di Luisa Debenedetti
“Irrequiete notti”, silloge di Matteo Pugliares, colpisce innanzitutto per la chiarezza e l’immediatezza dei versi.
L’autore si presenta come un poeta “puro”, la cui ispirazione non nasce dai libri, dalla storia letteraria, dall’accortezza estetica, ma direttamente dalla vita, dalla realtà mai filtrata da prospettive già pronte e istituzionalizzate, percepita attraverso i sensi che ci aprono quindi alla presenza di Dio nel mondo. I sensi sono grandi input e output della nostra umanità, rappresentano gli stimoli di un’esistenza autentica, ci insegnano ad essere realmente presenti per vedere, sentire, toccare, gustare, qualcosa di ancestrale ma sempre nuovo.
In – Arriverai una mattina d’inverno -, l’impronta dell’autore è lampante, inconfondibile. Cuore, casa, padre, acqua, pulita, rabbia, silenzio, lasagne, nonna: le parole meno ricercate che si possano immaginare. Generiche, persino banali. Ma da un “materiale” così povero, ovvio, scontato, Matteo riesce a ottenere, senza la minima forzatura retorica, letteraria, un lampo lirico straordinario con quel “Tornerò a godere la vita”. (pag. 14)
Ci sono momenti in cui la scrittura impavidamente chiara, umile, inerme, si offre nuda, senza medaglieri e senza pennacchi letterari, anche nella crudezza di alcune espressioni. Una scrittura che si misura solo con sé, che conta solo sulla sua forza interna, sull’autenticità e sull’urgenza di ciò che la muove, sulla limpidezza della sua visione e del suo linguaggio:
“Vita ingrata/che, come puttana,/ ti vendi al miglior offerente./…/Mi fido di te/perché sei scema,/ti droghi e dici parolacce/” – E provo tenerezza per te – (pag. 15)
Man mano che si procede nella lettura, la descrizione delle percezioni sensoriali ed emozionali si fa più accesa e viva, come se l’autore dopo un periodo di stasi meditativa riuscisse ad abbracciare il mondo. Egli comincia a vivere nella sua poesia solo dopo il superamento di uno stato di greve e palpabile nebbia. L’opera procede, scandagliando l’animo, ora volta a descrivere l’infinito, ora a volerlo racchiudere in luoghi familiari mai vuoti e sempre carichi dell’incessante, irrequieto lavorio della vita.
La luce e il buio, lo sguardo e il ricordo, la malinconia e l’allegrezza, il cielo e la terra: la poesia di Matteo è un andirivieni lungo la linea del loro confine. Per questo la sua lingua, se accoglie l’oscurità del dolore, mostra il raggio dell’altrove che lo attraversa, se ospita lo splendore del visibile, dà rilievo alle ombre che trascorrono in quell’abbaglio. E questo ritrarsi dall’assoluto non si curva su un’estetica del chiaroscuro, né su una astratta dialettica della luce e dell’ombra, ma segue, con dolcezza e malinconia, le orme di quell’universale cammino in cui nascita e declino, fiorire e sfiorire sono ritmo stesso dell’esistenza, della vita.
E, siccome la vita vive finché c’è un “ancora” da vivere, l’attesa e la speranza sono le sue dimensioni costitutive.
Speranza, infatti, è l’apertura del possibile, fa riferimenti a quei nuovi cieli e a quelle nuove terre che sono promessi dalla religione, dall’utopia, dalla rivoluzione, dalla trasformazione personale che siamo soliti temere, perché arroccati alla nostra identità, assunta come un “fatto” e non come una interminabile e mai conclusa “costruzione”. Noi siamo una costruzione: “Unico pensiero/che sguardo avvolge/e ridona slancio ad un cuore amputato/che si rigenera nell’infinito”. – Voli – (pag. 39)
E se l’attesa è l’ansia che quella costruzione abbia buon fine, la speranza attiva il nostro comportamento affinché sia nelle nostre mani l’accadere del buon fine. L’attesa vive il tempo come qualcosa che viene verso di noi, la speranza ci spinge verso il tempo, come quella dimensione che ci è assegnata per la nostra realizzazione. Il dolore, la sofferenza, l’infelicità sono sempre accompagnati da un margine di speranza:
“E aspetto il balsamo che cura le ferite,/che placa la rabbia/ che mi accarezza l’anima e la rende bella…” – Tu rendi bella la mia anima – (pag 40)
Quando l’attesa è disabitata dalla speranza subentra la noia, dove il futuro perde slancio e il presente si dilata in uno spessore opaco dove il tempo oggettivo, quello dell’orologio, cadenza il suo ritmo sul tempo vissuto che si è arenato, infossato, arrestato e allora:
“Non cesserò di scrutare oltre l’orizzonte/per cogliere girasoli non ancora sbocciati./…/Non smetterò di desiderare un mondo altro che vorrei già adesso…” – Un mondo diverso (pag. 54)
Matteo ci parla della necessità di riscoprire l’importanza dei sensi e di fare una profonda riconciliazione con il tempo che abbiamo, ma noi sprechiamo: “E quando Dio sarà tutto in tutti /il mio mondo sarà ancora là/a godere l’Amore./E ricostruiremo il cielo,/nel mio mondo senza tempo…” – Tu, il mio mondo – (pag. 85). Quello che affascina in questo libro è l’amore di un uomo verso il proprio Dio. E’ forte in Matteo ed è evidente nei suoi testi, la necessità di essere uomini interi, con i propri limiti e le proprie aspirazioni più sincere, sia all’inizio sia durante il cammino di fede che diventa, man mano che si procede, il luogo di incontro con il Divino, a significare che Dio non necessita di santi ma di uomini che, inconsapevolmente diventino santi nel dono di sé e del proprio carico di debolezze.
Grazie. Matteo, per essere riuscito a trasmettere questa fede sincera senza dogmatismi, rispettosa della dignità altrui, raccontando di stelle che leniscono i tormenti dell’anima e “che gentili,/mi sussurrano parole senza tempo./ – Notte incantata – (pag.63)