di Luigi Asero
Ricorre l’anniversario della strage di via D’Amelio, la “strage Borsellino”. L’ennesimo anniversario di una delle tante stragi misteriose in Italia avvenute dall’avvento della democrazia. Un’Italia che vede il suo territorio cosparso di rosso sangue e di nero fumo.
L’ennesimo anniversario, tanto ennesimo che nella mancanza quasi assoluta della verità par quasi male star lì a contare. Per i siciliani quel giorno è oggi. Tutti i giorni è “oggi”. Chi c’era non ha dimenticato, non vuol dimenticare, non sa dimenticare. Come invece vorrebbero che accadesse quanti non hanno interesse ché si giunga alla verità. Ma gli anni sono passati e adesso sono 26. Ci si chiede se si arriverà a capire cosa e chi ha voluto quel sangue innocente, quel sangue di chi rappresentava una delle ultime speranze per i siciliani onesti.
Appena 56 giorni prima era stato il giorno della strage di Capaci, quel giorno della morte di Giovanni Falcone iniziò l’agonia -non visibile- di Paolo Borsellino. Si sapeva, si era capito. Non avrebbero ucciso uno senza uccidere l’altro. Si trattava solo di trovare quello che per i killer (di Stato?) fosse il momento giusto. Le energie dimostrate a Capaci avevano messo in chiaro che ogni mezzo era in campo per ucciderli entrambi. Quindi, ai siciliani più smaliziati come allo stesso Paolo Borsellino, era chiaro che si trattava di momenti, ore, giorni. Non di più.
Ora, uniformandoci agli altri mass media, dovremmo farvi il quadro della situazione. Spiegarvi le tante manifestazioni messe in campo per ricordare il giudice Paolo e i suoi “Angeli” della Quarto Savona 21: Agostino Catalano, Eddie Cosina, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Claudio Traina. Dovremmo dirvi il punto delle indagini, dovremmo spiegarvi i possibili scenari investigativi futuri. No.
Nulla di tutto ciò: solo le parole della figlia più piccola del “nostro” giudice Paolo, invece, hanno un senso: “Chiederò che sia fatta luce sulle responsabilità dei magistrati nelle indagini e nei processi sulla morte di mio padre. A noi e alla mia famiglia il Consiglio ha sempre risposto picche”.
Perché in questa storia, definita “uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana” dalla Corte d’Assise di Caltanissetta con il deposito delle motivazioni (sabato 30 giugno 2018) sono tanti i “servitori” dello Stato che hanno provveduto solo a offuscare la verità. Per inconfessabili motivi certamente. Una sentenza di ben 1865 pagine che tuttavia non chiude il caso, ma semmai -giustamente- lo riapre. Ci chiediamo: se per 26 anni ci hanno preso per i fondelli presentandoci falsi pentiti (a cui sinceramente non credevamo, ma spettava ai giudici sentire e giudicare), senza chiedere nulla a quel magistrato Giuseppe Ayala che sette (SETTE) versioni ha cambiato negli anni, senza -ci si consenta almeno di dirlo- che nulla si potesse fare perché l’allora Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano chiamato a testimoniare al processo sulla trattativa Stato-mafia non solo si presentasse (anche a mandato presidenziale scaduto) ma addirittura ordinasse la distruzione delle intercettazioni che -indirettamente si badi bene- lo riguardavano. Invece non si è presentato e quelle intercettazioni sono ormai distrutte e non utilizzabili.
Parliamo ancora di “parate” e festini?
Ha ragione Fiammetta (ci perdoni se pur non conoscendola la chiamiamo in tono affettuoso, per noi è sempre “la piccola di casa Borsellino”), lasciata sola da tutti quei colleghi di Giovanni e Paolo che ai funerali di 26 anni fa “saremo sempre al vostro fianco”. Ora 13 domande, Fiammetta non vuol altro. E neanche noi. La verità non è parate e palloncini, la verità è faticosa, ma sarà l’unica possibilità di riscatto.
- Perché le autorità locali e nazionali preposte alla sicurezza non misero in atto tutte le misure necessarie per proteggere mio padre, che dopo la morte di Falcone era diventato l’obiettivo numero uno di Cosa nostra?
- Perché per una strage di così ampia portata fu prescelta una procura composta da magistrati che non avevano competenze in ambito di mafia?
- Perché via D’Amelio, la scena della strage, non fu preservata consentendo così la sottrazione dell’agenda rossa di mio padre? E perché l’ex pm allora parlamentare Giuseppe Ayala, fra i primi a vedere la borsa, ha fornito versioni contraddittorie su quei momenti?
- Perché i pm di Caltanissetta non ritennero mai di interrogare il procuratore capo di Palermo Pietro Giammanco, che non aveva informato mio padre della nota del Ros sul ‘tritolo arrivato in città’ e gli aveva pure negato il coordinamento delle indagini su Palermo, cosa che concesse solo il giorno della strage, con una telefonata alle 7 del mattino?
- Perché nei 57 giorni fra Capaci e via D’Amelio, i pm di Caltanissetta non convocarono mai mio padre, che aveva detto pubblicamente di avere cose importanti da riferire?
- Cosa c’è ancora negli archivi del vecchio Sisde, il servizio segreto, sul falso pentito Scarantino (indicato dall’intelligence come vicino ad esponenti mafiosi) e sul suo suggeritore, l’ex capo della squadra mobile di Palermo Arnaldo La Barbera?
- Perché i pm di Caltanissetta non depositarono nel primo processo il confronto fatto tre mesi prima fra il falso pentito Scarantino e i veri collaboratori di giustizia (Cancemi, Di Matteo e La Barbera) che lo smentivano? Il confronto fu depositato due anni più tardi, nel 1997, solo dopo una battaglia dei difensori degli imputati.
- Perché i pm di Caltanissetta furono accomodanti con le continue ritrattazioni di Scarantino e non fecero mai il confronto tra i falsi pentiti dell’inchiesta (Scarantino, Candura e Andriotta), dai cui interrogatori si evinceva un progressivo aggiustamento delle dichiarazioni, in modo da farle convergere verso l’unica versione?
- Perché la pm Ilda Boccassini (che partecipò alle prime indagini, fra il giugno e l’ottobre 1994), firmataria insieme al pm Sajeva di due durissime lettere nelle quali prendeva le distanze dai colleghi che continuavano a credere a Scarantino, autorizzò la polizia a fare dieci colloqui investigativi con Scarantino dopo l’inizio della sua collaborazione con la giustizia?
- Perché non fu mai fatto un verbale del sopralluogo della polizia con Scarantino nel garage dove diceva di aver rubato la 126 poi trasformata in autobomba? Perché i pm non ne fecero mai richiesta? E perché nessun magistrato ritenne di presenziare al sopralluogo?
- Chi è davvero responsabile dei verbali con a margine delle annotazioni a penna consegnati dall’ispettore Mattei a Scarantino? Il poliziotto ha dichiarato che l’unico scopo era quello di aiutarlo a ripassare: com’è possibile che fino alla Cassazione i giudici abbiano ritenuto plausibile questa giustificazione?
- Il 26 luglio 1995 Scarantino ritrattava le sue dichiarazioni con un’intervista a Studio Aperto. Prima ancora che l’intervista andasse in onda, i pm Palma e Petralia annunciavano già alle agenzie di stampa la ritrattazione della ritrattazione di Scarantino, anticipando il contenuto del verbale fatto quella sera col falso pentito. Come facevano a prevederlo?
- Perché Scarantino non venne affidato al servizio centrale di protezione, ma al gruppo diretto da La Barbera, senza alcuna richiesta e autorizzazione da parte della magistratura competente?”.