Belice: le “commemorazioni” non risanano le “ferite”

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di Salvo Barbagallo

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Il Belice è qualcosa che si vuol dimenticare riportando alla memoria i ricordi, una sorta di “giustificazione” per quel che è stato fatto (male) e quel che non è stato fatto? Gli Italiani? Bravi a trovare gli alibi adatti ad ogni circostanza e le commemorazioni “dovute” a volte vengono “adattate” per coprire ciò che è sotto gli occhi di tutti, ma che non si vuol vedere. Il Belice cinquant’anni dopo è l’immagine di un fallimento, di quei fallimenti che il Paese preferisce ignorare perché le realtà attuali non sono altro che un “continuo” inesorabile di ciò che è accaduto in precedenza: quanto verificatosi, infatti, con la presunta ricostruzione delle zone che hanno subito il disastro degli ultimi terremoti in centro Italia ne è una vistosa dimostrazione.

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Il Belice nel suo “cinquantenario”: a parlarne non si rimarginano le “ferite” e le devastazioni sono ancora là, visibili: le devastazioni della natura e quelle per mano dell’uomo restano la testimonianza del “disordine” che continua a dominare questa Terra.

Belice, si ricorda. La prima forte scossa si avvertì alle ore 13:28 del 14 gennaio, con gravi danni a Montevago, Gibellina, Salaparuta e Poggioreale; una seconda alle 14:15. Nelle stesse località ci fu un’altra scossa molto forte, che fu sentita fino a Palermo, Trapani e Sciacca. Due ore e mezza più tardi, alle 16:48, ci fu una terza scossa, che causò danni gravi a Gibellina, Menfi, Montevago, Partanna, Poggioreale, Salaparuta, Salemi, Santa Margherita di Belice e Santa Ninfa. Nella notte, alle ore 2:33 del 15 gennaio, una scossa molto violenta causò gravissimi danni e si sentì fino a Pantelleria. Ma la scossa più forte si verificò poco dopo, alle ore 3:01, e causò gli effetti più gravi. A questa se ne avvertirono altre, per complessive 16 scosse.

Eravamo là, su uno spiazzo alla periferia di Montevago con Umberto D’Arrò e Nino Furnari, giornalista e fotografo dell’Ansa, quando arrivò la prima scossa la notte del 14 gennaio, sbarcati da un elicottero americano di Sigonella qualche ora prima: era notte inoltrata, c’era freddo e di certo non guardammo l’orologio. Fummo sbattuti a terra, ed abbiamo avuto paura, ogni cosa traballava. Fu vero terrore per la seconda scossa di quella terribile nottata. Ricordare?

Ricordare cosa abbiamo potuto vedere e sentire nelle ore e nei giorni successivo? Le macerie, i corpi che venivano estratti alle pietre delle loro case che li avevano sepolti? La puzza, poi le fila interminabili di bare ai bordi dei sentieri fra massi, legna, suppellettili, ciò che era rimasto senza vita. Le storie. Le storie che non raccontavano coloro che erano ancora vivi. Meglio dimenticare.

Poi… la ricostruzione. La ricostruzione, come l’ha descritta Franco Nicastro per l’Ansa giorni addietro: (…) il terremoto mise in luce subito le carenze di un Paese che non era preparato per l’emergenza ma neanche per gestire la ricostruzione, se è vero che per 40 anni migliaia di persone sono sopravvissute nelle baracche di legno o di lamiera e di eternit. Agli occhi dei cronisti e delle squadre di intervento cinquant’anni fa si stagliarono immagini terrificanti: cadaveri estratti dalle macerie e allineati in luoghi improvvisati, feriti che aspettavano i soccorsi, strade piene di detriti, monumenti perduti e opere d’arte irrimediabilmente sfregiate (…) le lacerazioni dei tessuti urbani dei paesi erano aggravate dal fatto che le case del Belice erano di tufo e di impasto con le canne. E per questo si polverizzarono quando le scosse si fecero più forti. Oltre centomila sfollati vagavano tra strutture di accoglienza precarie e molti vennero sopraffatti o da malattie respiratorie, che provocarono altre vittime, o dalla disperazione. Una condizione che li spinse verso l’emigrazione da una terra che aveva già mandato molti giovani all’estero e nelle fabbriche del Nord. La prima risposta dello Stato fu quella di incoraggiare le partenze. Ai terremotati furono offerti biglietti ferroviari gratis e passaporti rilasciati a vista. Chi restava nelle baracche viveva in condizioni degradanti. (…)  Si calcola che da cinquant’anni a questa parte siano stati investiti meno di 13mila miliardi di vecchie lire e servono altri 300 milioni di euro circa per finanziare gli ultimi interventi. Pochi i progetti dei privati ancora giacenti negli uffici comunali, il resto riguarda opere di urbanizzazione. I ritardi sono in parte dovuti a quella che Danilo Dolci definì la “burocrazia che uccide il futuro” ma soprattutto alla discussa gestione dei piani di ricostruzione. Interi paesi come Gibellina, Poggioreale e Salaparuta vennero ricostruiti in altri posti. Antiche culture vennero cancellate, il tessuto sociale fu radicalmente mutato, la vita civile di migliaia di persone venne sconvolta. Cambiò anche il paesaggio del Belice: da un lato le “new town” con le grandi piazze e le lunghe strade, dall’altro le tracce di ruderi che restano ancora in piedi negli antichi abitati (…).

E già, perché in quel territorio martoriato scesero i grandi progettisti, i grandi artisti che vollero lasciare la “loro” impronta, il segno per un “cambiamento” proiettato nel futuro. Un “cambiamento” posticcio, lontano, lontanissimo dalla vera “identità” di quei luoghi e di quella gente che venne spinta ad “emigrare” con “biglietti ferroviari gratis e passaporti rilasciati a vista”. La storia si ripete e, per paradosso, le commemorazioni che la mettono in luce, di certo non risanano le ferite e, sempre per paradosso, fanno venire a galla le ipocrisie…

 

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