di Valter Vecellio
Al terrorismo tutto l’Italia paga un pesantissimo tributo: in 20 anni almeno 428 morti, 14 mila atti di violenza politica. Cosa resta di quegli anni? È materia di amara riflessione per tutti. Di certo i terroristi sparano, uccidono, vengono usati da poteri occulti e settori deviati dello Stato. Qualcuno magari pensava davvero di colpire al cuore l’odiato potere. Ma qui non è più cronaca; diventa storia
16 marzo di 40 anni fa: è il giorno in cui le Brigate Rosse rapiscono Aldo Moro e uccidono i cinque uomini della scorta. Moro è il protagonista di una politica scomoda, impasto di prudenza e di audacia: 55 giorni dopo lo uccidono. Uno scempio di umanità che segna l’apice del terrorismo rosso, ma anche l’inizio della sua irreversibile crisi.
Al terrorismo l’Italia paga un pesantissimo tributo: in 20 anni almeno 428 morti, oltre 1.000 feriti, almeno 14 mila gli atti di violenza politica. Come inizio prendiamo il 12 dicembre 1969, la strage di piazza Fontana a Milano: una bomba collocata nella Banca Nazionale dell’Agricoltura,17 morti. Il paese precipita in un buio periodo di violenza. Una follia di cui sono vittime forze dell’ordine, magistrati, politici, sindacalisti, cittadini comuni.
Ne ricordiamo alcuni episodi. Il commissario Calabresi: per la magistratura vittima di un gruppo di fuoco di Lotta Continua; il rogo di Primavalle: aderenti a Potere Operaio incendiano la casa di un dirigente missino, tra le fiamme muoiono i due figli di 22 e 8 anni. Poi le stragi fasciste, nel 1974 a Brescia, piazza della Loggia, e al treno Italicus; in quell’anno le Brigate Rosse rapiscono il giudice Mario Sossi.
Virgilio Mattei, 22 anni, figlio di Mario Mattei, segretario locale del Movimento Sociale Italiano, ucciso nel rogo di Primavalle (Roma) insieme al fratellino di 8, da aderenti a Potere Operaio il 16 aprile 1973
Ogni giorno un agguato, un delitto. Tra le prime vittime due magistrati, Francesco Coco, assassinato dalle Brigate Rosse; Vittorio Occorsio, ucciso dai fascisti di Ordine Nuovo; sempre le Brigate Rosse uccidono il vicedirettore della Stampa, Carlo Casalegno. Il culmine con l’assassinio di Moro. Poi, come se qualcuno abbia detto: basta. Inizia la parabola discendente, non meno sanguinosa: le Brigate Rosse uccidono tra gli altri Guido Rossa, Emilio Alessandrini, Valerio Verbano, Mario Amato. E secondo la magistratura porta la firma della destra estrema la strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980: 85 morti, oltre 200 feriti.
La strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980, 85 morti, oltre 200 feriti: per la magistratura la firma è della destra estrema
Cosa resta di quegli anni? E’ materia di amara riflessione per tutti. Di certo i terroristi sparano, uccidono, vengono usati da centri di potere occulti e settori deviati dello Stato. Qualcuno di loro magari pensava davvero di colpire al cuore l’odiato potere. Ma qui non è più cronaca; diventa storia.
La storia, dunque. Quel 16 marzo a via Fani, questa forse è una delle poche cose sicure, si scrive una delle pagine più buie e tragiche della nostra storia recente.
Le Brigate Rosse pensano di colpire mortalmente il cuore dello Stato. Indubbiamente si blocca una politica sgradita sia a Est che a Ovest, che mette in discussione equilibri nazionali e internazionali raggiunti quarant’anni prima. Il muro di Berlino era ancora ben solido. Al tempo stesso, uccidendo Moro le Brigate Rosse segnano anche l’inizio della loro fine.
Prima, erano le Brigate Rosse cosiddette “storiche”: quelle dei Renato Curcio, delle Mare Cagol, degli Alberto Franceschini. Ingozzati di nozionismo marxisticheggiante mal digerito, il mito di una Resistenza ora e sempre salvifica e purificatrice. Prima semplici, simbolici, sequestri come quello, nel 1973, di Ettore Amerio, capo del personale della FIAT Mirafiori. Poi, un anno dopo, a Padova la svolta: quando uccidono due militanti del Movimento Sociale.
Poi, ecco le Brigate Rosse di Mario Moretti, con solidi e anche sordidi contatti con l’Est europeo, movimenti palestinesi estremisti, ambienti inquinati da servizi segreti di ogni tipo. Su Moretti da sempre gravano sospetti mai del tutto fugati, da parte dei suoi stessi compagni. È lui che gestisce in prima persona l’affaire Moro. Ancora oggi ci si interroga su chi lo abbia ispirato, sui “suggeritori” occulti.
C’è anche un “dopo” Moretti, che possiamo identificare con Giovanni Senzani. E’ l’ideologo terrorista che gestisce il rapimento di Ciro Cirillo, che vede coinvolti in una oscura trattativa gli immancabili servizi segreti e la camorra di Raffaele Cutolo; lo stesso anno in cui, a Verona, viene rapito il generale americano James Lee Dozier, liberato da un blitz dei NOCS.
Sono gli anni del declino delle Brigate Rosse. Un declino, lungo, doloroso, scandito sempre da rapimenti, attentati, sangue, morti; ma ormai è evidente che non servono più a nessuno. Il delitto Moro è uno spartiacque anche per loro: il sogno di colpire al cuore il Potere dello Stato si è rivelato solo un incubo, cementato da inganni e stupidità.
LA VOCE DI NEW YORK
Brigate rosse. Il grottesco incontro tra Moretti, Franceschini e Morucci
– Valerio Morucci, romano classe 1949, studente universitario, fanatico di armi e capo della struttura militare di Potere operaio, prova a entrare nelle Brigate rosse fin dai primissimi anni Settanta: a vagliare la richiesta di Morucci, Alberto Franceschini e Mario Moretti. I tre si incontrano a Milano nel 1971.
– Alberto Franceschini: «Stavamo riorganizzando le Br dopo la prima ondata di arresti e Valerio Morucci ci aveva fatto sapere più volte che voleva parlarci. Era il capo del servizio militare di Potere operaio e lo conoscevamo di nome anche perché era considerato un esperto di armi. Lo incontrammo io e Moretti a Milano, in viale Sarca. Arrivò in Mini-minor, una giacca blu con i bottoni d’oro, camicia di seta, cravatta, occhiali Ray-ban: sembrava un fascistello sanbabilino. Parlò soprattutto lui, e di armi: voleva farci vedere che le conosceva bene, che uno come lui sarebbe stato indispensabile per la nostra organizzazione. Ci chiese di entrare nelle Br, ma nessuno di noi fu d’accordo nell’accogliere Valerio. La nostra diffidenza per quelli di Potere operaio era congenita. Li consideravamo dei mezzi aristocratici che volevano giocare alla rivoluzione. Mi fu sufficiente raccontare ai compagni come si era presentato all’appuntamento con noi perché la richiesta di Valerio venisse respinta. Si decise soltanto di continuare a tenere con lui il rapporto che già avevamo, di tipo esclusivamente logistico, e di cui venne incaricato Moretti, l’unico che aveva cercato di difendere, sia pur timidamente, la causa di Morucci» [1]
– Valerio Morucci: «Mi diedero appuntamento in viale Zara. Io andai su a Milano con la mia Mini Cooper gialla e nera e con la bionda, per approfittare del viaggio. Già da subito vedo che Moretti e Franceschini mi guardano storto. Io infatti indosso il mio blazer e una camicia azzurra incravattata sotto un bel cappotto blu. Inoltre mi ero presentato con un macchina e una bionda piuttosto appariscenti. Mi guardano come se fossi stato un libertino gaudente appena uscito da un night dopo essermi strafatto di troie e cocaina. Quello con gli occhialetti, Franceschini, mostra il sorrisetto storto del bambino sadico che dà pizzicotti alla sorella. Le labbra di Moretti superano a fatica la smorfia di ripugnanza e supponenza con cui sembra essere nato. Mi dicono: “Da Roma hanno detto che puoi procurarci delle armi”. “Sì”, dico io sorridente, “che vi serve?”. “Tutto: mitra, pistole, munizioni…”.”Ci proverò”, faccio io, “ma se vi servono urgenti bisognerà prenderle al prezzo che si trova”». [2]
– Morucci su Moretti: «Ogni tanto, tra il serio e il faceto, gli scappava di dire che era il capo e che lasciava impronte dappertutto perché i giornali all’epoca non lo nominavano mai e temeva che la polizia volesse giocarlo come spia. Alcuni come Moretti interpretavano il riposo del guerriero come avere una donna in ogni città e anche più di una all’occorrenza. Mi assoggettai anche io alla sicurezza e ai vantaggi delle regole» [3]
– Ancora Morucci: «Comprai una moto Norton Commando con cui scorazzavo per la città come un pazzo. Mi compravo bei vestiti e ogni sera mangiavo al ristorante. Allora con le donne ero una bestia. Ma con lei mi ero messo per ripicca, per toglierla da sotto al naso a quelli del gruppo che pensavano più alla fica che alla rivoluzione». [4]
– Morucci, Faranda e i ristoranti: «Nei giorni tra l’appello di Paolo VI e la diffusione del comunicato numero 8, che è del 24 aprile 1978, si presentò Lanfranco Pace in uno dei ristoranti in cui io e Faranda eravamo soliti pranzare da anni, quello sito in via dei Genovesi o via dei Salumi, dietro piazza in Piscinula. Si tratta di un ristorante siciliano con le pareti riccamente addobbate con oggetti provenienti dalla Sicilia. Il Pace ci disse che da alcuni giorni girava per ristoranti da noi frequentati abitualmente per rintracciarci e chiederci se effettivamente le Brigate rosse, dopo i comunicati n.6 e n.7, avessero intenzione di uccidere Moro. Pace conosceva quel ristorante perché prima del periodo in cui ebbe contatti con le Br – tra l’autunno del 1977 e i primi giorni del 1978 – egli lo aveva saltuariamente frequentato assieme a noi»[5]
– Morucci aveva raccontato al magistrato che con la Faranda impiegavano intere giornate per cercare il luogo più adatto dove lasciare i comunicati delle Br o le lettere di Moro, tentando di far credere di avere adottato tutte le possibili precauzioni, fino a ricorrere a metodi quasi scientifici, per impedire di essere individuati e pedinati dalla forze dell’ordine. Adesso invece sostiene che due dei brigatisti più ricercati d’Italia, come lui e Faranda, andavano a pranzo in ristoranti che frequentavano da anni, assieme ad altri militanti dell’estrema sinistra, col risultato di essere facilmente rintracciati da un ex militante delle Br che meno di un mese prima era stato fermato dalla Polizia. [6]
– Alfredo Bonavita: «Per quanto concerne la nascita della colonna romana, anche a Roma c’era fin dal 1971 un nucleo di compagni vicini alle Br che militavano nell’area di Potere operaio. Ricordo che si parlava della zona di Cinecittà, ove erano avvenute azioni contro i fascisti. Alcuni compagni di Roma andavano a Milano e tenevano i contatti con Franceschini e a volte anche con Curcio. Si trattava di compagni di quartiere, non inseriti in alcuna realtà di fabbrica o di scuola. Da noi erano considerati un poco come barboni, anche perché facevano dei furti per sopravvivere. Una volta rubarono la testa di una mummia o di una statua che poi rivendettero per meno di 200 mila lire. Un’altra volta rubarono, sempre a Roma, una collezione di francobolli. Questo primo tentativo di costituire un nucleo Br a Roma fallì nella primavera del 1972, quando a Milano e a Torino decidemmo il passaggio alla clandestinità. Tale decisione fu determinata da una serie di elementi di carattere politico-organizzativo, a partire dalla riflessione sugli arresti dei primi di maggio 1972, determinati sia dalle indagini di polizia e magistratura sia dalle rivelazioni fatte da Marco Pisetta dopo il suo arresto. A seguito delle rivelazioni si accelerò il processo di clandestinizzazione degli uomini e delle strutture. Tale scelta non fu condivisa da molti compagni romani che si staccarono dalla organizzazione». [7]
– Anna Laura Braghetti: «Esiste un racconto molto significativo sul primo incontro fra i milanesi e i romani. La leggenda vuole che tramite intermediari fosse stato fissato un abboccamento fra Morucci, Franceschini e Moretti. Franceschini e Mario arrivarono su una vecchia Fiat, con addosso scarpacce pesanti e orridi cappotti sformati. Valerio invece era smagliante: una bella macchinetta, occhiali neri alla moda, giacca blu doppiopetto, stivali. Immagino si siano guardati e si siano fatti reciprocamente schifo. I brigatisti avevano fatto della sobrietà nordica e dello stile di vita operaio un dogma e tenevano una minuziosa contabilità ritenendo di avere rapinato le banche in nome e per conto del proletariato. Ma Valerio non vedeva francamente la ragione di tanto moralismo e veniva pur sempre da un’area politica – quella della Autonomia operaia – che negli anni successivi avrebbe prodotto dirigenti capaci di dire ai ragazzi: “Guai se trovo uno di voi cretini che distrugge un’automobile di lusso. Le belle macchine si rubano, e poi ci si fa tutti un giro”. Giorgio Bocca, nel suo bellissimo libro ‘Noi terroristi’ fa raccontare a Morucci quel meeting: “Quando li ho conosciuti nel 71 erano tipi tristissimi e anonimi, mimetizzati sul fondo di grigiore di una città operaia, sempre atteggiati ai modi che loro pensavano consoni a dei rivoluzionari professionisti. Io ero arrivato all’appuntamento su una Mini cooper gialla con tetto nero e con una ragazza bionda. Loro vennero all’appuntamento con una 850 grigio sbiadito e un enorme portabagagli sul tetto. Franceschini con gli occhiali, senza baffi, ingobbito come sempre, cinereo in faccia e nei vestiti. Moretti un po’ più aitante, con indosso un assurdo tre-quarti spigato grigio e marrone, con le spighe enormi”. I tre quindi non si piacquero e le Br non si mossero dal Nord finché non decisero che era ora di andarsi a cercare il cuore dello Stato. E lo Stato significava Roma» [8]
– Alberto Franceschini sui compagni romani: «Erano faciloni e chiacchieroni. Le regole di compartimentazione con loro erano inutili. Ogni tanto ti arrivavano a casa con la testa di una statua rubata in una chiesa per chiederti di piazzarla presso un antiquario di Milano. Quello di rubare pezzi di statue era il loro modo preferito di finanziarsi. A me i rapporti con loro lasciavano un cattivo sapore di borbonesco e di sottoproletariato. Ripetevo in continuazione che una forza rivoluzionaria non può vivere alla maniera dei tombaroli, che i soldi bisognava andarseli a prendere nelle banche. Mi guardavano con quella loro aria sempre stanca e tranquilla, per poi rispondermi invariabilmente: ‘Hai ragione, compagno, ma intanto vedi di piazzare questa zucchetta». [9]
Fonti:
[1] Franceschini, Buffa, Giustolisi, Mara Renato e io, Mondadori, 1991
[2] Morucci, Ritratto di un terrorista da giovane, Piemme 1999
[3] Morucci, op. cit.
[4] Morucci, op.cit.
[5] Memoriale Morucci
[6] Sergio Flamigni, Patto di omertà, Kaos edizioni, 2015
[7] Commissione parlamentare d’inchiesta sulla strage di via Fani sul sequestro di Aldo Moro e sul terrorismo in Italia (volume 54, pagina 345)
[8] Anna Laura Braghetti, Paola Tavella, Il prigioniero, Feltrinelli
[9] Braghetti, Tavella, op. cit.