di Valter Vecellio
Che cos’era la mafia Sciascia lo scrive spesso già dagli anni ‘60 per Il Giorno, voluto e finanziato da Enrico Mattei, il padre-padrone dell’ENI, che anche di mafia finì con l’essere vittima. Articoli dove si racconta di Castelvetrano, il paese del bandito Giuliano, o la realtà di Riesi, dove si riporta il surreale dialogo tra due avvocati democristiani e un professore socialista
“Dizionario”. Così si chiama una rubrica di Leonardo Sciascia pubblicata sul Corriere della Sera. Il 4 novembre 1979 compila una voce, intitolata “Thompson”: “Gustave Flaubert, nel corso di un suo viaggio in Egitto nota con raccapriccio che un tale, Thompson appunto, aveva avuto la bella idea di incidere il suo nome su una colonna romana; e ne scrive a un amico: “La stupidità è qualcosa che non si lascia scuotere; niente l’attacca senza spezzarsi. E’ della natura del granito, dura e resistente. Ad Alessandria un certo Thompson ha scritto, sulla colonna di Pompeo, il proprio nome in lettere dell’altezza di sei piedi…Non c’è modo di vedere la colonna senza vedere il nome di Thompson, e di conseguenza senza pensare a Thompson. Il cretino si è incorporato al monumento e insieme con questo rende perpetuo se stesso”.
“L’esistenza di un cretino di questo tipo, non è casuale e sporadica: si tratta di una categoria numerosa, inesauribile e – quel che è grave – di buona salute…Non mi pare dubbio che nell’individuare e definire quel tipo umano, quella categoria, quel modo della stupidità, Flaubert volesse andare oltre i Thompson che incidono i loro nomi sui monumenti famosi, deturpandoli, e che volesse alludere a coloro che sulla fama altrui e nel tentativo di incorporarvisi e di deturparla, scrivono i loro nomi. Diceva del Thompson che aveva inciso il suo nome sulla colonna, ma con tutta probabilità pensava ai Thompson che tentavano – non la pietra facendo gemere ma i torchi tipografici – di scrivere il loro nome sull’opera di Flaubert. Nel suo detestare la stupidità, non ne scorgeva però il lato patetico, il significato in definitiva positivo: che l’unico modo di rendere omaggio all’intelligenza era per la stupidità quello di aggredirla”.
Di Thompson, di imbecilli che hanno fatto gemere i torchi tipografici, Sciascia ne incontra parecchi; e parecchi hanno atteso la sua morte, per incidere il loro nome. Si va da un sedicente esperto di cose mafiose autore di molte pubblicazioni, ognuna delle quali è la smentita della precedente; a un autore di romanzi gustosi e di meritato successo, che però a volte invece che rilasciare interviste meglio farebbe a dedicarsi alle sue storie Non ne faccio i nomi perché non intendo contribuire ad accrescere la loro visibilità, che appunto “incorporandosi” al monumento al pari di Thompson, con questo si rendono perpetui.
In un articolo per il Corriere della Sera, ripubblicato in quella bella antologia, che si chiama A Futura memoria, troviamo preziosi ragguagli su Il giorno della civetta:
“L’ufficiale dei carabinieri dalla cui conoscenza e amicizia mi era venuta l’idea di scrivere il racconto non era il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, ma l’allora maggiore Renato Candida, comandante del gruppo di Agrigento. Candida aveva acquistato una tale coscienza e nozione del problema mafia, che si trovò ad un certo punto a scrivere un libro molto interessante, che fu pubblicato dall’editore mio omonimo e che io recensii sulla rivista “Tempo Presente”. Pubblicato il libro, Candida fu regolarmente trasferito: alla scuola allievi carabinieri di Torino. Ed è da notare come allora ufficiali dei carabinieri e commissari di polizia, non appena mostrassero intelligenza e volontà nel combattere la mafia, venivano prontamente allontanati dalla Sicilia…”.
Sarebbe interessante sapere quanti, tra poliziotti e carabinieri hanno condiviso il destino di Candida, e per quale motivo concreto sono stati rimossi. Cos’era la mafia, Sciascia lo scrive in lunghe corrispondenze, per esempio, per quel bel giornale che negli anni ‘60 è Il Giorno, voluto e finanziato da Enrico Mattei, il padre-padrone dell’ENI, che anche di mafia finì con l’essere vittima. Articoli dove si racconta di Castelvetrano, il paese del bandito Giuliano; o di Misilmeri; e quello, davvero esemplare, dove descrive la realtà di Riesi, e riporta il dialogo “con due avvocati e un professore”, due democristiani e un socialista. Parlano di mafia; e alla domanda di Sciascia: “Cosa fa di preciso la mafia?”, “Niente fa”, risponde il socialista, e il democristiano annuisce compiaciuto. “Si diceva”, continua il socialista, “badi bene: si diceva che la buonanima dello zio…fosse un capomafia. E che faceva? Due litigavano: lo zio…li portava al caffè, pagava sempre lui, e faceva stringere loro la mano. Opera di pace”. E ditemi se non sembra di trovarsi nella piazza del paese de Il giorno della civetta, con don Mariano Arena e tutti gli altri. Naturalmente Sciascia attinge alla sua conoscenza ed esperienza, anche diretta. Per descrivere il capomafia de Il giorno della civetta, fa ricorso alla diretta esperienza acquisita a Racalmuto, suo paese natale. Del resto, gli capita spesso di ritrovare quei personaggi, in carne ed ossa, come per esempio il capo mafia Peppino Genco Russo, boss di Mussomeli, che intervista nel 1964 per Mondo Nuovo.
In proposito merita di essere ricordato un episodio in margine a questo incontro. Finita l’intervista, l’avvocato che ha fatto da tramite, estrae una copia de Gli zii di Sicilia, vuole una dedica di Sciascia per il mafioso. Sciascia dall’imbarazzantissima situazione si trae d’impaccio scrivendo: “Allo zio di Sicilia, questo libro contro gli zii”. Mi chiedo se i critici e i contestatori di Sciascia sarebbero stati capaci di qualcosa di simile. C’è un aneddoto estremamente significativo; è un episodio che riguarda il mafioso italo-americano Vito Genovese da cui Mario Puzo trae ispirazione per il suo Padrino:
“Genovese, in America ricercato per omicidio si trovava in Sicilia nel 1943-44, sistemato come interprete presso il Governo Militare Alleato. Un poliziotto di nome Dickey, che gli dava la caccia, riesce finalmente a trovarlo. Facendosi aiutare da due soldati inglesi lo arresta; gli trova addosso lettere credenziali, firmate da ufficiali americani, che dicevano il Genovese ‘profondamente onesto, degno di fiducia, leale e di sicuro affidamento per il servizio’. Una volta arrestato cominciano i guai, non per il Genovese, ma per il Dickey. Né le autorità americane né quelle italiane vogliono saper niente dell’arresto. Il povero agente si trascina dietro per circa sei mesi l’arrestato, e riesce a portarlo a New York soltanto quando il teste che accusava di omicidio il Genovese è morto di veleno (come il luogotenente del bandito Giuliano, Gaspare Pisciotta, nel carcere di Palermo) in una prigione americana. Soltanto allora, cioè quando Genovese poteva essere assolto, Dickey poté assolvere il suo compito. E ci fermiamo a questo solo episodio “americano” e non come si suol dire, per carità di patria; ma perché troppi, e ugualmente esemplari, dovremmo raccontarne di casa nostra”.
Sciascia non rimpiange di aver scritto Il giorno della civetta, ma confessa di essere un po’ irritato per il fatto che lo si legge come un “ragguaglio folcloristico”. Altro che folclore: è un libro importante, la cui importanza prepotentemente emerge a ogni rilettura. In particolare quando si arriva a quella pagina in cui si suggerisce una precisa strategia investigativa:
“Questo è il punto su cui bisognerebbe far leva. E’ inutile tentare di incastrare nel penale un uomo come costui (don Mariano Arena, ndr): non ci saranno mai prove sufficienti, il silenzio degli onesti e dei disonesti lo proteggerà sempre. Ed è inutile, oltre che pericoloso vagheggiare una sospensione dei diritti costituzionali. Un nuovo Mori diventerebbe subito strumento politico-elettoralistico; braccio non del regime, ma di una fazione del regime…Qui bisognerebbe sorprendere la gente nel covo dell’inadempienza fiscale, come in America. Ma non soltanto le persone come Mariano Arena; e non soltanto qui in Sicilia. Bisognerebbe, di colpo, piombare sulle banche: mettere mani esperte nella contabilità, generalmente a doppio fondo, delle grandi e piccole aziende; revisionare i catasti. E tutte quelle volpi, vecchie e nuove, che stanno a sprecare il loro fiuto dietro le idee politiche o le tendenze o gli incontri dei membri più inquieti di quella grande famiglia che è il regime, e dietro i vicini di casa della famiglia, e dietro i nemici della famiglia, sarebbe meglio si mettessero ad annusare intorno alle ville, le automobili fuori serie, le mogli, le amanti di certi funzionari. E confrontare quei segni di ricchezza agli stipendi, e tirarne il giusto senso. Soltanto così ad uomini come don Mariano comincerebbe a mancare il terreno sotto i piedi…”.
Il denaro: che non puzza come ci hanno insegnato i latini, ma lascia comunque una traccia. Quello che i Thompson di “ieri” e di “oggi” per malafede o incapacità di vedere non hanno voluto cogliere, accusandolo addirittura di mitizzare la figura del capomafia. Mentre al contrario, Sciascia attraverso il capitano Bellodi suggerisce di lavorare sugli accertamenti bancari, sui patrimoni dei mafiosi, di chi i mafiosi li copre e di chi ne è complice. Quel tipo di strategia investigativa che sarà anni dopo tentata da Boris Giuliano, da Giovanni Falcone, e che costerà loro la vita.
C’è poi un’altra pagina che induce a una qualche speranza; quando il capo-mafia dice:
“…un padre ha il dovere di pensare all’avvenire dei figli…”.
Per questo ha effettuato cospicui depositi su conti intestati alla figlia. Bellodi di rimando:
“E’ più che giusto: e lei ha assicurato a sua figlia un avvenire di ricchezza…Ma non so se sua figlia riuscirebbe a giustificare quel che lei ha fatto per assicurargliela, questa ricchezza…So che per ora si trova in un collegio di Losanna: costosissimo, famoso…Immagino lei se la ritroverà davanti molto cambiata: ingentilita, pietosa verso tutto ciò che lei disprezza, rispettosa verso tutto ciò che lei non rispetta…”.
Anche se spesso, va detto, i figli e le figlie di certi padri e “padrini” si rivelano peggiori dei loro genitori. A conclusione de Il giorno della civetta Sciascia attraverso Bellodi racconta una storia, una sorta di apologo, molto istruttivo:
“Il medico di un carcere siciliano si era messo in testa, giustamente, di togliere ai detenuti mafiosi il privilegio di risiedere in infermeria: c’erano nel carcere molti malati, ed alcuni tubercolotici, che stavano nelle celle e nelle camerate comuni; mentre i caporioni, sanissimi, occupavano l’infermeria per godere di un trattamento migliore. Il medico ordinò che tornassero ai reparti comuni, e che i malati venissero in infermeria. Né gli agenti né il direttore diedero seguito alla disposizione del medico. Il medico scrisse al ministero. E così una notte fu chiamato dal carcere, gli dissero che un detenuto aveva urgente bisogno del medico. Il medico andò. Ad un certo punto si trovò, dentro il carcere, solo in mezzo ai detenuti: i caporioni lo picchiarono; accuratamente, con giudizio. Le guardie non si accorsero di niente. Il medico denunciò l’aggressione al procuratore della Repubblica, al ministero. I caporioni, non tutti, furono trasferiti ad altro carcere. Il medico fu dal ministero esonerato dal suo compito: visto che il suo zelo aveva dato luogo ad incidenti. Poiché militava in un partito di sinistra, si rivolse ai compagni di partito per averne appoggio: gli risposero che era meglio lasciar correre. Non riuscendo ad ottenere soddisfazione dell’offesa ricevuta, si rivolse allora a un capomafia: che gli desse soddisfazione, almeno, di far picchiare, nel carcere dove era stato trasferito, uno di coloro che l’avevano picchiato. Ebbe poi assicurazione che il colpevole era stato picchiato a dovere”.
Le ragazze che ascoltano il racconto di Bellodi trovano l’episodio “delizioso”. L’amico di Bellodi, “terribile”. Mi chiedo con una inquietudine che è molto di più che inquietudine in quante carceri, non solo siciliane accade quello che racconta Sciascia; e non solo nelle carceri, ma anche fuori, a Palermo, in Sicilia, in Italia. E mi chiedo quanti trovino “deliziosi” questi episodi, e troppo pochi ancora, li considerano “terribili”. Ma voglio chiudere con una nota di cauto ottimismo, la ricavo dallo stesso Sciascia: che sosteneva la necessità di contarsi e fare opinione da contrapporre alle opinioni dominanti: “Contarsi, come diceva Seneca, per gli schiavi”. Si scoprirebbe, diceva, che “magari siamo isolati, ma non soli”.
LA VOCE DI NEW YORK