di Valter Vecellio
Dalle fotografie ritoccate (Trotsky che sparisce dal comizio di Lenin o Kim Jong un che fa cancellare lo zio Jang Sond-Thaek dagli archivi), alla distruzione delle statue in Siria, fino al dibattito sulle statue di Colombo: la perdita di memoria genera i mostri dell’intolleranza, e va preservata come antidoto al Male. Un punto, questo, che si ritrova anche in ogni pagina di Leonardo Sciascia
I greci antichi hanno compreso se non tutto, quasi; e quel quasi è comunque l’essenziale. Per quello che riguarda la memoria: è la figlia di Urano, il cielo; e di Gea, la terra. Incinta da Zeus, partorisce nove figlie, Le Muse. Come tutti i miti, c’è un significato: non può esserci armonia, arte, e nulla di buono nel nostro pensiero, se non c’è la memoria. Lo aveva ben compreso George Orwell con il suo 1984; e con lui Aldous Huxley: ne “Il mondo nuovo”, si immagina un futuro dove dieci “controllori” opprimono la Terra con un rigidissimo, asfissiante controllo. Anche Ray Bradbury, con “Fahrenheit 451” immagina un mondo dove uno specialissimo corpo di polizia distrugge i libri, e con i libri, il sapere; i resistenti imparano a memoria il contenuto di queste opere, per impedire che se ne smarrisca ricordo e conoscenza.
Insomma: la memoria è qualcosa di imprescindibile con i valori di libertà e di democrazia. Memoria e conoscenza, sono “sapere”; senza memoria, senza conoscenza viene meno il potere/diritto di scegliere, di decidere. Si è sudditi, invece che cittadini. Ecco perché, senza eccezione, ogni dittatore di qualunque colore, di qualunque epoca, di ogni latitudine, ha cura di operare una sistematica distruzione della memoria; cancella e manipola il passato. L’inquisizione brucia libri e biblioteche, mette il “sapere” non gradito all’Indice; il nazismo brucia i libri; lo stalinismo li riscrive, e con grande cura manipola le fotografie mano a mano che gli avversari politici vengono eliminati, in modo che se ne smarrisca il ricordo.
C’è per esempio un’ampia “letteratura”, a proposito di fotografie: che vengono ritoccate in modo che personaggi scomodi spariscano: Trotsky sparisce dal comizio di Lenin; Nikolai Yezhov, capo della polizia segreta di Stalin, responsabile delle grandi purghe, a sua volta viene purgato, diventa il “commissario svanito”, dal 1940 in poi viene cancellato dalle fotografie. Al tempo del maoismo Qin Bangxian, compagno di Mao, caduto in disgrazia nel 1935, sparisce: dalle foto, e non solo. In tempi più vicini a noi, in Corea del Nord, dopo che il dittatore Kim Jong un fa giustiziare lo zio Jang Song-Thaek, sparisce anche dagli archivi on line e dalle fotografie. Mille altri esempi si possono fare: la distruzione delle statue del Budda in Afghanistan, gli scempi dei terroristi dell’Isis in Irak; e possiamo aggiungerci anche la pretesa di un Maduro in Venezuela, e di quello scriteriato del sindaco di New York Bill De Blasio di abbattere le statue di Cristoforo Colombo.
La perdita di memoria genera poi i mostri dell’intolleranza e del fanatismo. Lo vediamo un po’ ogni giorno. In Germania e in Francia si affermano movimenti e partiti xenofobi e che non si vergognano di definirsi eredi del fascismo e del nazismo; c’è poi quello che accade in Regno Unito, con l’uscita dall’Unione Europea. Negli Stati Uniti rialzano la testa Ku klux klan e cosiddetti, sedicenti “primatisti”. Anche l’Italia vuole partecipare: così gareggiano fenomeni come la Lega da una parte, il Movimento 5 Stelle dall’altra; anche in Italia c’è la buona quota di negazionisti, che senza pudore sostengono non essere mai esistiti i campi di concentramento e le camere a gas. Sono tanti sintomi di un male temo assai più diffuso di quanto si creda; certamente sono il raccolto di una semina fatta di paura sapientemente coltivata, di timore del diverso che automaticamente additato come perverso; e via dicendo.
Tutto ciò è anche, se non soprattutto il frutto di una perdita di memoria. Non dico che si debba conoscere articolo per articolo la Costituzione italiana, ma che sia costituita da 139 articoli, questo almeno sì. Nelle scuole, un tempo, anche se era considerata materia di serie B., c’era l’ora di Educazione civica. Poi è stata abolita; sarebbe il caso di ripristinarla, e magari di studiarla seriamente. Si dovrebbe leggere e commentare insieme quel grande libro che sono le Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana; è grazie a quei morti e ai loro compagni, se oggi noi possiamo essere qui a parlare. Parole come “Resistenza” e “Partigiano” fanno parte della nostra identità, ed è giusto che sia così. Quando sento qualcuno che dice: ma anche quelli che stavano dalla parte della Repubblica di Salò erano animati da un ideale, si deve rispondere come risponde Vittorio Foa a Carlo Mazzantini: “E’ vero, stessa tensione ideale. Ma abbiamo vinto noi, i democratici; e tu ora ne puoi parlare con me; se vincevi tu, io sarei finito in un lager e probabilmente in un forno”. Non è differenza di poco conto.
Memoria, dunque: come antidoto alla barbarie, alla violenza, al Male. Memoria come dovere; un dovere da intendere in senso mazziniano. Non una costrizione, piuttosto un qualcosa a cui dobbiamo aspirare, e va coltivata, nutrita. Un esercizio e un compito più che mai attuale. Per sviluppare questo discorso, parlerò di un autore per cui nutro un vero e proprio culto: Leonardo Sciascia: scrittore che ho studiato a fondo e continuo a studiare, e per tante ragioni. Ho avuto la fortuna di conoscerlo; di condividerne l’impegno civile; di apprezzarlo come intellettuale coraggioso e onesto; la famiglia mi onora della sua amicizia. E coltivava due ossessioni che sono anche le mie: quella per la Giustizia e il diritto; e quella per La Memoria.
Un richiamo esplicito alla Memoria lo troviamo in un libro di Sciascia, l’ultimo che ha fatto in tempo a vedere – le bozze, non l’edizione stampata – prima di morire. “A futura memoria”, con il sotto-titolo: “Se la memoria ha un futuro” è un libro che mi sento di accostare ai pasoliniani Scritti corsari e Lettere luterane; raccolta di articoli e interventi in origine scritti per quotidiani e settimanali: oggi per oggi; a distanza di tanto tempo sono la prova che non è sempre vero che i giornali, dopo mezzogiorno, sono buoni solo per incartare il pesce o foderare i cestini dei rifiuti. Reggono l’usura del tempo, attuali forse più oggi di quando sono stati scritti. “A futura memoria” raccoglie quello che, per usare le sue parole, Sciascia ha scritto su quelli che definisce “certi delitti, certa amministrazione della giustizia, e sulla mafia”; contrariamente ai suoi auspici, ancora oggi molti non sanno o non riescono a leggere quei testi con serenità e onestà intellettuale.
Non ricordo in che occasione lo disse. Per Sciascia il nostro è un paese senza memoria, e di conseguenza senza verità. In effetti, quello della memoria è un brutto, imperdonabile vizio. In un libro di Sciascia, “Nero su nero”, si legge: “E’ stato detto, ed è vero: ‘un genio è per tre quarti memoria’. Ma quando la memoria si fa, come l’occhio, presbite; quando va alle cose lontane e svanisce sulle vicine, è come un vino che si decanta: il genio è quasi allo stato puro, si fa più forte e più trasparente”. Se il genio è per tre quarti memoria, viviamo davvero in un paese di pochissimo genio: che tante sono le cose di cui si smarrisce il ricordo, e di conseguenza, la conoscenza; con i micidiali effetti che sono sotto gli occhi di tutti. Restiamo in Sicilia, da Sciascia passiamo a Vitaliano Brancati: autore di indubbio spessore; forse lo scrittore più importante per quella generazione che si è formata tra il 1930 e il 1940; ingiustamente oggi ignorato, o comunque pochissimo conosciuto. Ne “I piaceri”, Brancati nota che “se noi non ricordassimo, il mondo sarebbe sottilissimo, una lastra di spessore, sulla quale fulmineamente stampato, un perpetuo presente attirerebbe su di sé i nostro sguardi stupiti e incantanti”; e aggiunge – questo è importante: “Molte generazioni evitano di abbruttirsi solo perché uno dei loro componenti ha il dovere di ricordare”.
La “religione” della memoria la si trova quasi in ogni pagina di Sciascia. Nel libro-intervista curata da Marcelle Padovani, “La Sicilia come metafora” (ma anche Matteo Collura nella sua bella biografia “Il Maestro di Regalpetra”, e nel successivo “Alfabeto eretico”) si racconta di una zia che coltiva la memoria di Giacomo Matteotti conservandone il ritratto nascosto tra gli attrezzi da cucito: i fascisti, racconta la zia, hanno ucciso “un padre di famiglia”, che “aveva dei bambini”; per Sciascia è la prima lezione indimenticabile, indimenticata di antifascismo. Davvero si può dire che spesso sono le vecchie zie, a salvarci… Un intervento sulla memoria, sul dovere di ricordare, non può prescindere su quello che in vita – ma anche dopo – Sciascia ha dovuto patire e subire; indicativo, per parafrasare Manzoni, di “come vanno, alle volte, le cose di questo mondo”.
Sciascia è stato spesso al centro di feroci e dure polemiche. Quella che più lo ha ferito e amareggiato, è stata l’ultima, quella, per dirla con il titolo del “Corriere della Sera” al suo articolo del 10 gennaio 1987. Un articolo dove semplicemente si richiamava al rispetto delle regole, e se queste regole non sono adeguate o giuste, a mutarle, non lasciarle in vigore ed eluderle. E, considerazione perfino banale e di cui si possono fare mille riscontri, che l’antimafia, al pari della mafia, può divenire strumento di potere: “Che può benissimo accadere anche in un sistema democratico, retorica aiutando e spirito critico mancando”. Scoppia un finimondo. E per citarne alcuni,
Giampaolo Pansa: “Il nuovo Sciascia ci fa una gran pena…A me pare che Sciascia si è messo a combattere con Sciascia. Sciascia contro Sciascia. Impegnato a demolire articolo dopo articolo, l’immagine di se stesso”.
Claudio Fava: “Leonardo Sciascia, ormai travolto dagli anni e da antichi livori…”.
Nando Dalla Chiesa: “Ci ho pensato a lungo, e sono giunto alla conclusione che…Il giorno della civetta di Leonardo Sciascia è uno splendido libro sulla mafia, una fotografia perfetta, ma non uno strumento di lotta contro la mafia”.
Pino Arlacchi: attende che Sciascia sia morto, per scrivere su “la Repubblica” che Sciascia non può essere considerato “un maestro, perché gravissimi furono i suoi silenzi, mentre altri sfidavano le cosche; e perfino che Il giorno della civetta in realtà fa l’apologia di Cosa Nostra. Testuale: “Una storia ben narrata della sconfitta della giustizia dello Stato e dei suoi rappresentanti di fronte a un delitto di mafia”.
Ma è quello che in quegli anni accade. Richiamarne l’attenzione, denunciare e descrivere il fatto, per Arlacchi diventa essere complici. Scrive: “Dei due maggiori personaggi del racconto, il capitano dei carabinieri e il capobastone locale, è il secondo che colpisce e sovrasta”. Conclusione: “Sciascia stregato dalla mafia”.
Per mettere le cose al suo posto basta citare Tullio De Mauro, il fratello di Mauro De Mauro, il giornalista de l’Ora, impegnato in inchieste di mafia, scomparso un giorno del 1970, mai più ritornato e ritrovato. Dice De Mauro: “I libri di Sciascia ci hanno aiutato ad aprire gli occhi sul fatto che la mafia non era un fenomeno folcloristico siciliano. E Sciascia si è sempre esposto in prima persona. Io sono stato coinvolto amaramente nel 1970 dalla scomparsa di mio fratello. A Palermo, dove insegnavo, gli amici, i colleghi, gli studenti, per strada non mi salutavano. Le persone che frequentavano la mia famiglia si contavano sulla punta delle dita. E Leonardo era lì, come in una serie di innumerevoli circostanze. Un sociologo (Arlacchi, ndr) dovrebbe valutare queste cose, come dovrebbe aver capito che Sciascia aveva intuito perfettamente la struttura internazionale della mafia e i suoi stretti rapporti con il mondo della politica”.
Sono trascorsi tanti anni dalle polemiche sollevate da quell’articolo; nel quale, ripeto, si pongono questioni di metodo e di legalità: l’antimafia che può essere agitata a scopo di demagogia; le regole che debbano essere osservate sempre e se non le si ritiene più adatte, le si cambia, ma non le si disattende facendo finta che non ci siano. Anche di recente Andrea Camilleri, che peraltro nei suoi godibilissimi libri ci dà una rappresentazione, questa sì folkloristica e di maniera della mafia, sostiene che Il giorno della civetta fa l’apologia della mafia; è la dimostrazione che spesso la parola è più veloce del pensiero. E allora prendiamo il toro per le corna, vediamo che fondamento può mai avere questa accusa. Tutti noi possiamo recitare a memoria quell’“uomini, mezzi uomini, ominicchi, piglianculo, quaquaraquà”, la classificazione del genere umano fatta dal capomafia Mariano Arena. Quella pagina, e anche l’interpretazione di Lee J.Cobb nel film che ne ricava Damiano Damiani, è un piccolo classico.
Tuttavia, la pagina davvero importante, è quella che viene prima: il capitano Bellodi sente che il mafioso, anche grazie alle protezioni politiche di cui gode a Roma, gli sta per sfuggire dalle mani. Lo capisce, e pensa a Cesare Mori, il “prefetto di ferro” che Mussolini manda in Sicilia, e ha stroncato il brigantaggio; quando poi Mori comincia a pestare i piedi alla mafia, che è già entrata nel regime, il prefetto viene nominato senatore e rimosso. I metodi di Mori erano brutali, all’insegna del “fine giustifica i mezzi”, al di sopra e al di là della legge. Fare come Mori, pensa per un attimo Bellodi; ed è un pensiero, una tentazione che subito respinge, ripudia. Bisogna stare nella legge, si dice; e piuttosto, quel che serve è indagare sui patrimoni, mettere la Finanza, mani esperte, come hanno fatto in America con Al Capone; e frugare sulle contabilità, e non solo i mafiosi come Mariano Arena: annusare le illecite ricchezze degli amministratori pubblici, il loro tenore di vita, quello delle loro mogli e delle loro amanti, censire le proprietà, e comparare il tutto con gli stipendi ufficiali. E poi, come dice Sciascia, “tirarne il giusto senso”. È quello che poi fanno Beppe Montana, Ninì Cassarà, Rocco Chinnici, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino: per aver cercato di tirare il giusto senso, per aver seguito la traccia lasciata dal denaro, sono stati uccisi. Pensate: Sciascia scrive “Il giorno della civetta” quasi sessant’anni fa; se quei suggerimenti, se quel “tirarne il giusto senso” fosse stato subito accolto e applicato, probabilmente molti episodi di Tangentopoli e dintorni di ieri e di oggi ce li saremmo risparmiati.
Sembrano polemiche lontane, per vicende superate. Sono convinto che non sia così. Quei veleni, quel fango, quel letame ancora oggi sono attuali, continuano a sporcare, infettare. L’antidoto è la memoria. Bisogna ricordare quello che è stato, aver cura di tramandarlo. Viviamo tempi in cui c’è un particolare bisogno di memoria, perché solo così si continuerà a pensare in autonomia. Un filosofo spagnolo, George Santayana, dice che “il progresso, lungi dal consentire il cambiamento, dipende dalla capacità di ricordare…coloro che non sanno ricordare il passato sono condannati a ripeterlo”; con lui lo scrittore José Saramago: “Noi siamo la memoria che abbiamo e la responsabilità che ci assumiamo. Senza memoria non esistiamo e senza responsabilità non meritiamo di esistere”. Ecco perché c’è un dovere della memoria; e in parallelo, c’è un diritto alla conoscenza. E dobbiamo, ostinati e caparbi, non stancarci di fare domande.
LA VOCE DI NEW YORK