di Alessandra Leone
Un dramma complesso, ricco di colpi di scena, in cui viene descritto il passaggio dell’eroe per antonomasia da una condizione di gloria alla degradazione più umiliante: un esempio di come, in un matto irragionevole gioco in cui nessuno è escluso, la sorte degli uomini possa cambiare da un momento all’altro; un grido che è un forte monito per la società di oggi e di domani e in cui si vede e si conferma l’attualità dell’antichità. L’Eracle, tragedia euripidea di incerta datazione che fa parte del cartellone del 54° Festival dell’Istituto Nazionale del Dramma Antico in scena dal 10 maggio all’8 luglio 2018 insieme all’Edipo a Colono di Sofocle e alla commedia aristofanea “I Cavalieri”, torna al teatro greco di Siracusa per la terza volta (finora è stata rappresentata soltanto nel 1964 e nel 2007). La regia sarà curata dalla palermitana Emma Dante, mentre la traduzione da Giorgio Ieranò, professore di Letteratura greca all’Università di Trento. Proprio a lui abbiamo rivolto qualche domanda, cercando di saziare qualche nostra curiosità e di guardare un po’ dietro le quinte di un’affascinante e magica realtà.
Gentilissimo prof. Ieranò, cosa prova a tornare al teatro greco di Siracusa dopo il successo dello scorso anno con i “Sette contro Tebe”?
«Per chi lavora sul teatro antico, Siracusa è il palcoscenico per eccellenza. Ed è il laboratorio che permette un confronto tra filologi e teatranti, tra chi studia la tragedia greca e chi la ricrea sulla scena. È un confronto necessario e vitale. Riusciamo a comprendere appieno i testi del dramma antico, tutti nati come copioni teatrali, solo facendoli rivivere attraverso l’intelligenza e il corpo di attori e registi. È la terza volta che traduco un dramma per Siracusa: nel 2012, le Baccanti con la regia di Antonio Calenda, l’anno scorso i Sette contro Tebe con Marco Baliani, e ora ho avviato la collaborazione con Emma Dante per l’Eracle di Euripide. Tre registi straordinari, tutti di grande fama e di notevole esperienza, ma diversissimi tra loro. L’aspetto interessante è appunto la possibilità di sperimentare diversi modi di mettere in scena un dramma antico. Perché, ovviamente, non ne esiste uno solo, quello “corretto” e “filologico”: il teatro è sempre ri-creazione, il testo teatrale rinasce ogni volta sulla scena e comunque, dato che sappiamo pochissimo dello spettacolo antico, spesso proprio le messinscene cosiddette “filologiche” finiscono con l’essere le più arbitrarie».
Quali i punti di forza e quali le difficoltà, qualora ce ne fossero, di una tragedia come l’“Eracle” di Euripide?
«L’Eracle è un dramma che contiene tutta la tastiera delle passioni, tutte le tonalità del teatro: la commozione e il furore, l’orrore e il pathos, il fiabesco e il grottesco, il cinismo e la commozione, gli affetti famigliari e il delirio dionisiaco. Eracle è, per così dire, una tragedia al cubo, un repertorio di tutte le possibilità del tragico. Anche dal punto di vista linguistico, Euripide usa registri molto vari: i dialoghi recitati sono spesso diretti, aspri, con toni a volte colloquiali. Viceversa, le parti liriche sono ispirate, epicheggianti, visionarie, solenni come forse in nessuna tragedia euripidea. La traduzione deve cercare di restituire qualcosa di questa complessità e varietà. Per questo, per esempio, per le parti dialogate ho scelto una resa in prosa (cosa che non avevo fatto per le altre tragedie), mentre nelle parti cantate mi sono orientato su una resa in versi».
Come e quando è nata la sua passione per il greco? A quale tragedia è particolarmente legato e perché?
«La passione per i greci antichi è nata guardando, da bambino, lo sceneggiato sull’Odissea che la Rai trasmetteva negli anni ’60. Scoprì allora che l’antichità poteva regalare sogni, emozioni, avventure e orizzonti fantastici diversi, e forse più affascinanti, di quelli che proponeva la contemporaneità. La tragedia a cui sono più legato? Anni fa avrei detto le Baccanti di Euripide, opera immensa, ambigua, inquietante. Oggi forse direi l’Agamennone di Eschilo, il “capolavoro dei capolavori” (“Kunstwerk der Kunstwerke”), come scriveva Johann Wolfgang Goethe a Wilhelm von Humboldt nel 1816 (e cioè in anni in cui Eschilo, tutto sommato, era ancora considerato un autore minore e più imperfetto rispetto a Sofocle ed Euripide) ».
Cosa può insegnarci oggi questa lingua così affascinante e la sua ricca letteratura?
«Ogni tanto riaffiorano vecchie domande: a cosa servono i classici? A cosa serve la letteratura antica? Che ce ne facciamo dei greci e del greco? Le risposte oscillano spesso tra due estremi. Ci sono i luoghi comuni pseudo-progressisti: quelli che dicono “studiamo informatica e non greco”, come se le due cose si escludessero (tra l’altro i primi esperimenti di digitalizzazione di testi letterari li hanno fatti proprio i grecisti americani); poi c’è il tradizionalismo un po’ trombone, quello che pontifica di “tradizione occidentale”, ci racconta che il liceo classico rende tutti automaticamente più saggi e più buoni, che il greco è la lingua più “geniale” del mondo (mentre il tedesco, com’è noto, è stupidissimo), e venera in modo acritico tutto quello che è antico per il solo fatto che è antico. Bisognerebbe parlare a lungo della questione. Mi si perdonerà se riduco tutto a un livello molto banale: credo che i greci abbiano inventato storie bellissime e che i loro grandi poeti abbiano detto prima e meglio di molti altri certe cose fondamentali sulla nostra vita (e sulla nostra condizione di mortali). Per questo vale ancora la pena leggerli».
Cosa cerca di trasmettere ai suoi alunni?
«In primo luogo li esorto a dubitare sempre di quello che scrivono i manuali e di quello che viene presentato come una verità indiscussa. Cerco di convincerli a ripensare ogni questione da capo, non per invitarli a essere presuntuosi, ma al contrario per educarli all’umiltà di non dare mai nulla per scontato. Al tempo stesso, cerco di ricordare loro che l’ultima cosa scritta su un argomento non è necessariamente la migliore. Per fare il caso dell’Eracle, le cose più intelligenti al riguardo si trovano forse ancora nell’opera di certi vecchi studiosi di una volta, da Ulrich von Wilamowitz ad Albin Lesky».
Ringraziandola, rifacendomi a Marzullo le chiedo di farsi una domanda e darsi una risposta
«Prima di tutto, visto che parliamo di Marzullo, mi permetta di ricordare anche un altro Marzullo (Benedetto, fondatore del Dams di Bologna ed eccellente traduttore del teatro greco). Comunque, la domanda è: “Si può studiare il teatro greco prescindendo dalla sua messinscena e ignorando come si svolge il lavoro di registi, attori, scenografi, musicisti, costumisti?”. La risposta è: “No, non si può”. È per questo, appunto, che esiste l’Inda».