Qual è il “Paese” migliore? Quello di Ficarra e Picone!

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di Giuseppe Stefano Proiti

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È tempo di bilanci sulle elezioni regionali in Sicilia. Tra un Cancelleri “cancellato” e un Berlusconi “resuscitato” viene da chiedersi: è rimasto davvero fuori “Pierpaolo Natoli”?

In mezzo a tutti questi brogli elettorali e notizie di arresto sembra proprio di rivedere quel divertente (si fa per dire) finale in cui il potente signorotto “Gaetano Patanè” torna a riprendersi il caos illegale della sua Pietrammare. E che fine ha fatto quel sole della “Città Ideale”?

È questo il vero trionfo de“L’ora legale”, un film che si è messo a viaggiare … facendo il giro del mondo, passando dai Nastri d’Argento di Taormina al Bari International Film Fest, dal Tuscia Film Fest di Viterbo al CinéCiak d’Oro di Riccione, dal premio Charlot di Salerno al premio Troisi di Napoli, fino ad arrivare al PYFF, prestigioso riconoscimento conseguito di recente al Festival di Pingyao all’interno del Russia Italia Film Fest, oltre alle numerose proiezioni all’estero, come in Cina e in Inghilterra.

Non solo cinema. La straordinaria coppia Ficarra-Picone è tornata a sbancare quest’estate anche in teatro. Il tema sociale è sempre lo stesso, quello più classico che ci sia, quello del “cambiamento” che non cambia mai, quello di una speranza come un cuscino di rose su cui dormire, ma è pieno di spine.

Il Teatro di Siracusa è stato uno scenario ancora più tipico di un set cinematografico per immedesimarsi nei tempi di una Grecia in cui Aristofane, ora da spettatore sognante, ora da commentatore disilluso, disegnava nei libri la sua tanto agognata città ideale. Perché se nella prima fase della sua produzione letteraria egli è ottimista e crede in un effettivo miglioramento della società, nell’ultima fase cala il buio del pessimismo.

Aristofane è l’unico autore dell’antichità di cui possediamo opere integre. Possiamo contestualizzare quasi tutte le sue 11 commedie nel periodo storico della “guerra del Peloponneso”, che per 27 anni ha sconvolto non solo la Grecia continentale ma anche le coste dell’Asia Minore e buona parte della cdd. Magna Grecia. Questa guerra, iniziata nel 431 a.C. per volontà degli ateniesi, porterà alla constatazione che il sangue e i conflitti sociali non sono mai utili persino alla nazione che è nel pieno del proprio fulgore. Fu sostanzialmente la lezione che toccò agli ateniesi, che partiti da un livello di potenza economica e militare tale per cui pensavano di sbaragliare il nemico storico “Sparta”, non considerarono la forza tattica dei suoi uomini. Il risultato fu un lento divorarsi nel tempo, fino alla totale riduzione di Atene a “città di provincia”.

Le opere di Aristofane trattano tematiche serie come la guerra, la pace, la cattiva gestione dello Stato da parte dei politici (i demagoghi). Questi argomenti, in linea con lo stile della Commedia, vengono messi in scena con dei toni comici notevolissimi. Aristofane ha una fantasia incredibile: è un miscuglio di realtà e immaginazione, di serietà e scurrilità.

“Commedia” deriva da “kômos” (banchetto festoso) e “ōid “ (canto).
Questo genere letterario così come si è evoluto nel corso dei secoli è legato a degli schemi dove il sesso, l’alcol, l’atmosfera allegra e festosa sono molto presenti.

Ecco nella Commedia antica due elementi fondamentali che si spiegano solo in funzione di quest’etimologia. Uno è quello del “turpiloquio”: battute pesanti ed un linguaggio boccaccesco. In più c’è un’altra caratteristica che si lega a quest’origine, ovvero prendere in giro per nome dei personaggi. Aristofane non si fa scrupolo a mettere in ridicolo di fronte a 17 mila spettatori (tanti ne conteneva il Teatro di Dioniso) personaggi dell’Atene contemporanea.

“La moglie di Clitomaco? È sempre in cerca di bei vicini di casa. Aristomaco? Lo trovi sempre vicino alle caserme in cerca di bei soldati”.

Ma Aristofane aveva a cuore temi ben più seri: desiderava che finisse quanto prima possibile quella logorante guerra; le sue critiche erano rivolte agli intellettuali dell’epoca, in primo luogo a Socrate, ai sofisti, ad Euripide, che con le loro tragedie ed opere filosofiche corrompevano gli animi dei cittadini portandoli alla degenerazione. I guerrafondai sono un bersaglio da colpire per Aristofane. Cogliamo la straordinaria attualità di queste considerazioni se pensiamo ai cdd. fabbricanti di armi (anche chimiche, nucleari) di oggi e a tutti gli interessi politici ed economici che a livello mondiale vi stanno dietro.

È questo l’impulso che gli fa scatenare una fantasia immane. Così nella prima commedia a noi pervenuta “Gli acarnesi” (Άχαρνῆς ), un cittadino, stanco del fatto che in Parlamento si discuta di inanità, decide di stipulare una pace privata con Sparta, poi organizza nel suo cortile un mercato dove circolano le merci che nel resto della città non arrivano.

Ne La pace” (Ερήνη), scritta in un clima ancora speranzoso, parla di un cittadino che a cavallo di uno scarabeo vola verso il cielo, prende fisicamente Pace, ossia la dea Eirene e la porta sulla terra.

Ma dopo la rottura di quel periodo di tregua che dopo il 421 gli ateniesi effettuano con la “spedizione in Sicilia”, inizia la fase del cdd. “pessimismo surreale”.

Aristofane non crede più in questo mondo, allora ne “Gli uccelli” (Ὄρνιθες), l’operazione è inversa: fa volare la Pace in cielo e fonda la sua città ideale sulle nubi.

In Lisistrata” (Λυσιστράτη) addirittura affida il potere politico alle donne (cosa impensabile per gli ateniesi del 5° secolo).

Arriviamo a “Le rane” (Βάτραχοι) -commedia messa in scena da Ficarra e Picone- che assieme alle ultime due menzionate fa parte del “pessimismo surrealista”, e che per i filologi e gli studiosi di letteratura greca rappresenta una vera miniera, in quanto contiene citazioni di tragedie a noi mai pervenute.

Siamo nell’Atene del 405, che ormai sta per essere definitivamente espugnata da Sparta. In questa fase incandescente e di assoluto declino, nell’immaginario di Aristofane non rimane che affidarsi al “regno dei morti”. Solo l’autorevolezza di un vate può salvarla: bisogna scendere ad inferos e andare alla ricerca di Euripide (morto nel 406) – punto di riferimento costante del pensiero di Aristofane – per cercare di riportarlo sulla terra. “Le rane” nasce da quest’idea.

Sulla scena troviamo Dioniso (il Dio del Teatro), il quale viene presentato con in mano la clava, ai piedi i coturni (calzature usate nell’antichità dagli attori tragici) e indossa una veste gialla, molto elegante, ricoperta della pelle di leone (che sarebbe quella di Eracle). Una delle famose “dodici fatiche di Eracle” era quella di essere sceso nell’“Ade”. È di fondamentale importanza dunque per il viaggio che dovrà compiere Aristofane, in quanto può dargli tante delucidazioni al riguardo.

Questo miscuglio di eleganza e rusticità, è anche la rappresentazione visiva di ciò che Dioniso è nell’essenza: un dio intimamente connesso con i riti della fertilità, la cui rinascita costituiva una speranza di resurrezione per i suoi seguaci e un simbolo della vicenda delle messi o della vegetazione in genere collegata all’eterno alternarsi delle stagioni.

Ma è al contempo un dio che ha poco di ieratico, un dio che è un uomo con tutti i suoi difetti. Per cui lo vediamo farsela letteralmente addosso, impallidire, cambiare colore, quando nel cammino che lo porterà all’Ade incontra il mostro Enfusa.

I tratti tipicamente “umani” emergono nell’opportunismo di alcune scenette dove si assiste ad un continuo scambio di vestiti. Quando nell’Ade alcuni morti incontrano Dioniso vestito da Eracle e lo inseguono chiedendogli dei soldi che in vita quest’ultimo gli era rimasto a dare, a quel punto Dioniso toglie il suo vestito e indossa quello del suo servo Xantia, salvo poi a riprenderselo nel momento in cui quest’ultimo incontra una servetta che ricordandosi della focosa avventura d’amore con Eracle, la vuole rivivere all’inferno.

Xantia, risulta essere quella figura, per così dire, un po’ abusata dall’astuzia e dalla furbizia del suo Dio. A questo punto ci vengono in mente tutti quegli sketch tipici della “coppia” Ficarra e Picone, che in queste citate scene de “Le rane” hanno dato il massimo.

Adesso i due attori protagonisti immaginiamoli giù, in particolare assistere ad  una lite furibonda tra Euripide ed Eschilo. Quest’ultimo, morto da almeno 50 anni (e non da uno solo come Euripide), è il maggiore rappresentante del mondo della letterarietà, quanto ad anzianità ed importanza, perché è il detentore del “trono della tragedia”, che rivendica.

La dotta disputa si “misura” in scena con un’enorme bilancia nella quale vengono pesati i versi dell’uno e dell’altro. C’è un’analisi molto attenta che Euripide fa del prologo delle Coefore di Eschilo, e viceversa, di quest’ultimo riguardo il prologo dell’Antigone di Euripide. Le due somme figure poi si rinfacciano caratteristiche negative dell’ideologia dell’uno e dell’altro, della tragedia rispetto alla commedia.

Euripide obietta ad Eschilo: “hai reso la tragedia qualcosa di fragile e incomprensibile con quei tuoi elmi scintillanti, quei tuoi prologhi lunghissimi e dispersivi, con quelle tue parole roboanti e chiodate … mentre io ho portato in scena la semplicità della realtà quotidiana, storie di tutti i giorni”.

Eschilo di contro a Euripide:  “Appunto, storie di donne poco serie e situazioni di corruzione del potere di cui ci si dovrebbe vergognare …  altro che portare in scena”!

La commedia termina con un clamoroso colpo di scena: Dioniso sceglie di riportare in vita Eschilo e non Euripide. Perché? Aristofane riteneva che in quel momento politico così complesso e convulso bisognava tornare indietro di 50 anni, a coloro che fecero grande Atene: i  “maratonòmachi” (μαραϑωνομάχης) , quei  valorosi soldati ateniesi che combatterono a Maratona nella celebre battaglia del 490 a.C. contro l’enorme esercito persiano, che furono esempio di gioventù semplice e incorrotta. Quell’alto ideale lo incarnava solo un poeta del calibro di Eschilo, il quale riuscì a nutrire i suoi concittadini di grande spirito combattivo e di concordia.

Emerge allora lo spessore notevolissimo de Le Rane: Aristofane comprende che per creare dei buoni cittadini, l’insegnamento e la trasmissione della cultura è un elemento di fondamentale importanza: “il maestro sta ai ragazzi come il poeta sta ai cittadini”.

La grossa novità di questa commedia sta nella visione non settaria del sapere. L’arte fine a se stessa non ha senso. È concepibile solo nella funzione di indirizzo, nel suo significato civico, politico, culturale, più alto: la condivisione.

Questa “terapia del rovesciamento”, tipica della cultura classica, fu “oggetto” di maggior custodia del pensiero leopardiano: “gli scolari partiranno dalla scuola dell’uomo, il più dotto, senz’aver nulla partecipato alla sua dottrina, eccetto il caso (raro) ch’egli abbia quella forza d’immaginazione, e quel giudizio che lo fa astrarre interamente dal suo proprio stato, per mettersi ne’ piedi de’ suoi discepoli, il che si chiama comunicativa. Ed è generalmente riconosciuto che la principal dote di un buon maestro e la più utile, non è l’eccellenza in quella dottrina, ma l’eccellenza nel saperla comunicare” (Zibaldone, 1376).

La funzione del poeta è quella di ammaestrare, di trasmettere ideali che il cittadino comune deve recepire e a sua volta portare nella quotidianità. In questo gli ateniesi ci riuscivano alla grande. Si pensi ai poemi recitati nelle piazze, che venivano recepiti  dal pubblico nonostante fosse per la maggior parte analfabeta. L’uomo antico non aveva gli strumenti tecnologici di oggi, dunque faceva un uso molto più abile della memoria. Era capace di ascoltare una tragedia e poi di recitarne a memoria numerosi versi.

La poesia epica era la più grande idea di libertà che il popolo metteva in atto girando per le strade, soffermandosi nelle piazze. Tutta l’arte greca, in fondo, non vive nel chiuso delle biblioteche bensì cerca un contatto diretto col pubblico.

gabriele portoghese_(primo corifeo)_foto centaro

L’esplicazione di questa funzione è anche presente in un elemento strutturale della commedia antica: la “parabasi” (dal greco antico “parabaino”, avvicinarsi). Il coro a un certo punto depone la maschera, per lo più animalesca,  avanza verso gli spettatori e parla di tematiche attuali che non hanno attinenza con l’intreccio.  È questo il momento in cui l’autore annulla la finzione teatrale e manifesta appieno tutta la sua libertà di espressione, tutta la sua indignatio. Attraverso il coro si mandano dei messaggi e delle invocazioni esplicite all’esterno: il poeta può finalmente dire al popolo quello che sente, attraverso il canto … il colore … la danza … le parole.

Ne Le Rane Aristofane si fa “provocatore”, arrivando a dubitare  del pubblico che intanto ride al teatro con le sue pungenti battute, ma all’indomani torna ad inquadrarsi nella società “tradizionale”  governata da una politica infame e corrotta, seduta in prima fila che guarda in faccia e ascolta impassibile i coreuti del secondo semicoro.
“I cittadini sono come gli zecchini: quelli migliori non sono utilizzati, quelli peggiori circolano quotidianamente come le monete”.

Siamo in perfetta sintonia con lo spirito della commedia. Contrariamente alla tragedia (vuole imitare personaggi migliori di quelli reali), è imitazione di uomini peggiori di quelli reali (quelli più incapaci del necessario) che suscitino non tanto lo sdegno quanto il riso senza pietà provocato dalla visione del ridicolo.

Ci sia allora consentito concludere  con L’umorismo di Pirandello : “Vedo una vecchia signora, coi capelli ritinti, tutti unti non si sa di quale orribile manteca, e poi tutta goffamente imbellettata e parata d’abiti giovanili. Mi metto a ridere. Avverto che quella vecchia signora è il contrario di ciò che una vecchia rispettabile signora dovrebbe essere”.
E cos’altro è il comico, se non avvertimento del contrario, se non il sentimento del contrario?

Così Atene muore … nell’amara risata di Aristofane. Una città, un uomo, che cerca di ribellarsi invano al suo destino, ma è come la lumaca pirandelliana che “gettata nel fuoco sfrigola e pare ridere, invece muore”.

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