di Luigi Asero
Nella Sicilia che si appresta a ricordare il 26° anniversario della strage di Capaci aleggia un’aria strana. L’antimafia di facciata scricchiola sotto i colpi ben assestati delle procure impegnate nelle indagini che svelano come l’antimafia, per alcuni, fosse uno strumento di potere. Né più e né meno come la stessa mafia che si propugnava di combattere, e della quale è forse il miglior alleato.
Numerosi ed eclatanti gli arresti e gli avvisi di garanzia notificati e dei quali ci siamo occupati nei giorni scorsi. Altri probabilmente arriveranno.
L’antimafia crolla dopo i colpi assestati a Palermo dove si scoprì il “sistema Saguto” relativo alla gestione dei beni confiscati e a Caltanissetta dove è nel “vivo” l’indagine sul “sistema Montante”, imprenditore icona degli imprenditori che si ribellano a Cosa Nostra e che nei fatti sarebbe invece accusato con decine di altri personaggi di alta caratura, di aver invece sottomesso la politica regionale al suo volere (e dei suoi amici boss).
Inevitabile, per lo scrivente, non tornare al 2009 quando scrisse un articolo che intuiva dove si stava andando “I nuovi professionisti dell’antimafia“, ripreso integralmente anche nel volume “La mafia dell’antimafia” di Antonio Giangrande.
Ne riportiamo qui un breve estratto:
l’antimafia come strumento di potere. Che può benissimo accadere anche in un sistema democratico, retorica aiutando e spirito critico mancando. E ne abbiamo qualche sintomo, qualche avvisaglia. Prendiamo, per esempio, un sindaco che per sentimento o per calcolo cominci ad esibirsi – in interviste televisive e scolastiche, in convegni, conferenze e cortei – come antimafioso: anche se dedicherà tutto il suo tempo a queste esibizioni e non ne troverà mai per occuparsi dei problemi del paese o della città che amministra (che sono tanti, in ogni paese, in ogni città: dall’acqua che manca all’immondizia che abbonda), si può considerare come in una botte di ferro. Magari qualcuno molto timidamente, oserà rimproverargli lo scarso impegno amministrativo; e dal di fuori. Ma dal di dentro, nel consiglio comunale e nel suo partito, chi mai oserà promuovere un voto di sfiducia, un’azione che lo metta in minoranza e ne provochi la sostituzione? Può darsi che, alla fine, qualcuno ci sia: ma correndo il rischio di essere marchiato come mafioso, e con lui tutti quelli che lo seguiranno. Ed è da dire che il senso di questo rischio, di questo pericolo, particolarmente aleggia dentro la Democrazia Cristiana“. Sciascia intuisce quindi che delle persone, in nome dell’antimafia, ne sarebbero diventati professionisti. Non calcola però che se non proprio professionisti, già all’epoca si affermavano diversi “buoni apprendisti” pronti a cambiare il senso della verità, pronti a sfruttare il potere che già all’epoca derivava dai mass media. Intuisce quindi una grande verità, sbaglia totalmente la focale scegliendo come obiettivo proprio Paolo Borsellino. Legittima con la scrittura e la cultura la più grande campagna di delegittimazione mai iniziata da Cosa Nostra e dai poteri che da sempre, per convenienza, la sostengono.
I rischi insomma che in nome di un movimento trasversale sostenuto da tutti quei cittadini stanchi dell’oppressione mafiosa in Sicilia s’insinuassero personaggi che, seppur non mafiosi, ne avrebbero soltanto cavalcato l’onda per meri interessi “di bottega” era possibile intuirli già in tempi passati. E in fondo ci vuol poco considerando l’intima natura dell’essere umano.
Oggi ci si appresta a ricordare, e chi può dimenticarla?, la strage di Capaci dove Giovanni Falcone con Francesca Morvillo, Vito Schifani, Antonio Montinaro e Rocco Dicillo hanno perso la vita. Ogni commemorazione -spiace dirlo ma è la triste realtà- è stata una sorta di passerella politica e imprenditoriale. Quest’anno forse si può sperare. Nuovamente.
Perché dalle macerie della finta antimafia può nascere una vera, seria, cosciente antimafia.