Che Guevara, un mito che non muore

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di Agostino Spataro

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Ernesto Guevara de la Serna, detto il “Che”, morì a 39 anni (il 9 ottobre 1967), a La Higuera, combattendo sulle montagne della Bolivia, barbaramente trucidato, dopo la cattura, dagli sgherri boliviani di Barrientos e dagli agenti della Cia.
La notizia della sua morte ci giunse, terribile e inattesa, nel salone dell’ex Cral di Agrigento, dove eravamo riuniti per un’assemblea provinciale degli eletti comunisti, presieduta da Armando Cossutta. Era un pomeriggio di una tiepida domenica ottobrina. I compagni erano venuti da ogni angolo di questa provincia, povera ma combattiva, col vestito della festa, come si usava allora. In giacca e cravatta e con tante idee in testa, abbarbicati alle nostre granitiche certezze, udivamo l’eco lontana dei primi moti studenteschi in America, in alcune piazzeforti del potere della società occidentale. Sapevamo del Che Guevara, del combattente intrepido che per noi giovani incarnava, in quel momento, il sentimento più autentico della rivoluzione socialista mondiale. Taluni lo bollarono come un avventuriero romantico, votato al suicidio. Qualcosa di vero c’era in quelle critiche. Tuttavia, a molti parve che quella bella ”avventura” potesse scuotere quel corteo pietrificato di mummie che popolavano le dorate stanze del Cremlino.

Si può disquisire sulla bontà della strategia politica e/o della tattica della guerriglia guevariana, tuttavia nessuno può mettere in dubbio la forza seducente di un mito che nemmeno le più serie riflessioni critiche hanno scalfito. Certo, anch’egli avrà commesso qualche errore ma quel volto bello, velatamente intristito, è stata l’icona più amata del secolo passato. Durante questi anni, altri ”miti” si sono affacciati, soprattutto sul palcoscenico di cinema e tv, ma presto sono scomparsi, evidentemente perché effimeri come la moda che li ha generati. Quello del Che ancora ben resiste e si tramanda di generazione in generazione. E questo dovrebbe far riflettere poiché vuol dire che quel mito è ancora necessario per placare le nostre inquiete coscienze, per sperare d’uscire dal groviglio di contraddizioni e d’ingiustizie che pesano sul presente e sul futuro dell’umanità. E poi, senza i Miti, l’uomo sarebbe una specie di verme allucinato.

Ma torniamo ad Agrigento, a quella domenica d’ottobre. Improvvisamente, nella sala l’atmosfera si fece pesante, gravida di preoccupazione, come quando si attende l’emissione di un tg in edizione straordinaria. Il presidente interruppe l’acceso dibattito sui magri destini dei nostri enti locali e diede la parola alla compagna Vittoria Giunti, partigiana e sindaco di S. Elisabetta. Avrebbe voluto essere formale Vittoria, secondo il rituale tipico di queste circostanze, invece dopo le prime parole ”Abbiamo ricevuto dalla Direzione la conferma…” proruppe in un pianto irrefrenabile, sincero, che annunciava la morte di un sogno. ”È caduto in combattimento, sulle montagne della Bolivia…” aggiunse, quasi a volerci rassicurare che il Che era morto combattendo, com’era vissuto per la gran parte della sua esistenza, e che non aveva tradito il senso morale e politico della sua missione che ora, in forza del suo esempio, s’affidava alle nuove generazioni. Sono passati 50 anni da quella crudele morte e ancora c’è tanto da conoscere, da discutere intorno a questa eccezionale figura di rivoluzionario un po’ atipico.

Concludo, con una nota un po’ amara, a margine di questa personale rievocazione di Ernesto Guevara il cui mito ancora resiste in tutto il mondo.
Tranne che a Rosario sua città natale. Nemo propheta in patria, dicevano i latini, ma in questo caso il disinteresse della ”patria” mi sembra davvero cieco quanto ingiustificato.
Stranamente, non si parla né si scrive di questa incomprensibile ritrosia che, per altro, si verifica in una città di tradizione operaia, quasi sempre guidata da amministrazioni progressiste. A parte un “mausoleo” di mattoni grezzi creato dagli artisti rosarini e qualche souvenir per i turisti, il mito del suo illustre figlio ancora non è approdato su questa sponda del rio Paranà. Si è arrivati al punto – come costatai nell’ottobre 2005 – che sulle pareti della casa natale del “Che” (in calle Entre Rios) non c’era una targa che ricordasse che in quella palazzina nacque Ernesto Guevara de la Serna.

Una dimenticanza? Pare proprio di no. La causa – mi fu detto – era dovuta a un ripetuto rifiuto dei condomini, fra cui una società di assicurazioni, i quali, forse, temevano di veder turbata la loro quiete piccolo borghese. Una quiete veramente piccola, piccola.

 

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