Riina resti pure dove sta, ma il 41 bis non funziona
La Corte di Cassazione ha stabilito che le condizioni di salute di Totò Riina sono gravi ed è necessario un suo trasferimento per ricevere “una morte dignitosa”. Il tribunale di sorveglianza di Bologna ha rifiutato questa opzione e si sono scatenate le polemiche. Ma qual è la giusta domanda da porsi?
Spesso si cade in un equivoco. A volte vi si vuole cadere. Altre volte accade in buona fede. Sia il risultato della buona o della cattiva fede, si finisce così col perdere di vista la questione essenziale. Conviene allora fermarsi, lasciar perdere il chiacchiericcio, attendere che il polverone si diradi, che il bla bla bla si acquieti. E ricominciare cercando, per il possibile, di ragionare (se si sa, se si vuole).
Si prenda la recente sentenza della Corte di Cassazione sulle condizioni di salute di Totò Riina, attualmente detenuto nel carcere di Parma, condannato a svariati ergastoli per i mille crimini commessi e ordinati. Riina è sottoposto al regime duro previsto dal 41 bis. La famiglia e gli avvocati della difesa chiedono che – dato il suo precario stato di salute – gli sia revocato il regime “speciale”. Il tribunale di sorveglianza di Bologna ha detto di no, che Riina deve restare dove sta. Di qui il ricorso alla Cassazione e la sentenza “scandalo”. Sono sette paginette, non è faticoso procurarsela e leggerla. È scritta in “giuridicese”, ma non è difficile “tradurre” i passaggi più tecnici.
Si preferisce invece (non è la prima volta) la sagra delle dichiarazioni, non importa di chi, non importa a che titolo, men che mai la competenza: l’importante è alimentare un festival fatto da chi chiede una giustizia simile alla vendetta e da chi ribatte con una giustizia venata di perdono. Astenersi da questo “torneo” è igienico.
Nella sentenza, per esempio, non si dice che Riina va scarcerato. Allora perché discutere se sia giusto o meno farlo? Eppure non mancano gli indignati. Nella sentenza si ricorda che nella Costituzione esiste l’articolo 27 che recita: “[…] Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Non è ammessa la pena di morte”. La Costituzione vale per tutti, Riina compreso. Si può dire: ahinoi! Ma allora si proponga una modifica dell’articolo 27 che non permetta a persone come Riina di avvalersi di questo diritto e che conceda, in quei casi, di derogare i trattamenti contrari al senso di umanità.
La sentenza dice che tutti hanno diritto a una morte dignitosa. È scandaloso dirlo, pensarlo, crederlo? Ha senso sostenere che chi questa morte l’ha negata a tanta parte del suo prossimo non merita quel tipo di “riguardo”? Allora si sia conseguenti: si introduca un codicillo tipo la legge del taglione che valga solo per persone come Totò Riina (magari con interessi: due occhi per un occhio, due piaghe, per una piaga…).
Ma si ripete: si rischia di perdere di vista la questione essenziale, su cui ci si dovrebbe interrogare e riflettere. La questione che pone Giuseppe Ayala, per esempio. Amico di Giovanni Falcone, pubblico ministero del primo Maxi-Processo a Cosa Nostra, dice cose che meritano una riflessione: “Molti parlano senza conoscere la legge. Ciascun detenuto anche il più sanguinario, e Riina è un sanguinario, ha diritto di essere curato al meglio. Lo dice la legge che prevede il trasferimento, nel caso si renda necessario, in un carcere ospedaliero. Ne esistono molti in Italia e funzionano bene. Se poi si verificasse che le attrezzature a disposizioni non sono sufficienti a curare il detenuto malato, questi può essere trasferito in un ospedale normale, ben piantonato ovviamente. La scarcerazione non c’entra nulla con quel che dice la legge, dunque non si capisce perché Riina debba lasciare il carcere e tornarsene a casa. Al massimo può finire in ospedale. E non si capisce perché per un detenuto come Riina debba valere il percorso contrario a quello che si adotta per ogni essere umano”.
Riina è ancora il boss pericoloso che qualcuno dice sia? “Non lo so, bisognerebbe far parte di una qualche cosca per saperlo. So però che viene ancora considerato il capo dei capi. Se è così, dopo 24 anni di detenzione con il 41 bis vuol dire che lo Stato su questo terreno ha fallito ed è stato sconfitto. Se Riina continua o ha continuato nei suoi 24 anni di detenzione a dare ordini, mi dispiace dirlo ma lo Stato ha perso”.
Un ragionamento che non fa una grinza.
Il procuratore nazionale antimafia Franco Roberti ritiene che Riina sia ancora il capo indiscusso della Cosa Nostra, mentre il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri va più in là: Riina anche con un solo battito di ciglia, con la sua sola presenza, sarebbe in grado di dettare legge ai suoi accoliti. Se hanno ragione i Roberti e i Gratteri occorre essere conseguenti e fare nostro il ragionamento di Ayala: se dopo 24 anni di detenzione con il 41 bis Riina continua a essere il “boss dei boss”, se può ancora dare ordini all’esterno, e questi ordini vengono tenuti in considerazione e nel caso eseguiti, non si deve concludere che lo Stato perde, ha perso, e che il 41 bis non funziona e non ha funzionato?
LA VOCE DI NEW YORK