La bellezza della vita e le sue contraddizioni

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di  Salvo Zappulla

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Ci sono scrittori e scrittrici  che possono permettersi di scrivere liberamente, seguendo il proprio flusso di coscienza e della propria vena artistica, senza doversi piegare alla moda letteraria del momento o adeguarsi alle tendenze di mercato. Grazia Verasani è una di queste. Nel suo ultimo romanzo, “La vita com’è” edito da “La nave di Teseo” racconta una storia fuori da  schemi  e da modelli triti e ritriti  Grazia utilizza una buona dose di ironia e di autoironia per raccontare l’incontro-scontro tra un Giovane Scrittore,  particolarmente ambizioso, particolarmente dotato di intraprendenza e una scrittrice affermata piuttosto stanca, disincantata, quasi demotivata. In verità è lui a cercarla in maniera sfacciata, forse perché vuole sedurla o semplicemente perché vuole essere aiutato a pubblicare il suo primo romanzo. E ne scaturisce un contrasto fortissimo, due vite messe a confronto impietosamente: una, quella del giovane, tutta protesa verso l’ascesa, l’arrampicamento della vetta da conquistare a ogni costo e l’altra, quella della “matura” professionista, che sembra non aver più nulla da chiedere alla propria esistenza, se non di poter essere lasciata in pace nella sue  faccende quotidiane. Eppure tra i due la scintilla scatta, la curiosità ha il sopravvento in un gioco straordinario di dinieghi e aperture.  Le battute della Verasani sono fulminanti, le metafore illuminanti. C’è tutta una filosofia da scoprire in questo romanzo. Una valanga di libri letti che riaffiorano dai ricordi; amicizie, persone influenti che ne hanno tracciato il cammino professionale.  La vita è un posto dal quale non si può fuggire. Ne emerge uno spaccato di umanità, in una Bologna  sudaticcia e fallimentare, impregnata d’alcol e di odori pregnanti. Persone che si imbellettano  per mascherare il disagio e la desolazione, con le loro ossessioni da quietare, ma che alla fine sono costretti ad arrendersi di fronte agli eventi ineluttabili  in cui sono costretti a sbattere .  La vita com’è  è un romanzo sarcastico, intriso di malinconia e di spunti genuini che stimolano a porsi tante domande, sui fallimenti, i successi ottenuti, senza essere autoreferenziali. Un viaggio nella notte alla ricerca di luce, inseguendo le nuvolette di fumo delle sigarette. Un romanzo  nel quale vita e morte si intrecciano, si sfidano in una macabra danza per il sopravvento.  I personaggi trasmettono angoscia, fluttuano nella nebbia, sembrano chiusi dentro un pugno che inesorabilmente, giorno dopo giorno, li stritola, fino ad essiccarli, a privarli della linfa vitale. Vecchietti arzilli che inseguono la giovinezza; giovani demotivati che  aspettano rassegnati la vecchiaia.  In definitiva un’analisi spietata della società in cui viviamo, non c’è rimedio, non c’è scampo, il momento di saldare il conto arriva per tutti

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Grazia Verasani, bolognese, è scrittrice e musicista. Ha cominciato a pubblicare racconti su riviste e quotidiani nella fine degli anni ‘80, grazie al sostegno di Gianni Celati, Roberto Roversi, Tonino Guerra e Stefano Benni. Dal suo romanzo Quo vadis baby? parte di una saga di cinque libri dedicata all’investigatrice privata Giorgia Cantini nel 2005 il regista premio Oscar Gabriele Salvatores ha girato l’omonimo film e prodotto la serie tv Sky diretta da Guido Chiesa. Ha studiato pianoforte classico e vinto il Premio Recanati nel 2005 per la canzone d’autore, ha inciso CD e collaborato con vari altri artisti tra cui Paola Turci, Nada, Elio e le Storie Tese.


Grazia Verasani, mi sono divertito molto a leggere il tuo libro, un divertimento un po’ amaro che mi ha fatto molto riflettere sulla precarietà dell’esistenza.   La vita com’è?  Vale davvero la pena correre, affannarsi per inseguire il successo?

La vita è unica, in tutti i sensi. Pazza, sconclusionata, imprevedibile. Credo che si stia vivendo un po’ sottocoperta, come la protagonista del mio libro, con l’illusione di avere tutto sotto controllo, e invece succede sempre qualcosa che, nel bene o nel male, ci destabilizza, e dobbiamo rivedere le nostre posizioni, arrenderci all’idea di una mobilità che è pari alla transitorietà del nostro passaggio in questo mondo. Mai come oggi, credo, la tentazione è quella di vivere qui e ora, come se il domani fosse un grande banco di nebbia. C’è una sfiducia generale verso la politica, le crisi economiche che non si risolvono, l’assuefazione a vivere schermati, da una tv, da un computer, lontani dai contatti reali, dall’immedesimazione con l’altro, come se vivessimo vite indirette, e chiusi in una sorta di egoismo difensivo. Sì, a volte è proprio questo che sento nell’aria, poi basta il sorriso di uno sconosciuto, una gentilezza, e ci si riallaccia alla speranza che l’umanità riprenda fiato, ritrovi valori di condivisione e solidarietà spicciola. Inoltre, da trent’anni, la tv ha fatto della sottocultura un impero, ci ha reso più superficiali, poveri di spirito critico, ha influito negativamente sull’immagine della donna; anche il linguaggio di Tg e stampa si è uniformato a una spettacolarizzazione che ci allontana dal vero. Senza contare il culto del successo, questa rincorsa alla visibilità a tutti i costi, la furbizia che ha declassato l’intelligenza, l’agonismo in cui ci dibattiamo anche nella fila in Posta. Dico sempre che bisognerebbe ripartire dalle scuole, spiegare ai ragazzi che non ha senso essere le instant star per un giorno di qualche reality, e che il vero successo è fare ciò che ci appassiona, per cui abbiamo lottato, studiato, aldilà dei risultati. Il problema è che abbiamo messo nelle mani delle nuove generazioni una società in cui il merito è un optional, e l’onestà intellettuale un valore retorico.

I tuoi personaggi si dibattono, come presi nella tela del ragno, sembrano vittime predestinate del tempo che scorre implacabile. È solo una mia sensazione?

Quando scrivo è come se aprissi una finestra per osservare ciò che mi sta intorno e entrare in sintonia con cose e persone, e questo non è solo un processo razionale ma è come avere i cinque sensi costantemente allertati. Camminando, frequentando bar, case, quartieri, o viaggiando sui treni, visitando altre città, altri paesi, mi trasformo in una specie di carta assorbente, rubo frasi, storie, annuso, tasto, elaboro, metabolizzo. Il lavoro di uno scrittore è molto simile a quello dell’attore, i panni degli altri diventano i tuoi, sei come un condominio dalle pareti sottili, le vite degli altri si intersecano con la tua, i loro rumori, la loro vitalità, e a tutto ciò abbiamo dato il nome di empatia. A me piace raccontare la realtà per come la vedo, interpretarla, trovare un senso alle cose, o almeno provarci. La mia natura mi avvicina a quei personaggi apparentemente sconfitti, che di un fallimento fanno un punto di forza. Non amo i romanzi apocalittici, dove la disfunzionalità non ha mai remissione, dove non filtra la luce dalle tapparelle, per dirla semplicemente. Ma questo non significa che, come lettrice, io mi accontenti di qualche storia consolatoria scritta più per intrattenere che per far riflettere. Dalla letteratura mi aspetto sincerità, anche nella finzione. E una leggerezza che nasca dal profondo. In un mondo che non vuole più pensare, che privilegia i libri o i film o la musica di massa, io cerco una garanzia di qualità, ma non in senso snobistico. Cerco cioè di vivere la letteratura, e nel mio piccolo di farla, come se fosse un modo per accendere la luce, per chiarire punti oscuri, sbrogliare matasse, insomma: un materasso di bellezza su cui puoi cadere senza farti male, un riposo, una cura, ma anche un risveglio, una sollecitazione. L’andatura dei miei personaggi è spesso traballante, le donne che descrivo sono quelle che vedo, lontane da stereotipi, forti perché ammettono le loro debolezze, disarmate ma ugualmente combattive.

 

È più difficile vivere o scrivere?

In uno dei miei primi romanzi feci dire a un personaggio: “C’è chi scrive e c’è chi vive”. E anche nell’ultimo c’è una parte dedicata a questo binomio, che in realtà è concatenato. Per me scrivere resta un’attività faticosa, ma anche un’astrazione indispensabile. Prima di mettermi all’opera passo lunghi mesi di ozio apparente, è come se facessi le riserve per l’inverno, incamero ogni cosa che vivo, prendo appunti. Poi mi tuffo nell’ignoto, perché raramente ho tutto in testa per filo e per segno. Mi piace che la storia vada dove vuole, come se la scrivesse un altro. Credo che scrivere sia vivere un po’ in differita, come raccogliere un oggetto dalla strada e poi andare a casa a dipingerlo nel silenzio di una stanza. La testa è in fermento, ogni fibra del tuo corpo, la fantasia, la memoria. Scrivere è più come rivivere che vivere, c’è uno scarto di lancette, una posticipazione. E sì, niente è facile. Ma almeno quando scrivi fai un po’ di ordine, cosa che nella vita è più complicato.

 

Dove sta andando il mondo dell’editoria? Non ti sembra che si pubblichi troppa roba commerciale?

La mia sensazione è che gli editori pubblichino tanto, troppo, senza avere più un’idea chiara di cosa vuole il mercato. Una volta la narrativa di cassetta serviva a finanziare la narrativa alta, ora non so se sia ancora vero. Il dramma è che i lettori sono sempre di meno, o comunque pochi rispetto alle quantità di libri che si stampano. In tv non si promuovono libri ma prodotti. Personaggi di vario spettacolo si scambiano favori su stampa e tv, implodendo il resto. Gli uffici stampa delle case editrici agonizzano, privilegiano il personaggio, il giornalista, il politico, l’artista, e di questo passo forse un giorno avremo più cuochi che scrittori. Perché i ristoranti sono pieni, la pancia è la priorità, e le librerie si riempiono solo a Natale, vendendo sempre i soliti noti. I best seller di qualità, nei primi posti delle classifiche, sono sempre più rari. Ci trovi Fabio Volo, che supera persino Camilleri, e cerchi di capire perché. Andrebbe tutto bene se le alternative avessero un loro spazio, se si parlasse anche di loro, cioè di tutti quegli autori che non vanno in tv, che non hanno amicizie utili nel settore, che non possono contare su un’adeguata promozione e che, pure, scrivono bei libri,  ma rischiano di non campare di questo, o di essere espulsi dalla grossa editoria e distribuzione perché non vendono abbastanza. La sensazione, oggi, è che più vali e meno vendi. Più sei isolato, meno il tuo libro sarà esposto. Forse ha sempre funzionato così, ma adesso c’è un evidente abbassamento della qualità. Certo, ci sono ancora nicchie e piccoli editori coraggiosi. E autori che se ne fregano di essere famosi. Le strade che si possono percorrere sono tante.  Ma per quanto?  Mi sembra chiaro che occorre qualche cambiamento, e che la tv e la politica abbiano responsabilità enormi in questo stallo generale.

Cosa ne pensi dei premi letterari? Alcuni scrittori affermati si lamentano del fatto che siano “poco limpidi”, magari dopo essere stati esclusi dalla rosa dei finalisti.

Non condivido l’arroganza autoreferenziale degli esclusi, quando l’invidia supera ogni obiettività. Un tempo c’era una società letteraria, e gli autori si spalleggiavano di più tra di loro, forse. Ma sempre in ambiti ristretti, quello “romano” soprattutto, legato allo Strega, che in qualche modo ha sempre dettato legge. Thomas Bernhard ha scritto tutto quello che si poteva dire sui premi. Su una sorta di implicita “corruzione”. La realtà è che, più che gli autori, è il potentato editoriale a decidere. L’autore più scafato può insistere, chiamare gli amici della domenica per estorcere voti, e questo riguarda la dignità personale. Non vorrei sembrare snob, ma credo nello stile. Lo stile con cui si gareggia o ci si defila credo sia importante. La pretesa di una trasparenza oggi sembra anacronistica. Io credo che non si debba smettere di denunciare il malcostume in ogni ambito o premio in cui spadroneggiano i giochi di potere. Sono convinta che le cose possono sempre cambiare, e in meglio. Che niente sia immutabile. Posso dire che negli ultimi anni sono spesso rimasta delusa dai libri vincitori. Ma questo, ovviamente, riguarda il gusto di ognuno.

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