di Salvo Barbagallo
Un articolo di Valter Vecellio pubblicato su “La Voce di New York” (“Che fine ha fatto il terrorismo dell’Isis? Continua a far morti, ma sui giornali e nelle televisioni se ne parla e se ne scrive sempre meno. Fa più “notizia” un incidente d’automobile…”) indirettamente ci ha portato di buon mattino a riflettere sullo “stato” e sul “ruolo” dell’informazione ai giorni nostri e su tante altre cose.
L’informazione. Il primo interrogativo (vecchio quanto il mondo moderno) è: c’è una stampa libera? La risposta banale (vecchia quanto il mondo moderno) è un secco “no”, e le ragioni sono le più svariate.
Innanzitutto c’è da dire che la “stampa”, i mass media, cioè, sono imprese commerciali detenute da privati o gruppi economici, il cui interesse primario – più che legittimo – è quello di produrre “utile”. Quindi i mass media sottostanno principalmente alle esigenze di mercato e danno all’utente quell’informazione che l’utente si attende di trovare in un determinato momento. Il guaio è che, a conti fatti, ci si ritrova su una informazione “indotta”, se non letteralmente “imposta”, e pertanto facilmente “manipolabile”, nel senso che convoglia e indirizza l’attenzione dell’utente su argomenti determinati “a monte”, anche se fanno riferimento a specifici avvenimenti. Come dire che la scelta (o selezione) della “primarietà” di una informazione (quale che sia) che viene data, dipende da un “controllo” delle stesse informazioni e dall’uso che si intende farne. Politica ed economia sono i fattori predominanti della gestione dell’informazione e, per ricaduta, sui diretti o indiretti condizionamenti dell’opinione pubblica. Che si ammetta o non si ammetta, l’informazione è sempre di parte anche quando viene sostenuto che è “al di sopra” delle parti. Fino allo scorso anno si contavano in Italia ben 19 giornali che venivano definiti di partito, la maggior parte dei quali sono falliti, pur avendo ricevuto cospicui aiuti finanziari dallo Stato. Nelle edicole si trovano quotidiani nazionali e regionali che sono identificabili in precise “aree politiche” o in “aree economiche” e online decine e decine di giornali fluttuanti da una sponda all’altra. Oggi, nella realtà, è l’utente che è libero nella sua scelta dell’informazione che più è rispondente al suo modo d’essere, che più lo soddisfa: è l’utente, cioè il “cittadino” comune, che liberamente può confrontare notizie ed opinioni, forse prendendo consapevolezza che notizie ed opinioni sono costantemente “di parte”. Nessuna meraviglia, pertanto, se argomenti importanti (come quelli sul terrorismo islamico) sui quali i mass media hanno martellato per tanto e tanto tempo, all’improvviso scompaiono dalle cronache, e la “notizia” più da portare alla ribalta sia un incidente d’automobile. C’è da chiedersi, semmai, il perché
La necessità dell’etichetta. Una volta c’erano i partiti ben identificabili nella loro composizione politica, oggi ci sono le coalizioni le cui coloriture interne spesso sono così contrastanti che è difficile comprendere la vera “natura”, se non le vere “ragioni”, che le tengono unite. Il disorientamento che ne consegue è comprensibile. E pur tuttavia il cittadino “comune” avverte l’esigenza di una sua collocazione, da una parte o dall’altra che si voglia: Se non si ha una etichetta ci si può ritrovare “fuori” dai contesti senza neanche accorgersene e si cade negli isolamenti, individuali e collettivi che siano. Quando poi, così come puntualmente si verifica, si hanno, da parte delle collettività ritenute “isolate”, reazioni comuni, ecco che vengono affibbiate etichette che magari non corrispondono ad una “comprensibile” realtà. Le reazioni che non possono essere controllate, né catalogate, scuotono i “sistemi”, finendo con il provocare ulteriori reazioni. Le possibilità di “dialogo” e di “confronto” vanno a pezzi, i “sistemi” che vedono intaccato il loro potere si difendono, il cosiddetto “vivere civilmente” va a farsi benedire altrove. Ecco, allora, l’improponibile quesito: “Tu da che parte stai?”. Alla fine il risultato del disorientamento è questo: bisogna necessariamente stare “da qualche parte”. E nella scelta ciò che è giusto può diventare sbagliato. E viceversa… Guai a non schierarsi. Così se Jacopo Morrone, sottosegretario leghista alla Giustizia, in maniera più che ingenua afferma “Via le correnti dalla magistratura, soprattutto quelle di sinistra”, si grida allo scandalo, dimenticando che almeno la Magistratura dovrebbe essere al di sopra delle parti, in quanto amministra Giustizia, e quindi non dovrebbe avere “etichette”, né di sinistra, né di destra, né di altri colori riconducibili alla politica. Anche la Giustizia deve essere necessariamente etichettata?