanni Falcone verrà fatto saltare in aria con la moglie Francesca Morvillo e con la sua scorta dopo il suo rientro da un viaggio negli Stati Uniti.

Insomma, la mafia siciliana è stata fortemente influenzata dagli USA, o meglio, da Gladio. Le trentennali e in certi casi quarantennali latitanze assicurate a certi boss della mafia siciliana non sono stati certo il frutto di sole connivenze con parti dello Stato italiano ‘deviati’, ma anche, con molta probabilità, degli ‘interventi’ ‘esterni’ all’Italia.

E l’antimafia? Non è stata quasi mai una cosa seria (oggi, per certi versi, è addirittura ridotta a una sommatoria informe di comitati di affari). La lotta alla mafia del PCI è stata quasi sempre strumentale: fatta quasi mai per colpire la mafia e quasi sempre per eliminare avversari politici. E quei pochi dirigenti di questo partito che hanno provato a fare una vera lotta alla mafia, o sono stati messi da parte: è il di Girolamo Li Causi; o sono stati ammazzati: è il caso di Pio La Torre. Non è un caso che l’esperienza del governo siciliano di Silvio Milazzo, tra la fine degli anni ’50 e i primi anni ’60 del secolo passato – operazione politica mediata dalla mafia – abbia visto contrari sia Li Causi, sia La Torre, ovvero i due dirigenti che sono sempre stati contro la mafia non strumentalmente, ma seriamente. Li Causi e Pio La Torre erano contrari al coinvolgimento del PCI nel governo siciliano di Milazzo, anche se di questa esperienza il loro partito – il PCI – era l’anima assieme all’avvocato Vito Guarrasi, forse uno degli uomini più importanti nella storia della Sicilia che va dalla fine della seconda guerra mondiale fino al 1992.

Lo stesso discorso vale per la Dc e per i tanti sindacalisti uccisi in Sicilia dalla fine del secondo conflitto mondiale sino alla fine degli anni ’60: chi si opponeva alla mafia veniva ammazzato, talvolta con il consenso degli americani, qualche altra volta – se il personaggio non era di peso – in autonomia dalla mafia siciliana. L’uccisione, avvenuta il 6 Gennaio del 1980, dell’allora presidente della Regione siciliana, è un chiaro delitto politico con legami in ‘alto’. Chi scrive è convinto che dietro questo delitto si stagli l’ombra di Vito Ciancimino: non soltanto per la tutela di equilibri siciliani – che nel caso di Piersanti Mattarella c’entrano, eccome! – ma anche perché Mattarella, come il suo maestro, Aldo Moro, avrebbe voluto aprire al PCI in un momento storico di grandi tensioni tra America e Russia, se è vero che, di lì a poco, gli americani avrebbero piazzato in Sicilia i missili Cruise, tra le proteste di oceaniche manifestazioni per la pace promosse da Pio La Torre: che non a caso, il 30 Aprile del 1982, verrà trucidato insieme con il suo autista, Rosario Di Salvo.

Va ricordato che Piersanti Mattarella – del quale in questi giorni è stato ricordato l’anniversario – guidava un governo regionale appoggiato all’esterno dal PCI. Un Partito Comunista che, già a metà 1979, premeva per entrare al governo della Regione. Moro – che era stato il punto di riferimento di Piersanti Mattarella nel suo partito, la DC – era già morto. Il presidente della Regione siciliana cercava un “sì” a Roma dal suo partito prima di varare il governo con il PCI. Ma il “sì” della DC non arrivò. I dirigenti del Partito Comunista, da parte loro, insistevano per entrare al governo della Sicilia, tant’è vero che avevano aperto la crisi alla Regione, togliendo l’appoggio a Piersanti Mattarella, di fatto indebolendolo. La morte, per Piersanti Mattarella, arriverà il 6 Gennaio del 1980, con il suo governo regionale in crisi, in un momento di grande debolezza politica. E di solitudine. Insomma, guardare alla storia della mafia al di fuori dallo strettissimo rapporto tra Sicilia e Stati Uniti – e perché non dirlo: al di fuori del rapporto tra Gladio e mafia – significa perdere di vista un riferimento fondamentale. La cosiddetta Pizza Connection – forse la più grande rete di distribuzione di stupefacenti messa su negli Stati Uniti tra la fine degli anni ’70 e i primi anni 80 – aveva teste e tasche in Sicilia. Tra l’incredulità delle forze di polizia americane, che all’inizio non ritenevano i mafiosi presenti in America capaci di tanto. Anche se è difficile credere che chi gestiva Gladio era disinformato sull’operazione Pizza Connection.

Già allora la Sicilia, presente con la mafia nell’operazione Pizza Connection, contava poco, sotto il profilo politico, in Italia. L’unico politico che aveva rilanciato per davvero l’Autonomia siciliana è stato il già citato Piersanti Mattarella, forse la figura più autorevole nella storia della politica siciliana dagli anni ’70 fino ai nostri giorni. Mattarella era troppo intelligente per non capire, dopo il ritrovamento del cadavere di Aldo Moro, che il suo governo e il suo ‘stile’ politico sarebbero stati messi in discussione. Non si è arreso e ha tentato di andare avanti: ma non è stato aiutato: né all’interno del suo partito, né tra i suoi alleati – il PCI – che anzi l’aveva mollato.

Dopo Mattarella è il presidente della Regione Rino Nicolosi, nella seconda metà degli anni ’80, che prova a dare un po’ di lustro alla Sicilia. Ma si trova ad operare in un contesto già compromesso e forse già segnato dagli albori di Mafiopoli e Tangentopoli. La stagione delle stragi siciliane del 1992 segna, con molta probabilità, non soltanto la fine della Prima Repubblica, ma anche la fine di una certa mafia. La cattura di Totò Riina – avvolta per certi versi nel mistero (si pensi al mancato sopralluogo delle forze dell’ordine nel suo covo: una storia incredibile!) – e la breve gestione di Bernardo Provenzano segna una fase di debolezza e coincide con la debolezza di un’Italia, entrata intanto nell’Euro senza averne calcolato gli effetti, soprattutto in materia di debito pubblico controllato da investitori esterni al Belpaese.

Per la Sicilia gli anni che vanno dalle stragi del 1992 ai nostri giorni sono anche peggiori. Lo Stato, con la scusa dei fondi europei, taglia al Mezzogiorno le risorse ordinarie. E’ una truffa ai danni del Sud Italia, perché i fondi europei, per definizione, debbono essere aggiuntivi e non sostitutivi rispetto all’intervento dello Stato. Di questo raggiro avrebbe dovuto farsi carico l’Unione Europea, che invece glissa, di fatto abbandonando Mezzogiorno d’Italia e, soprattutto, la Sicilia al proprio destino di deindustrializzazione e, in generale, di desertificazione economica.

Nell’impoverimento del Sud e della Sicilia ha una grandissima responsabilità la Banca d’Italia guidata da Carlo Azeglio Ciampi e dai suoi successori. Sono questi signori che, per salvare alcune banche del Centro Nord Italia, decidono, tra i primi anni ’90 e il 2000, di togliere al Meridione ne banche. Così il Sud perde, in un solo colpo, il proprio sistema creditizio di riferimento. In Sicilia lo scippo, anzi la rapina, a tutti gli effetti, di Banco di Sicilia e Sicilcassa avviene in modo pesante, con una serie di forzature al limite del Codice penale.

Oggi la Sicilia, come detto all’inizio, non conta nulla in Italia. La trasformazione di una Regione che, negli anni, aveva mantenuto piccoli spazi di autonomia in una ‘colonia italiana’ coincide con il centrosinistra al potere: a Roma con il governo Renzi, ai vertici della Regione dal 2008 fino ai nostri giorni e in tanti Comuni dell’Isola. Al di là delle notizie interessate che si leggono qua e là, lo scenario economico, in Sicilia, è disastroso. A raccontarlo sono i numeri sull’occupazione.

La Sicilia è oggi la Regione europea con il più basso tasso di occupazione (42,4%) tra le persone la cui età varie da 20 a 64 anni. Se si fa un raffronto con Bolzano – che è l’area d’Italia con il più alto tasso di occupati (76,1%), ci si accorge che c’è una differenza di circa 34 punti! Non va meglio con l’occupazione femminile: a Bolzano il tasso di occupazione delle donne si attesta a quasi il 70%; in Sicilia si ferma al 29,6%! Anche tra i giovani cosiddetti Neet (ragazzi tra i 18 e i 24 anni che non lavorano, non studiano e che non si preoccupano nemmeno di cercare un lavoro) la Sicilia detiene, se così si può dire. Il ‘record: a fronte di una media europea del 16,3% (in calo rispetto al picco del 17,1% del 2012), l’Isola registra una percentuale di Neet che supera il 40%, pari solo alla Calabria, altra Regione del Sud Italia.  e Sicilia.

A fronte di questi dati lo Stato italiano, invece di premurarsi per risollevare le sorti del Mezzogiorno, se ne fotte altamente. Anzi, continua a depredare risorse al Sud per portarle nel Centro Nord Italia. Questo ha fatto lo scorso anno il governo Renzi, che ha strappato al Meridione 12 miliardi di fondi nazionali e, soprattutto, europei (fondi PAC, sigla che sta per Piano di Azione e Coesione) non spesi per finanziare gli sgravi fiscali (cioè il Jobs Act) alle imprese, che nel 90 per cento dei casi hanno sede nel centro Nord Italia. Il miglioramento dell’occupazione – che riguarda il Centro Nord non il Sud – è il frutto dei soldi rubati alle Regioni del Mezzogiorno dal governo Renzi e trasferiti al Centro Nord.

Con questo modo goffo di governare l’Italia, Renzi e il PD s’illudono di salvare almeno il Centro Nord del Paese. Ma non sarà così, perché ormai l’Euro – cioè la moneta unica europea – va diventando ogni giorno più insostenibile. Se n’è accordo anche Giuliano Amato, che in un video che circola in questi giorni sulla rete, e che potete vedere qui sotto, dice a chiare lettere che l’Euro è stato un errore, una pretesa “faustiana”. Amato ammette che tanti economisti americani avevano avvertito l’Europa che una moneta, senza una vera banca centrale alle spalle, avrebbe creato rischi gravi. Perché anche un solo Paese in crisi, in assenza di strumenti di riequilibrio, avrebbe determinato problemi enormi. “Ci siamo illusi che coordinando le politiche economiche nazionali ce l’avremmo fatta”, ammette oggi l’ex capo del governo italiano. Ma è stato un disastro, anche perché non solo non ci sono strumenti di riequilibrio, ma i trattati firmati tra gli Stati dell’Unione Europea impediscono, addirittura, possibili azioni di riequilibrio.

Il risultato è che, oggi, nell’Eurozona, sono tanti i Paesi in difficoltà, dalla Grecia alla Finlandia, dall’Italia al Portogallo, fino alla Spagna. Mentre nei Paesi dell’Unione Europea che non hanno aderito all’Euro (dall’Inghilterra ad altri Paesi del Nord Europa), la crisi economica non è grave e, in alcuni casi, non c’è affatto. L’Euro esiste e resiste ancora per le pressioni massoniche e per volere della Germania. Ma adesso – complice anche l’incontrollata ondata di immigrati e il terrorismo – molte cose stanno cambiando.

In questa crisi dell’Euro la Sicilia è infognata fino al collo. E qui torniamo al paradosso che abbiamo sottolineato all’inizio di questo articolo: ininfluente nel Belpaese, dove la Sicilia è trattata come l’ultima delle colonie di un’Italia che è sempre più “un’espressione geografica” con un Centro Nord che deruba sistematicamente il Sud con la ‘regia’ del governo Renzi, l’Isola è invece sempre più strategica per le potenze mondiali. Gli americani hanno piazzato in Sicilia, dalle parti di Niscemi, il Muos, un mega radar con il quale si gestiscono guerre in mezzo mondo. I russi, ai tempi dell’ultimo governo Berlusconi, hanno messo un piede nell’Isola, rilevando una raffineria nel Siracusano che è diventata una base dove arriva benzina già raffinata venduta nei distributori con il marchio Lukoil. Anche i cinesi hanno tentato di arrivare in Sicilia proponendo la realizzazione di un aeroporto – che sarebbe dovuto diventare un hub internazionale – nella provincia Ennese. Progetto bloccato, sembra da altre potenze straniere (non dall’Italia, che ormai, a livello internazionale, conta quanto la Sicilia in Italia: quasi una nemesi storica…).

Che la Sicilia non conti nulla l’ha capito anche il politologo Edward Luttwak, che sostiene che l’Isola, oggi, dovrebbe riconquistare la propria indipendenza, per uscire fuori dall’Italia Magari per entrare nell’area del Dollaro, visto che l’Euro, come già ricordato, è sempre meno sostenibile?

Di fatto, anche in Sicilia, da qualche tempo a questa parte, è ricominciato a soffiare il vento dell’Indipendentismo. Saranno proprio gli americani, cioè coloro i quali, tra il 1946 e il 1947, decretarono l’eliminazione del Movimento separatista siciliano, puntando sulla DC e sui socialisti ‘addomesticati’ del PSDI di Saragat a rilanciare l’Indipendenza della Sicilia?

Di Luttwak abbiamo già detto. Tutto dipenderà dalla velocità con la quale finirà la disastrosa esperienza dell’Euro. E forse anche dagli scossoni che ormai scuotono la stessa Unione Europea. Perché a furia di insistere con la moneta unica europea, per un motivo o per un altro, sta fallendo anche l’Unione Europea, tra terrorismo e sostanziale abolizione del trattato di Schengen sulla libera circolazione delle persone.

 

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